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Le gare migliorano la specie. E’ un principio che da sempre guida la filosofia delle Case: solo dal confronto, dalla spinta verso il limite della tecnologia che la tecnologia progredisce. E’ solo correndo che si impara come migliorare il proprio prodotto di serie, spingendo la ricerca verso materiali e soluzioni tecniche che fanno evolvere la specie motociclistica.
Le Case giapponesi lo capirono molto presto, e nel primo dopoguerra inviarono moto e piloti a confrontarsi con la concorrenza europea nelle competizioni del Mondiale. Le strade giapponesi, in quel tempo, erano molto diverse da quelle europee: in gran parte ancora sterrate, lanciavano alle moto sfide molto diverse rispetto a quelle imposte dalle strade asfaltate del vecchio continente. E non c’era all’epoca competizione più probante del Tourist Trophy, all’Isola di Man, prova del Mondiale in cui Suzuki ha trionfato per tre anni consecutivi, dal 1952 al 1954 prima con Ernst Degner (che a fine stagione vinse anche il titolo) e poi con Mitsuo Ito, primo ed unico pilota giapponese ad imporsi sul Mountain Circuit.
L’esperienza di quella gara contribuì in maniera significativa allo sviluppo delle Suzuki, ma la sua importanza per la Casa di Hamamatsu non si limitò al pur importantissimo miglioramento genetico della sue moto di serie. Quando Suzuki acquisì il terreno su cui è nato il circuito di Ryuyo – una striscia di terra stretta e lunga vicino al mare, a 20km dal quartier generale – si rivolse a Ito, alla sua esperienza, per disegnare un tracciato probante e selettivo che permettesse di verificare la validità di motori e ciclistiche perché le strade giapponesi, all’epoca, erano davvero molto diverse. E Ito, attingendo alla sua esperienza, scelse di riprodurre a Ryuyo diverse situazioni del Mountain Circuit, perché così facendo avrebbero potuto sfruttare quegli elementi tutti i giorni, senza doversi spostare all’Isola di Man o… dover aspettare un anno fra un test e il successivo.
Il risultato è un tracciato lungo 6,5km, con un rettilineo principale che si snoda per circa 2,3km. Abbastanza per mettere alla frusta qualunque mezzo, e più che sufficiente per conferire alla struttura di Ryuyo il primato di pista test più veloce del mondo. Del resto, la velocità del tracciato – che alterna una sezione velocissima con un tratto più lento e tormentato – è evidente fin dalla piantina. Al termine del rettilineo più lungo c’è un curvone velocissimo che si percorre in piena accelerazione, con un successivo cambio di direzione veloce a destra che porta al tratto più lento. Dopo il tornantone finale, denominato 70R, arriva il terribile rettilineo che permette di “scannare” il motore per poi immettersi nel curvone 200R, una velocissima piega a destra, e staccare per il rampino della 30R. E poi ricominciare, snocciolando le marce dalla seconda alla quinta per tornare a piegare velocissimi a sinistra…
Una pista decisamente vecchio stile (anche per le caratteristiche di sicurezza, perché le vie di fuga non sono generosissime – se pensate al Nordschleife non vi sbagliate di molto) capace di mettere alla prova qualunque motore e qualsiasi ciclistica. Una pista su cui passano tutte le Suzuki, e che in qualche modo le definisce: per andare forte a Ryuyo servono i cavalli, certo, ma anche un equilibrio perfetto fra motore e ciclistica.
Serve un gran motore, perché per uscire dalla 30R deve spingere forte ai bassi, ma anche sostenere di coppia nella percorrenza del successivo curvone a sinistra ed esprimere un allungo da bersi il cervello per farvi divorare il rettilineo che segue. E per i tecnici Suzuki non esistono mezze misure: le sportive che escono da qui devono essere superiori sotto tutti questi aspetti alla concorrenza, che viene valutata qui per stabilire i riferimenti prestazionali da battere. Uno di questi è la velocità media sui rettilinei: le GSX-R, quando nascono, devono essere superiori alla diretta concorrenza.
In fondo al rettilineo più lungo servono anche una gran frenata, un bell’inserimento e la stabilità necessaria in percorrenza. Ma tutto va unito alla giusta agilità nei cambi di direzione veloci, dove la stabilità diventa un nemico contro cui lottare, perché come vedremo nel prossimo articolo, in cui parleremo della filosofia di sviluppo, le Suzuki devono essere anche accessibili e poco faticose da guidare. Nei limiti di una moto sportiva, ovviamente.
La pista può essere utilizzata anche in configurazione ridotta, con la sola metà lenta (a destra nella mappa) per verificare l’handling della moto. Curiosità: le MotoGP Suzuki, prima ovviamente di passare alle piste “vere”, muovono i primi passi proprio sulla pista corta. Motivo? Non esistono piste del Mondiale con rettilinei tanto lunghi, che risulterebbero inutilmente stressanti sui motori senza offrire riferimenti affidabili.
Ma basta teoria: pur non lasciandoci provare le novità in arrivo in prima persona, in Suzuki hanno pensato bene di offrirci un’esperienza in prima persona, in sella al modello precedente, sul modello attuale. Un’esperienza doppia, perché gireremo dietro agli apripista che saranno invece in sella a supersportive in arrivo di cui potremo carpire… la superiorità.
