Tre Ruote

Tre Ruote
Una storia d'amore, di gelosia e di sfide notturne, nell'epoca dei social
15 settembre 2017

Paolo era il proprietario di una Vespa 125 modificata, nonché ex fidanzato di Giulia. Il suo era il mezzo a motore più potente dell’istituto scolastico in cui ripeteva la seconda liceo da più anni di quanto fosse lecito sopportare: frustrazione mitigata dall’essere l’acclamato e temuto campione di corse fuorilegge disputate tra le strade di quel piccolo paese del Nord Italia. Si vociferava avesse avuto uno zio pilota, forse morto in una di quelle gare clandestine; o forse no, lo zio era morto accoltellato appena sceso dalla moto con la quale correva nelle albe fredde della pianura padana, ed il suo torto sarebbe stato l'avere un carattere incline alla prepotenza, che non è mai bella. Non lo sapremo mai, di tutti i fuorilegge non si conosce mai la storia, tuttavia di Paolo giravano video in cui derapava e impennava su strade di montagna con la sua Vespa truccata. Di lui, nell’epoca dei social, un minimo di storia c’era e la conosceva anche Carlo, soprattutto da quando aveva preso ad accompagnare a casa Giulia dopo scuola. Da quel momento, infatti, se lo era ritrovato all’uscita a fissarli, seduto sulla Vespa a lanciare occhiatacce non solo alle minigonne di lei, ma anche a quel maledetto motorino sgorbio, colpevole di farle svolazzare di fronte a tutti: non proprio il modello più alla moda del momento, gli era stato consegnato un mese prima nel giorno del suo sedicesimo compleanno. Appena il padre gli aveva gridato: “è arrivato il motorino!”, si era subito precipitato per le scale immaginando, in quei brevi secondi, tutti i 125 comparsi negli ultimi mesi sulle copertine delle riviste di moto più gettonate: ma quando aveva visto un triciclo rosso fuoco era rimasto immobile e l’amore per le moto, che fino a quel momento gli invadeva la testa, aveva preso la forma di qualcosa simile ad un triste calesse a trazione somara. Quando si sogna una moto, la si sogna a due ruote, non si sognano due occhioni tristi ed un muso stanco.

Avrebbe voluto protestare, ma il coraggio gli era svanito guardando il padre sorridere adagiato sulla sella; si era solo chiesto se tutti i sacrifici per ottenere la patente non fossero stati sprecati o, peggio, umiliati. Alla fine, dissimulando una delusione irredimibile, aveva ringraziato e accettato quel triciclo sgorbio: il giorno dopo lo aveva portato a scuola e parcheggiato insieme agli altri scooter, tutti a due ruote. Tra quelli, un "tre ruote" non passava certo inosservato e il suo riceveva regolarmente le attenzioni sadiche e creative dei compagni biruotati: avvolto nella carta igienica, riempito e decorato con strati di schiuma da barba, o arricchito di tubi e manettini come uno scaldabagno. All’uscita dalle lezioni passava almeno una mezz’ora a ripulirlo, sperando in tempi meno feroci e in un riscatto eroico su strada, dove quel tristo treppiede sfoggiava le sue caratteristiche migliori procedendo come su rotaia e facendosi notare da tutti gli altri utenti, auto in retromarcia o in inversione comprese. Il resto – gli sfottò e le foto fatte circolare per unire vergogna al dileggio – contava ancor meno da quando Giulia gli aveva chiesto un passaggio a casa, seguito poi da molti altri. Era la ragazza più desiderata dell’istituto, alla quale fino quel momento non era mai riuscito a dire qualcosa di diverso da un “ciao” imbarazzato. Ma se i miracoli esistono, un giorno si era avvicinata e gli aveva chiesto:

«L’autobus è in ritardo, e il tuo mi sembra l’unico mezzo di cui mi possa fidare. Ce la fai a portarmi a casa?».

Diventato rosso più dello scooter, non ricordava se aveva risposto con un “sì”, o annuito in silenzio: ricordava solo di essere andato via insieme a lei, con più occhi addosso di quelli sui piloti alla partenza di un Gran Premio. Arrivati sotto casa l’aveva osservata infilarsi rapida nel portone di ingresso, seguita da fischi e commenti di alcuni coetanei appollaiati su scooter o infilati in minuscole vetture spernacchianti e lentissime ma, per contrappasso, capaci di urlare musica a volumi giganteschi. Alcuni giorni dopo, fuori scuola, altri ragazzi la seguivano in processione con la solita trafila di fischi e schiamazzi, ormai il ghiaccio era rotto, e Carlo aveva gettato la maschera e le aveva offerto uno strappo, guadagnandosi in un colpo solo le braccia di lei intorno al collo e il privilegio di accompagnarla a casa anche nei giorni a seguire. Uniche storture: aver alimentato il fiume inquinato e sempre in piena del gossip da socia,l e spinto l’ex fidanzato ad aspettarli all’uscita, dapprima quasi furtivamente, poi immobile ed erto sempre di fronte a loro, dall’altra parte del marciapiede.

