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Quando si pensa ai customizer statunitensi l’immaginario europeo solitamente pensa al classico personaggio in canottiera, pancia da birra e braccia capaci di sollevare un tronco di sequoia centenaria. Roland Sands, titolare di RSD (Roland Sands Design) è un personaggio molto diverso, più vicino a quello che normalmente noi associamo con i piloti. Non è un caso – Roland, nella sua vita precedente, correva nell’AMA 250. Ma cominciamo dall’inizio.
Roland Sands, figlio di quel Perry fondatore e titolare di Performance Machine (una delle maggiori aziende produttrici di parti speciali negli Stati Uniti) è salito in moto per la prima volta a cinque anni di età, quando i suoi genitori gli regalarono una Suzuki RM50 per il suo compleanno. Leggenda vuole che pochi minuti dopo aver ricevuto quel regalo, Roland sia caduto collezionando la prima di 36 fratture accumulate nella sua carriera di pilota.
Contagiato dal virus del motociclismo, Roland ha iniziato a lavorare come operaio nell’azienda del padre, dove ha imparato le arte della tornitura, sabbiatura e lucidatura. Il regalo ricevuto per la maggiore età è quello che forse ha segnato maggiormente la carriera di Sands: un corso di guida alla California Superbike School, la scuola di guida del guru statunitense Keith Code. Da lì in poi la vita di Sands è cambiata: doveva correre.
Il curriculum di Sands parla chiaro: sulle 250 a due tempi – prima le TZ stradali, poi su quelle da GP – Roland ha corso nel campionato AMA per dieci anni, conquistando 11 gare e il titolo della quarto di litro nel 1998 (stagione in cui è finito sul podio in tutte le gare tranne una) fino a quando, nel 2000, un infortunio – frattura del polso e della schiena – ha fatto decidere a Sands di smettere per dedicarsi alla carriera di preparatore aprendo una sua compagnia. Oggi RSD ha 13 dipendenti ed è considerato l’atelier più quotato del mondo.
Roland è legato alla Casa dei tre diapason fin dall’inizio della sua carriera, come abbiamo visto.
«Si, ho iniziato a correre proprio con una Yamaha, e senza voler peccare di piaggeria posso dire di avere grande stima per le loro moto. Parlando in linea generale, quando le smonto per creare i miei progetti apprezzo il fatto che non ci siano troppe integrazioni fra i vari componenti – in questa maniera sono più libero di sostituire quello che mi piace. Ho un ottimo rapporto con Yamaha, il che mi ha permesso di essere coinvolto nei progetti Hyper Modified, impegnativi ma infinitamente gratificanti»
Tanto la VMAX quanto il TMAX campeggiano in bella vista nella sua officina, e osservandoli è facile intuire che crearli non è stato per nulla semplice
«Abbiamo letteralmente sputato l’anima per farle entrambe» ride Roland, «principalmente perché i tempi erano ristrettissimi. Abbiamo impiegato circa 6 settimane di lavoro per TMAX, qualcosa di più per VMAX. In entrambi i casi, quando li ho smontati ho capito cosa stia dietro al costo di mezzi del genere: ogni pezzo è incredibilmente curato, i tecnici Yamaha hanno studiato nel minimo dettaglio ogni cosa»
Adesso stai lavorando ad una XV950 che, nella tua interpretazione, si avvicina moltissimo ad una Café Racer con più di un richiamo al flat-track. Come sta andando?
«Molto bene, perché la Bolt (Roland la chiama con il nome americano, NdR) si presta molto alle personalizzazioni. L’integrazione fra le diverse componenti è ridotta ai minimi termini, per cui è possibile decidere cosa togliere e cosa sostituire nella massima libertà. L’impianto elettrico, per dirne una, è di tipo tradizionale. Non si smonta il faro anteriore per scoprire che dentro c’è metà dei cablaggi dell’intera moto – insomma, è una moto bella su cui lavorare per un preparatore come me. Sono ovviamente partito dal mondo delle gare – è da lì che vengo, ed è qui che voglio rimanere – la vedrete a breve, probabilmente nel contesto di un progetto Yamaha Yard Built. Ce l'abbiamo giù in officina (vedi apertura) ma stiamo ancora cercando di capire bene cosa fare»
Da dove parti nelle tue elaborazioni?
«Diciamo che inizio cercando di capire dove voglio arrivare, poi di solito faccio un rendering veloce della moto finita per capire se sto andando nella direzione giusta. Ma questo è solo l’inizio, bisogna vedere la moto dal vivo per capire come vengono percepiti certi volumi alla vista. Quindi di solito modelliamo a mano un po’ di maquettes dei pezzi, a volte facciamo addirittura semplici sagome cartonate; poi, quando siamo più sicuri del nostro lavoro, passiamo alla prototipazione rapida. Se tutto va bene, alla fine produciamo i pezzi che a seconda della replicabilità del progetto entrano nel catalogo RSD o meno»
Ma a parte progetti di alto profilo come questi in cui ti ha coinvolto Yamaha, cosa succede normalmente quando un cliente viene a chiederti una moto? Bisogna avere le idee chiare o affidarsi completamente al tuo genio?
«Normalmente si tratta di una via di mezzo. I clienti vengono da me perché hanno visto qualcosa di mio, quindi solitamente mi chiedono di fare sul loro mezzo qualcosa di simile a qualcuna delle mie creazioni. A me spetta capire se questo sia possibile o se invece sia meglio andare in un’altra direzione – devo farmi un’idea della persona che ho davanti e dei suoi gusti per assecondarli al meglio. Ma un principio è incrollabile: non faccio moto da esposizione, estreme, che poi su strada non si guidano. Insomma, non vedrete mai una RSD con un posteriore da 280»
un principio è incrollabile: non faccio moto da esposizione, estreme, che poi su strada non si guidano. Insomma, non vedrete mai una RSD con un posteriore da 280
Roland collauda personalmente tutte le sue special, anche perché qui negli USA omologarle è di una facilità quasi sconcertante: basta che sia anche solo vagamente in grado di circolare e si può ottenere una targa.
«Si, mi piace guidare tutte le mie creazioni, e io o qualcuno dei miei ragazzi dobbiamo comunque provare le moto prima di consegnarle ai clienti per essere sicuri di aver ottenuto l’obiettivo e aver creato una moto guidabile»
Il concetto di guidabile per Sands è molto relativo, vista la cattiveria di alcune sue realizzazioni. Nel suo studio campeggia la foto della special spinta dal propulsore 990 a cinque cilindri fatto da Kenny Roberts, e a suo tempo fece davvero scalpore la Desmo Tracker realizzata su base Ducati Desmosedici RR. In entrambi i casi serviva il manico di un pilota per non farsi del male in brevissimo tempo.
Peraltro, nella sua officina – che trasuda passione da tutti i pori, basta una visita al bagno per rendersene conto – fa bella mostra di sé una Desmosedici di proprietà dello stesso Roland. E’ in qualche modo calzante che l’unico mezzo di serie presente nella sede di RSD sia una moto prodotta in pochissimi esemplari e dalle soluzioni tecniche molto particolari.
«Si, me ne sono innamorato quando l’ho vista, e la prima cosa che ho fatto è stato provarla a fondo. Non riuscivo ad aspettare di scendere in pista, quindi mi sono sparato su uno dei canali di cemento che ci sono qui attorno (quelli dove James Cameron ambientò il celebre inseguimento in moto di Terminator 2) e l’ho messa a cannone. E’ stata una cosa un po’ folle, lo ammetto…»