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Da nicchia del mercato sono diventate presto un segmento vitale e un autentico fenomeno, che supera i confini del mondo dei motociclisti duri e puri. Le moto classiche piacciono ai motociclisti esperti, stanchi delle super potenze, ma anche a chi motociclista non è, e finalmente può scegliere mezzi eleganti, adatti un po’ a tutto. E che non invecchiano mai: è questa una delle virtù più apprezzate delle moto classiche.
Abbiamo messo a confronto qui le più amate in Italia. Definirle "entry level" non ci pare rispettoso dei loro contenuti. Sono infatti moto per nulla povere nelle finiture e nelle dotazioni. Sono tutte sotto i mille cc e i 10.000 euro (anche abbondantemente), consumano poco e sono facilissime da condurre in tutte le condizioni. Con noi le ha provate il campione olimpionico di mountain bike, Marco Aurelio Fontana (Team Bianchi). E’ un grande appassionato di moto (fa enduro ed è pure velocissimo!), ma non è affatto insensibile allo stile e al buon gusto quando si sale in sella. Ecco cosa ne pensa il Pro Rider di queste classiche intramontabili (video sopra).
Quando è nata ha diviso il popolo dei ducatisti. C’è stato chi ha protestato per le libertà tecniche che a Bologna si sono concessi (una Scrambler bicilindrica?!) e chi invece ha accolto a braccia aperte un modello più accessibile e modaiolo rispetto allo standard delle moto di Borgo Panigale. Ducati, non a caso, ha scelto di definire con Scrambler un vero e proprio brand a sè stante, più scanzonato e orientato ad un pubblico che con le Ducati dure e pure avrebbe potuto, o voluto, avere poco a che fare. Ed è stato un successo, perché la Land of Joy ha solleticato le corde di giovani e meno giovani in grande quantità.
L’ispirazione viene senza dubbio dalle Scrambler 250, 350 e 450 (e anche 125, nonostante pochi se le ricordino) nate nel 1962, con una sostanza però radicalmente diversa e nettamente più moderna, pur se profondamente legata alla storia Ducati. Se le sovrastrutture – serbatoio in primis – richiamano l’estetica della Scrambler originale, il motore è quel Desmodue da 800 cc, leggermente rivisto, che ha spinto tutta una generazione di Monster raffreddata ad aria, e che affonda le sue radici in quella Pantah creata dall’Ingegner Taglioni. Scrambler 800 è spinto dal già citato bicilindrico a V di 90°, leggermente rivisto nelle finiture esterne e con distribuzione meno spinta, con gli 11° di incrocio valvole divenuti ormai un marchio di fabbrica Ducati. La potenza massima si attesta a 75 cv a 8.250 giri, e la coppia a 68 Nm a 5.750.
Il comparto sospensioni conta su unità KYB ad escursione relativamente lunga – 150 mm – con una forcella a steli rovesciati da 41 mm e monoammortizzatore, privo di leveraggi progressivi, montato in posizione asimmetrica e dotato di regolazione del precarico. L’impianto frenante conta su un disco anteriore da 330 mm con pinza radiale a 4 pistoncini, e un’unità da 245 mm: il tutto naturalmente controllato dal sistema ABS. La gommatura conta su una fornitura Pirelli MT60RS nelle misure 110/80 – 18” e 180/55 – 17”.
La posizione di guida di Scrambler è un po’ strana, quasi sconcertante, e fedelissima a quella della Scrambler originale. Alta e larghissima di manubrio, con pedane relativamente avanzate e una sella bassa (790 mm) e comoda, è pensata per essere sfruttabile anche da chi non abbia troppa esperienza e consentire anche qualche escursione su sterrato. Pronta e reattiva, la Scrambler Icon è una moto che ha voglia di giocare.
Bella e vivace l’erogazione, ha la cavalleria giusta per divertirsi senza troppi pensieri – state solo più lontano possibile dall’autostrada, perché la posizione di guida e la totale esposizione all’aria la rendono davvero faticosa nei lunghi trasferimenti a velocità costante. Per contro, vale la pena di segnalare come sia sparita praticamente del tutto la fastidiosa sensibilità dell’acceleratore ride-by-wire, che rendeva (sulle prime versioni) praticamente impossibile la marcia a velocità costante: adesso giocare con i suoi 75 cv è sempre bello e godibile, anche perché sul misto si tengono ritmi davvero interessantissimi.