Ma quel precario equilibrio non durò a lungo, perché senza alcuna ragione Giulia, verso la fine dell’anno scolastico, iniziò ad evitare Carlo, rifiutare i suoi passaggi e dirigersi verso la fermata dell’autobus, lo sguardo perso. Paolo aveva ripreso a girarle intorno, ed era il solito gradasso, le torceva la testa e ne aspirava il fiato, ne lisciava i capelli con forza mentre lei guardava dritto, rigida, assente. Lei ci parlava, forse con meno trasporto di un tempo, forse con una diversa eloquenza, e quel cambio di atteggiamento fece risaltare uno sguardo asimmetrico nel volto, una ritrosia quasi vergognata ed un eccesso di trucco del tutto sconosciuti alla bella ragazza dei primi passaggi in triciclo. Carlo osservava attentamente, e non capiva. Un giorno, pioveva, erano tutti lì, sull’autobus, e si lanciò.

«Perché non mi parli più?» chiese a bruciapelo.

«Fatti miei» rispose lei, cercando di spostarsi.

«Stai di nuovo con Paolo? Puoi dirmelo, non mi metto mica a piangere» era una scommessa, però.

«No, senti… hai capito male… stanne fuori!»

Dal fondo del bus arrivò Paolo, senza dire niente la guardò con un ghigno e le mostrò il proprio smartphone, agitandolo come se volesse farle vedere qualcosa, il bus si fermò: Giulia scese, da sola. Carlo si accorse che non era la sua fermata.

Forse fu l’umiliazione, oppure la sicurezza di avere tre ruote, quella sicurezza di poter osare dove la maggior parte degli altri non ha il coraggio, ma qualche giorno dopo l’incontro sull’autobus, all’uscita di scuola Carlo andò diretto da Paolo e gli disse solo: ”Stasera al curvone, alle 9”, fissandolo negli occhi prima di andarsene. L’altro non rispose, se non con un sorriso di scherno. Era appena ora di pranzo, quel momento in cui non torni a casa da scuola per evitare di iniziare la routine pranzo-compiti. Avevano tutto il tempo per prepararsi.

A meno di un’ora dalla gara, Carlo ripensò ad una frase, una frase stupida: “Il tempo non dipende dall’orologio che indossi”.

Sarebbe stato bello, pensava, se quel principio fosse stato applicato alle moto: in fondo, l’abitacolo era lo stesso per tutti ed era fatto di sole, aria e paesaggi. Invece aveva capito di essere in una parte di mondo dove due adolescenti non possiedono niente se non la loro presunzione, non importa se hanno una motocicletta ad unirli: anzi, il suo possesso era divisivo fino a renderli avulsi e opposti l’uno all’altro. Se a quella miscela si aggiungevano le donne, poi, i risultati erano deflagranti.

Prese il casco integrale, i guanti, le protezioni e si avviò verso il triciclo, parcheggiato sotto casa. Salutò suo padre intento ad innaffiare il giardino. Era un caldo martedì di giugno, e per strada non c’era nessuno. Mise in moto e ripassò a mente il piano. Il luogo indicato era uno stradone tra paese e campagna, caratterizzato da asfalto lucido e scarsa illuminazione. Percorribile in un solo senso, era collegato a due rettilinei, uno a precederlo e l’altro a seguirlo.

All’appuntamento, sorrise trovando Paolo in pantaloni corti e t-shirt. Era in sella ad una Vespa 150 truccata e, oltre al solito casco a scodella, indossava solo un paio di ridicoli occhiali gialli.

Partirono per il giro di ricognizione. Il rettilineo precedente la curva era l’unica parte del percorso ad essere illuminata: la curva a gomito ed il resto del percorso erano invece immersi nel buio delle campagne circostanti. Anche in quel semplice giro di prova la Vespa si distanziò molto dall’avversario, al punto da divenire, già prima della curva, solo un puntino rosso in lontananza. “Tutto secondo i piani” - mormorò Carlo - e, proprio dove il buio si impadroniva della curva, accostò il mezzo e scese. Guardò per qualche attimo il tornante ripensando al modo in cui poco prima si era inclinata la Vespa, alla sua traiettoria e poi si diresse verso i cespugli ai bordi della strada. Pochi minuti dopo raggiunse l’avversario all’arrivo, trovandolo esaltato dal quel ritardo, strafottente e sicuro della vittoria.

Alla partenza la Vespa schizzò in derapata, guadagnando metro su metro e lasciando una lunga striscia nera sull’asfalto con la ruota posteriore. La ruota motrice del tripode, invece, faceva il possibile. Alla curva, Paolo arrivò sparato e accarezzò i freni poco prima di entrarvi. Carlo invece fece leva sui tre punti di appoggio dello scooter, rimanendo più esterno e attraversando indenne la distesa di ghiaia da lui stesso collocata in piena traiettoria poco prima, durante il giro di prova. La sorte della Vespa e del suo pilota fu molto differente: dall’interno della curva, la forza centrifuga li scaraventò verso il metallo affilato del guardrail con cui la strada era recintata, e strappò via casco ed occhiali, mentre sull’asfalto rimanevano lembi di pelle provenienti da mani, faccia e gambe. Poi ci fu l’impatto, sordo. Qualcosa volò via lasciando una traccia di sangue in aria.

Carlo fermò il triciclo poco distante e tornò indietro, a piedi. Camminando senza fretta si diresse verso Paolo, cosciente e riverso sull’asfalto. Si fissarono per qualche istante, poi il primo tirò fuori lo smartphone e riprese l’altro che chiedeva aiuto urlando e implorando. Prima portò il dito sul tasto “pubblica”, poi, con l’indice, gli fece cenno di tacere.

«Mio padre mi ha raccontato che anche tuo zio urlava, prima di morire».

A. G. Cozzi

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