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Una lingua misteriosa dai toni avulsivi. Un intreccio continuo di “click” che si articolano lungo il palato dopo brevi inspirazioni. Un modo di comunicare unico, diverso e distante da ogni altra forma verbale tanto da rappresentare la più piccola famiglia linguistica nella Babilonia dei dialetti africani. Ma ai San probabilmente poco importava di arricchire il proprio linguaggio, la loro forma espressiva era ben più intima ed allegorica, racchiusa in quella serie policroma di pitture ed incisioni rupestri che rappresentano ad oggi il più importante patrimonio storico di tutto il Sud Africa. Le scene di caccia meravigliosamente scolpite nelle rocce del Drakensberg sono la raffigurazione più autentica di un popolo che per secoli ha saputo vivere in queste terre rispettandone i delicati equilibri della natura, riuscendo a far convivere le proprie necessità di vita con il mondo circostante. Dalle ampie vallate del Kwazulu-Natal la vista è magnifica, le terrazze naturali un perfetto punto d’osservazione sul regno animale e dai pinnacoli più estremi il pensiero corre veloce a quegli spaccati di vita quotidiana narrati appunto dai San, poi ribattezzati dai coloni olandesi “boscimani”, gli uomini dei cespugli, e dagli zulù.
E’ la catena montuosa del Drakensberg, situata ad est del paese, che idealmente unisce e separa la repubblica Sudafricana da due piccoli regni: il Lesotho e lo Swaziland. Sarà il fascino del nome o di quella sua inusuale collocazione geografica nel limbo della terra-madre, ma il Lesotho suscita comunque l’emozione di una scoperta. Collocato sulla cima di un altopiano, questo staterello che si eleva dai 1.500 ai 3.500 metri di altitudine offre lungo il suo confine un profilo paesaggistico assai mutevole con l’alternanza di rocce e vallate ove il verde più intenso è l’elemento dominante.
La strada principale che conduce a Maseru è veloce e scorrevole, riflettendo la vitalità e la grande cura di questa capitale che ospita un sovrano dall’ottobre del 1966. Abbandonando la via primaria e spingendosi nell’entroterra si scopre però un altro volto del paese. E’ quello più vero, più sincero, ma anche quello più triste. Le capanne dei villaggi sono costruite con argilla e sterco di animale, non tutte hanno un tetto e l’elettricità è un lusso che non viene concesso. L’acqua nemmeno. Percorriamo a stento un recalcitrante viottolo a 3.280 metri di quota lungo la dorsale nord-est del paese. Il confine di Monontsa è oramai alle porte e dopo aver ottenuto il transito alla frontiera di uscita, una semplice roulotte parcheggiata al margine del sentiero, ci vediamo negare l’accesso al Sud-Africa da una coppia di integerrimi ufficiali: “the gate is closed…sorry…it’s too late”. All’improvviso scoppia il temporale ed in pochi istanti la mulattiera si trasforma in un piccolo torrente. Sono le sei del pomeriggio ma è già notte fonda. Le modeste abitazioni sembrano svanite nel nulla ed è la sagoma di qualche sciagurato contadino, rischiarata dai violenti lampi, ad accompagnarci sulla via del ritorno. In meno di venti minuti siamo fuori da questo inferno, difficile da accettare persino da chi è solo di passaggio.
Incastonato come una perla fra i tesori paesaggistici dello Mpumalanga, lo Swaziland possiede una identità tutta propria che si rifà alle antiche tradizioni e credenze religiose del popolo Swazi.
Abbandonando la via primaria e spingendosi nell’entroterra si scopre un altro volto del paese. E’ quello più vero, più sincero, ma anche quello più triste
Con un prodotto interno lordo pro-capite di 1.677 $, lo Swaziland basa la propria economia sull’agricoltura e sull’allevamento ma anche sull’industria del legname e più recentemente su quella mineraria con importanti giacimenti di oro, diamanti, carbone ed amianto. Ma in mezzo a tanto benessere c’è pur sempre un’Africa diversa che si cela dietro ai suoi innegabili paradossi frutto di antichi retaggi culturali. Sono alcuni culti animistici, maggiormente diffusi nelle aree rurali, ad alimentare le credenze popolari nella stregoneria. Per alcuni fanciulli malformi dalla nascita non ci sarà scampo ed il loro destino, all’alba della vita, verrà consumato fra riti e magiche alchimie. Un fato che si può e si deve cambiare, questa è la ragione che da oltre 50 anni sta spingendo Padre Ciccone, “nobile” missionario italiano, ad intraprendere ogni giorno la sua singolare battaglia contro i sortilegi, reclutando fra campagne e villaggi le creature meno fortunate.