La ciclistica infatti è di quelle sane, come nelle migliori Ducati, ma molto facile sia nella guida disimpegnata che in quella sportiva. Buona la luce a terra, ottimo per una moto di questa categoria il feeling sull’avantreno, potente e progressivo l’impianto frenante e ben armonizzato il comportamento della ciclistica. Insomma, c’è tutto per divertirsi, e tanto, fra le curve, a patto che il fondo non sia troppo sconnesso, perché la rigidità della sospensione posteriore, che sente la mancanza di leveraggio progressivo, la rende precisa e agile nella guida dinamica ma anche salterina quando l’asfalto si fa rovinato.
Com'è fatta? Come una V7, ovviamente. La Moto Guzzi è la più classica fra le classiche: è quella che, solo a guardarla, richiama alla memoria la progenitrice. Perché l’estetica, volutamente, è rimasta quella, grazie a due icone di stile come il serbatoio da ben 21 litri, di fatto immutato nella (riuscitissima) sagoma rispetto a quello dell’antenata e – soprattutto – il bicilindrico a V trasversale, che da decenni è il simbolo delle Moto Guzzi in tutto il mondo. Già, perché la V7, in questo gruppo, è sicuramente la più fedele alla definizione di “classica”, perché a differenza di tanti altri modelli che degli antenati hanno mantenuto nome, ma non certo sostanza – o quantomeno una certa coerenza filologica e filosofica – se un possessore della prima, epocale Moto Guzzi V7 viaggiasse nel tempo e arrivasse nel 2018, riconoscerebbe con pochissima fatica la V7-III come lo stesso modello, sia pure profondamente aggiornato.
Ma andiamo con ordine. In questa terza revisione, la V7 moderna ha ricevuto più di un aggiornamento nella sostanza. Partiamo dal telaio, mutuato dalla V9, contraddistinto da nuove geometrie che cambiano la guida. Modifica che si porta con sè pedane – sia del pilota che del passeggero – diverse nella collocazione, che quindi cambiano la posizione di guida rispetto alla V7-II.
Il comparto sospensioni non riserva invece sorprese, con la forcella KYB dotata di steli da 40 mm e la coppia di ammortizzatori posteriori, tutti non regolabili. Il gruppo frenante conta su un disco singolo da 320 mm all’avantreno, e su un’unità da 260 mm al retrotreno, con pinze Brembo rispettivamente a quattro e due pistoncini, gestiti da un’ABS a due canali. I cerchi a razze calzano pneumatici da 100/90 – 18” all’avantreno e da 130/80 – 17” al retrotreno.
Il motore è il già citato bicilindrico a V di 90° da 744 cc con distribuzione a due valvole per cilindro e comando ad aste e bilancieri, immutato nello schema ma anch’esso aggiornato grazie al recepimento di diverse soluzioni introdotte con la V9. Aumenta un po’ la potenza, che sale a 52 cv a 6.200 giri, con 60 Nm di coppia a 4.900; valori resi più sfruttabili dall’adozione di una diversa rapportatura per prima e sesta. Rimane invariata, rispetto al modello precedente, la dotazione elettronica, con Traction Control MTC e la strumentazione interfacciabile con la piattaforma MG-MP (Moto Guzzi Multimedia Platform) che consente di configurare e monitorare aspetti fin troppo dettagliati per una vera classica.
Si sale – anzi, si scende – in sella e ci si trova in posizione comoda, rilassata, ma allo stesso tempo capace di garantire il giusto controllo sulla V7-III. Braccia e gambe “cadono” esattamente dove devono stare, posizionandosi su manubrio e pedane. La sella larga, piatta e lunga accoglie davvero bene piloti di tutte le taglie, e solo la tradizionale sporgenza dei cilindri può determinare qualche scomodità per i più alti, che si troveranno a combattere… fastidiose interferenze con le ginocchia.
Il motore gira pigro e sornione, ma inganna: sembra di andare piano e invece la sua natura maschera la giusta sostanza, come si constata rapidamente tenendo d’occhio il tachimetro. Aprendo il gas – la corsa lunga richiede un po’ di abitudine, così come lo stacco netto della frizione, che però migliora lavorando un po’ sul registro – si fa strada senza drammi, con una pastosità che rende decisamente superflua la presenza del controllo di trazione su fondi che non siano quelli viscidi e traditori degli ambienti urbani.