La mattina la pista è stata flagellata da un tifone, ragion per cui la nostra sessione (inizialmente prevista per la mattina prestissimo) è stata spostata al pomeriggio, con il tracciato finalmente asciutto e… un caldo umido asfissiante. Mi chiudo casco e tuta con un po’ di nervosismo, perché tutto il giorno ho sentito sfrecciare i collaudatori Suzuki sul rettilineo che fiancheggia l’aula in cui i tecnici ci hanno raccontato le novità in arrivo, e un po’ di timore reverenziale è d’obbligo. Per una volta – purtroppo – non devo ricordarmi di far partire la Go-Pro: siamo su un circuito di test, e purtroppo le riprese esterne sono vietatissime. So di darvi una cocente delusione, ma per vedere le nuove supersportive Suzuki in azione dovrete aspettare il lancio dinamico, indicativamente nei primissimi mesi dell’anno.
Gli ordini sono tassativi: bisogna rispettare l’ordine, vietato sorpassare o anche incalzare l’apripista perché aumenti il ritmo. In realtà, dopo un paio di giri a velocità piuttosto ridotta per capire da che parte gira il tracciato, il passo si fa interessante anche perché, come detto prima, Ryuyo è una “pista da uomini”. Ci si lancia sul più breve dei due rettilinei, per poi inserire in pieno – quinta marcia – in una curva a sinistra velocissima lottando contro l’istinto che vorrebbe convincermi ad anticipare l’inserimento. Un breve allungo e poi una staccata dolce per una piega a destra da quarta che si rivela più veloce di quanto non sembri all’approccio.
Se amate le pieghe da qui si gode, perché la veloce curva a sinistra che segue sembra non finire più, ma bisogna stare attenti a raccordare bene, lavorando di gambe, per convincere la moto ad inserirsi a destra in un veloce cambio di direzione. Un’ultima piega a sinistra, tutta in accelerazione, e si arriva al tornante veloce 70R da terza marcia. Una piega decisa e riapro allegro cercando di girare stretto per allargare dopo. Pessima idea, perché il fondo sul lato destro del tracciato è sconnesso. Non per incuria, ma perché in questo modo è possibile innescare volutamente una bella sbacchettata in accelerazione, che la “mia” GSX-R 750, la moto che mi è toccata nel primo turno di acclimatamento, digerisce senza grossi sforzi.
Da qui parte un allungo da bersi il cervello. Snocciolo le marce una dopo l’altra, restando sul lato sinistro della pista; verso metà rettilineo c’è un leggero scollinamento fatto apposta per testare le reazioni dello sterzo quando si alleggerisce. I collaudatori Suzuki ne approfittano per innescare una bella, lunghissima, velocissima impennata. Io preferisco tenere gli occhi fissi sulla sinistra a cercare il riferimento della frenata, schiacciato sul serbatoio con la sesta che solletica il limitatore mentre il mio apripista chiude il gas per non staccarci tutti inesorabilmente.
La torre di controllo sfreccia velocissima al mio fianco, aspetto ancora un paio di secondi e inizio a frenare. Giù due marce e inserisco a destra per la curva più insidiosa del tracciato: la 200R, un velocissimo curvone a destra che dopo il primo terzo rivela un bel fondo ondulato nella fascia più interna. Anche questo fatto apposta per verificare la bontà della ciclistica, perché se una moto regge un passaggio a questa velocità su un fondo tanto accidentato potete stare certi che difficilmente la si potrà accusare di avere una ciclistica poco a punto. Dopo un primo esperimento, anche il nostro apripista ci ha mostrato la traiettoria corretta: una linea innaturale, tutta esterna, che però ha salvato le mie coronarie nei passaggi successivi.
Un breve allungo ed arriva la staccata della 30R. La curva dura un attimo e rispalanco l’acceleratore: dentro la terza e via di percorrenza, lanciati di nuovo sul rettilineo breve. Dopo i primi giri il ritmo si fa interessante, i cambi di direzione diventano un po’ più faticosi e bisogna restare concentrati, perché qui gli errori si pagano.
Mi sforzo di guardare la striscia d’asfalto e non le barriere all’esterno che attirano il mio sguardo, e di tenere fissi gli occhi sulla novità che mi precede. Inutile pensare di descriverne il comportamento: pur avendo alternato 600, 750 e 1000 è troppa la differenza di conoscenza del circuito fra me e l’apripista, e il ritmo è per forza di cose nei margini di sicurezza.
Una cosa però l’ho capita, ovvero l’impagabile contributo di una pista come Ryuyo nello sviluppo delle Suzuki GSX-R. Non conosco il tracciato del Tourist Trophy così bene da riconoscere le somiglianze, ma sicuramente il percorso è veloce ed impegnativo come dev’essere il Mountain nel suo tratto più aperto. Anche lasciando perdere le superfici studiate per studiare apposta il comportamento della moto a fronte di situazioni estreme, l’andamento della pista fa emergere la minima reazione inconsulta. Difficile che da una pista del genere possa uscire una moto non equilibrata o anche solo instabile (anche se, bisogna dirlo, nel repertorio Suzuki qualche esempio di moto nervosa non manca: pensiamo alle GSX-R750 del 1985 e del 1996, ma anche alla TL 1000S) perché, come dicevamo in apertura – e vi spiegheremo meglio nel prossimo articolo – uno dei pilastri Suzuki sta nell’accessibilità delle prestazioni. Una moto impegnativa psicologicamente o fisicamente non rientra fra i risultati accettabili, e adesso so il perché.
Una curiosità: tutti i dipendenti Suzuki hanno la possibilità di guidare sulla pista di Ryuyo, a frequenze che dipendono dall’incarico che ricoprono semplicemente motivando la propria esigenza – lo sviluppo di un pezzo, o una maggior conoscenza di un determinato modello – e ottenere il proprio “turno” in sella ad una Suzuki in pista. Se considerate che gli stabilimenti di Toyokawa, dove vengono costruite le moto, sono a pochi chilometri dal circuito, capirete la facilità con cui i ragazzi di Suzuki possono sfogarsi su questo affascinante tracciato. Aggiornate i curriculum ed imparate il giapponese…