Ma anche l’Africa ha il suo volto piacevolmente selvaggio, volto che riscopriamo poco più a nord, a nemmeno 40 chilometri dal confine settentrionale dello Swaziland. Il parco Kruger, con i suoi 19.500 kmq di savana è la più importante riserva faunistica mondiale. Un dedalo di strade e di infiniti sentieri sabbiosi si snoda al suo interno ed è solo con un po’ di pazienza ed un pizzico di fortuna che si riescono ad avvistare le specie più protette: leoni, elefanti, rinoceronti, babbuini, zebre e giraffe e a capire pian piano l’inestimabile valore di un delicatissimo ecosistema.
Chi però non dovesse accontentarsi di una visita in questo sconfinato tempio del regno animale ma preferisse qualcosa di più originale, più a misura d’uomo e magari un po’ distante dalle abituali mete dei noiosi pellegrinaggi turistici, il Sud Africa ha la soluzione pronta per voi. Bisogna solo spostarsi un poco più a nord e raggiungere il confine con il Botswana. Ad una manciata di chilometri da Vivo, che per ironia della sorte in mezzo alle due cittadelle di Modena e Messina, si trova il Chinaka Lodge (www.chinaka.co.za), splendida oasi faunistica perfettamente adagiata e circoscritta in mezzo a 7.000 ettari di giungla e popolata da infinite specie animali. Giunti a destinazione, ancora con le valigie in mano, ci viene incontro un tipo sulla quarantina, tipico volto da latin-lover, capelli neri che sfiorano le spalle, camicia firmata e quell’accento italiano che rivela però una lunga, lunghissima permanenza in un paese estero. La sua storia, la storia della sua famiglia è affascinante e ricalca un po’ quei racconti della Walt Disney il cui inizio, adombrato da un velo di tristezza, lascia spazio ad un lieto fine che ha spesso il sapore di un sogno.
D’Arrigo sono di origine siciliana e fu Jack, al secolo Giacomo, assieme al fratello Salvatore, a lasciare giovanissimi la loro terra per andare come molti altri compaesani in cerca di fortuna in un paese straniero. E non l’America, come quasi tutti gli emigranti di allora ma il Sud Africa, che poteva avere qualche risorsa economica in più da offrire. Gli inizi furono difficili, più duri del previsto e spalare fango per dodici ore al giorno sepolti sotto quaranta metri di terra fu il primo vero impiego di Jack. Poi l’incontro con Caterina, bellissima donna di origine sud-africana e la nascita di Frank, primo di cinque fratelli seguito da Giovanni, Stefano, la dolcissima Carmela e Jack junior, riuscirono a cambiare un po’ il corso della vita e, con un pizzico di fortuna e tanta, tanta intraprendenza, sopraggiunsero anche i tempi migliori. Adesso i D’Arrigo sono una potenza economica e la loro azienda, la Elco Steel, è la sesta compagnia metallurgica del paese. Sono loro che riferiscono i dati dell’andamento economico ai quotidiani locali di Springs, un “paesello” alle porte di Johannesburg che conta ben 1.200.000 abitanti.
Ma se i soldi hanno contribuito alla fortuna dei D’Arrigo, i D’Arrigo non hanno mai voltato le spalle al loro passato e sono moltissime le occasioni di solidarietà che li vedono vicini ai poverissimi delle black-township o intervenire a sostegno dei bambini orfani dell’aids. Frank non ama vantarsene, ma è stato lui a decidere di abbandonare la sua famiglia ed i suoi molteplici interessi per recarsi in Afghanistan, prestando servizio volontario come pilota della croce rossa aerea durante i giorni più di intensi del conflitto.