Se c’è un aspetto che colpisce della V7-III è sicuramente l’armonia: motore e ciclistica lavorano in magica sintonia, definendo una guida rotonda e… classica. Si guida rilassati anche sfruttando bene le potenzialità offerte dalla Moto Guzzi, più elevate di quanto non sia lecito pretendere da un modello tanto marcatamente classico, avendo solo cura di non chiedere troppo ai freni – la forcella protesta se si stacca forte – e di prendere prima le misure alla luce a terra. Fatto questo, ci si diverte come forse non ci si aspetterebbe. Ed è sicuramente la più comoda delle quattro per le passeggiate in coppia.
Si chiama solo Street Twin, ufficialmente, ma è una Bonneville a tutti gli effetti. Solo più moderna e con un look più fresco, anche se fedele alle linee classiche del modello. Diventa più grintosa, la Street Twin, in primis grazie al bel motorone, il bicilindrico (ora raffreddato a liquido) frontemarcia da 900 cc, mica per niente ribattezzato Hi-Torque: la coppia di 80 Nm si scatena già a 3.200 giri, e anche se i cavalli non sono molti - 55 a 5.900 giri - lo spunto, l'allungo e anche il rumore di scarico (anche l'orecchio vuole la sua parte!) sono piacevolmente corposi.
Il profilo è quello classico degli Anni 60, ma sottopelle questa Bonnie, ci piace comunque chiamarla così, ha una serie di chicche tecnologiche che la mettono un gradino sopra la concorrenza: c'è l'acceleratore Ride by Wire, il controllo di trazione (disinseribile trafficando con il computer di bordo, non c'è un tasto dedicato sul manubrio), la frizione assistita e antisaltellamento. C'è anche la presa USB sotto la sella.
Il telaio è un doppia culla in acciaio, le sospensioni sono semplici ma efficaci: abbiamo una forcella tradizionale da 41 mm, irrinunciabilmente coperta dai soffietti in gomma, e un doppio ammortizzatore posteriore, entrambi con 120 mm di escursione.
La frenata è affidata a un disco anteriore da 310 mm e a uno posteriore da 255, ovviamente con ABS di serie.
I cerchi in lega con finitura nera, 18 pollici davanti 17 dietro, calzano gli ottimi Pirelli Phantom rispettivamente nelle misure 100/90 e 150/70.
Il serbatoio da 12 litri garantisce una percorrenza di circa 350 chilometri, perché, se la si guida con la gentilezza che merita, la Street Twin arriva tranquillamente a percorrere 30 chilometri con un litro di carburante. Se invece la strapazzate, come abbiamo fatto noi, potete comunque contare su una buona autonomia e un consumo di 4 litri per 100 chilometri.
Tutti i pro ve li abbiamo raccontati, ma questa modern classic ce lo avrà qualche difetto? Sì e no, a dire il vero, come ad esempio la sella: è molto bassa, perché a soli 75 centimetri da terra e quindi perfetta per chi comincia e per chi non ha grandi stacchi di coscia, ma non per i più alti, che rischiano di trovarsi in una posizione di guida un pelo sacrificata e con le gambe troppo piegate.
Poi c'è il peso: 198 chili a secco sono tanti, ma solo sulla scheda tecnica perché, come vedremo nella parte dinamica della prova, non si avvertono affatto durante la guida, grazie anche al baricentro molto basso. Ultima ma non ultima, la strumentazione: chiara, leggibile, compatta e con tante informazioni, manca però del contagiri, e a noi motociclisti, si sa, piace vedere quella lancettina che sale col rombo del motore.
Detto questo, mettiamo in moto la nostra bella Bonneville e vediamo come si comporta, che c'è una sfida in ballo!
Come precedentemente sottolineato, la sella della Street Twin è davvero bassa, il serbatoio piccolo, il manubrio stretto, e la posizione in sella risulta quindi molto raccolta: comoda e piacevole se non superate il metro e ottanta, un po' rannicchiata se siete degli spilugoni.
