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Per molto tempo in Europa si è pensato che i motori quadricilindrici fossero destinati solo alle moto da competizione e non fossero adatti ai modelli destinati ad essere costruiti in gran serie. In Giappone però c’è stato chi a un certo punto ha visto le cose diversamente…
Se per lungo tempo in un lontano passato si era ritenuta ottimale la disposizione del motore con i cilindri in linea longitudinale, i costruttori italiani (Gilera in primis, come visto nel precedente servizio di questa serie) avevano dimostrato che era possibile realizzare eccellenti moto con i quattro cilindri in linea trasversale. La soluzione consentiva un eccellente raffreddamento ad aria e permetteva di contenere la lunghezza del gruppo motore-cambio. La larghezza era sicuramente superiore a quella di un bicilindrico di analoga cilindrata, ma poteva essere mantenuta entro limiti più che ragionevoli.
È interessante ricordare che, visti gli eccellenti risultati ottenuti dalla Gilera e dalla MV Agusta, anche due case inglesi, la Norton e la Velocette, avevano pensato di realizzare dei quadricilindrici da competizione, prima di ritirarsi dalla attività agonistica. La tedesca NSU aveva costruito un motore a quattro cilindri di 500 cm3, che non aveva dato buoni risultati ma che aveva agevolato la realizzazione delle successive straordinarie 250 bicilindriche da GP.
La strada intrapresa dai costruttori italiani era razionale, ma le loro realizzazioni non sarebbero state certo adatte a una produzione di serie. Solo la MV Agusta si era spinta in questa direzione, con la sua 600, ma per tale modello (come pure per quelli da esso successivamente derivati) non erano certo previsti grandi numeri. Niente linee di montaggio, ma una produzione affidata a sistemi poco più che artigianali. Ciò si aggiungeva alla notevole complessità meccanica e faceva logicamente aumentare i costi di produzione.
Le Honda quadricilindriche sono state formidabili protagoniste dei Gran Premi degli anni Sessanta. Costruite in diversi modelli, di analogo schema tecnico ma con dimensioni e prestazioni ben differenti, sono state utilizzate in tutte le classi, con la sola esclusione della 50. Per contrastare i due tempi la casa è stata poi costretta a realizzare quegli autentici capolavori che sono stati il motore a cinque cilindri di 125 cm3 e quelli a sei cilindri che hanno ottenuto straordinari successi nelle classi 250 e 350. Nelle gare delle 500 però la Honda in quegli anni ha schierato sempre una quadricilindrica. Si trattava di realizzazioni raffinate, destinate a vincere le competizioni. Avevano perciò un albero a gomiti composito che lavorava su cuscinetti a rotolamento, il comando distribuzione a ingranaggi, quattro valvole per cilindro, e via dicendo. Trattandosi di mezzi da corsa la complessità meccanica non era certo un problema e il contenimento dei costi non veniva neanche preso in considerazione.
Per la produzione di serie le cose stavano però diversamente e quando la Honda ha deciso di entrare nel settore delle grosse cilindrate lo ha fatto con un motore a quattro cilindri in linea, quello della CB 750 Four, che con quelli delle sue moto da competizione non aveva nulla a che vedere. L’albero a gomiti in un sol pezzo lavorava interamente su bronzine, e il basamento era in due parti che si univano secondo un piano orizzontale. Quest’ultimo tagliava a metà i cinque supporti, il che consentiva di ottenere una elevata rigidezza del “banco” e di fare a meno dei cappelli amovibili.
La distribuzione era monoalbero con comando a catena e le valvole due per cilindro. La trasmissione primaria era affidata a due catene affiancate, disposte centralmente, e la lubrificazione era a carter secco, con serbatoio collocato sotto la sella. Con la sua 750 la Honda ha dato inizio all’era delle quadricilindriche stradali moderne e ha indicato una strada importante, che prevedeva l’impiego di bronzine al posto dei cuscinetti volventi e di un albero a gomiti monolitico.
Pure la Kawasaki (con la famosa Z-1 di 900 cm3, apparsa nel 1972), ben presto seguita dalla Suzuki, nel corso degli anni Settanta è passata con decisione ai quadricilindrici a quattro tempi, ma lo ha fatto adottando una distribuzione bialbero e un albero a gomiti composito, che lavorava su sei supporti muniti di cuscinetti a rotolamento. Quest’ultima era una scelta logica per chi in precedenza aveva fatto solo motori a due tempi, ma sicuramente non era razionale come quella che prevede un albero monolitico che lavora su bronzine. E infatti successivamente entrambi questi costruttori l’hanno abbandonata per seguire la strada indicata dalla Honda. Che, dal canto suo, qualche anno dopo ha fatto come loro per quanto riguarda la trasmissione primaria (eliminando la catena e passando essa pure alla coppia di ingranaggi) e il numero dei supporti di banco. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta hanno iniziato ad affermarsi le teste a quattro valvole per cilindro (Honda CB 750 K e 900 Bol d’Or, Suzuki GSX 750 e 1100).
Poi, nel 1983, è arrivata la Kawasaki GPz 900R (raffreddata ad acqua) e ha spiegato a tutti che la catena di distribuzione conveniva collocarla lateralmente; ciò consentiva di ridurre la lunghezza dell’albero, che ora poteva poggiare su cinque supporti di banco. In seguito, tutti i costruttori di quadricilindrici in linea hanno imboccato con decisione questa strada, con l’unica eccezione della MV Agusta, la cui F4 è nata con la catena centrale (soluzione che adotta tuttora). L’ultima casa giapponese a passare alla catena di distribuzione laterale e all’albero su cinque supporti è stata la Suzuki nel 1996.
Tra gli ulteriori affinamenti che hanno interessato i motori a quattro cilindri vanno segnalati, dopo la rapida affermazione del raffreddamento ad acqua, la riduzione dello spessore della parete che separa le canne contigue e il passaggio dalle canne riportate in ghisa a quelle integrali con riporto superficiale.