Ma voltiamo pagina. Ci spostiamo adesso a sud-ovest in direzione diametralmente opposta a quella finora percorsa. E dopo 4.800 chilometri di auto e 4.000 di voli interni non poteva che mancare la Vespa. Giovane, dinamica e agilissima negli spostamenti urbani ma comoda anche per quelli fuori porta, la ET4 ha vissuto con noi l’ultima parte del viaggio nella più incantevole località di questo paese: Città del Capo. Stuprato nei secoli della propria identità civile e culturale, il Sud-Africa riflette in questa città tutto il suo angoscioso passato. Da importante crocevia per le Indie, vista la sua favorevole posizione geografica a cavallo dei due Oceani, la Città del Capo di oggi mette a nudo tutti gli aspetti più controversi e stridenti di questo paese: dagli opulenti quartieri in stile vittoriano alle black township, dalle congregazioni dei bianchi all’apartheid, dal potere finanziario degli Oppenheimer alla politica riformista del grande Mandela.
Cullato fra le scoscese pendici del Table Mountain e le frenetiche attività portuali di Table Bay, il centro storico di Città del Capo è uno dei luoghi più vivibili ed accoglienti mai visitati. L’aria è frizzante anche in autunno e percorrere con la Vespa gli incantevoli saliscendi che fiancheggiano la “montagna della tavola” è uno dei momenti più magici del nostro viaggio. Nonostante la quantità di chilometri finora percorsi decidiamo di proseguire, la ET4 non dà cenni di stanchezza e il modello 150 quattro tempi che abbiamo deciso di adottare per questo viaggio sembra il miglior compromesso fra consumo e prestazioni. La capacità di carico è ovviamente un po’ limitata, ma in certe occasioni i bagagli sono l’ultimo dei problemi.
Stavolta puntiamo a nord, verso il Namibia percorrendo la N7 e attraversando il Karroo, una regione arida e semi-desertica estesa su tre altipiani. Giungiamo a tarda sera a Strandfountain, un pittoresco agglomerato di casette in legno che si affaccia dirimpetto sull’Atlantico. Siamo ospiti di Mary, una gentile signora sulla cinquantina che a tarda sera ci intrattiene con le sue prelibate delizie alimentari: aragoste, gamberi e scampi, il tutto naturalmente annaffiato da un ottimo bianco locale.
«Qui stiamo bene - esclama in tono sereno - e viviamo la giornata senza troppi affanni, approfittando dell’immensa generosità del nostro mare…».
Al momento comprendiamo solo un significato, quello più ovvio visto l’appetito, ma poche ore dopo conosceremo anche un’altra verità: quella metaforica. La sveglia suona alle 3 in punto, l’ora ideale per mettersi in movimento, ci dicono. In meno di 40 minuti siamo già appostati con il nostro potentissimo teleobiettivo a Robeiland per cogliere il risveglio di una colonia di gabbiani adagiata sulla spiaggia. Questo tratto costiero è tremendamente bello e si schiude lentamente ai nostri occhi con l’arrivo dei primi timidi raggi di sole. Seal Island è di fronte a noi, quell’enorme sperone roccioso completamente ricoperto di foche inizia a risvegliarsi con il frangersi delle onde. Stiamo letteralmente sognando, facendo poesia di ogni singola immagine. Ma è il rosso cristallino della sabbia a destare la nostra attenzione, accompagnato dalla voce di un amico che ci riporta alla realtà.
«Qui stiamo bene - esclama in tono sereno Mary - e viviamo la giornata senza troppi affanni, approfittando dell’immensa generosità del nostro mare…»
«Guarda questa spiaggia – ci dice con un mezzo un sorriso – osserva bene questo tratto di costa che corre da nord a sud per 50 chilometri». Poi fa una pausa e prosegue. «E’ uno dei più preziosi giacimenti diamantiferi della zona, un ottimo investimento e solo negli ultimi cinque mesi mi ha fruttato 280 carati grezzi. Voleva comprarlo De Beers, ma per una volta almeno è arrivato secondo».
Non saprete mai chi è questo personaggio, ma potete già scommetterci: il solito italiano...
Testo e foto di Luca Bracali
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