Buono lo spazio per il passeggero, la Bonnie è perfetta per le gite in due, per godersi la strada e la guida senza esagerare: non particolarmente svelta nello stretto e con una frenata buona ma non da staccata ai cinquanta metri, va guidata esattamente per quello che è: una motina per bene, una vera inglesina.
Il motore regala gran gusto: corposo, pieno, dallo spunto sempre pronto, è godurioso a tutte le andature. La frizione di burro e il cambio preciso e per nulla rumoroso fanno il resto ai fini di una guida spensierata, insieme alle gomme Pirelli Phantom che trasmettono sempre un bel feeling, anche sul bagnato.
Le sospensioni sono tarate per garantire comfort nella guida di tutti i giorni, e riescono perfettamente nel loro intento anche su pavé e buche, per questo la Sreet Twin risulta essere un'ottima compagna anche per il casa-lavoro, dove non avrà alcun problema a divincolarsi tra le auto al pari di uno scooter. Nelle percorrenze un po' più lunghe e scorrevoli, invece, nessuna vibrazione e men che meno incertezza nella stabilità. Protezione dall'aria? Ovviamente non pervenuta, questa è una moto da vento in faccia!
Ed è dunque questa Street Twin una vera Bonneville, nonostante le indispensabili innovazioni ben mascherate dal look vintage?
Sì. E non appena in sella, guardandosi nelle vetrine, ci si sente subito nel 1959...
Linea classica, meccanica super moderna. La osservi e pensi che è proprio furba questa XSR700. Non è la moto da hipster e non è una moto in stile land of joy. È una Yamaha moderna, che richiama lo stile classico della Casa giapponese, rivisto sotto la lente del grande customizer Shinya Kimura. La XSR 700 condivide con la MT-07 il motore bicilindrico parallelo e la ciclistica.
Estetica ed ergonomia in sella sono però una cosa a parte. La sella ha il rivestimento differenziato per pilota e passeggero e il telaietto posteriore è facilmente smontaibile per personalizzare la moto (come accade sulla ben più cara BMW R nineT). Il manubrione largo e arretrato ci fa stare belli dritti in sella, e questa dista solo 815 mm da terra. Si ha un controllo totale e sempre sicuro della moto, che pesa pure pochissimo: soltanto 186 chili con 14 litri di benzina nel serbatoio. Col pieno si fa anche parecchia strada: basta davvero poco per superare i 27 km/l. I comandi sono leggeri, burrosi e accentuano la facilità con cui la XSR si lascia condurre.
Con lei si entra in sintonia dopo due chilometri. Si sta comodi da soli, un po’ meno col passeggero (soprattutto se chi guida è alto e arretra col sedere). La strumentazione è bella e si legge sempre bene; c’è anche l’indicazione della marcia (oltre a quelle su consumi, temperatura esterna e del motore, due trip e molto altro ancora). Altre cose positive? Le vibrazioni, nel senso che non ci sono proprio. Negative? Le sospensioni sono un po’ sfrenate sugli avvallamenti presi a buon ritmo (meglio ridurre la velocità quindi) e si avverte il calore rispetto alle rivali nelle soste al semaforo. Nulla di tragico, sia chiaro.
Il bicilindrico parallelo è un piccolo gioiello. Ha 75 cavalli, ma non lo diresti mai, perché sembrano ben di più (la moto pesa pochissimo). A 2.000 giri gira già bello regolare e fino ai 5.000 ti porta a spasso con una bella verve e un’erogazione impeccabile. Dai 6.000 giri cambia faccia e si scatena: tocca i 9.000 giri in un baleno, ma se insisti lui arriva presto su, fino a 11.000 giri.
Il cambio è preciso e anche la frenata è promossa per potenza e modulabilità. La XSR è agile e facilissima in città, ma si dimostra "gajarda" anche fuori. Qui il telaio la rende maneggevolissima, e le Pirelli Phantom tengono di brutto (al posteriore c’è una larghissima 180, entrambe le ruote misurano 17”). La Yamaha 700 corre veloce e sicura, invitando a moderare il ritmo solo sull’asfalto rovinato.
Luogo: Vigoleno
Meteo: sole, 28°
Tester: Marco Aurelio Fontana, Cristina Bacchetti, Edoardo Licciardello, Andrea Perfetti
Riprese di Antonio Mulas e Fabrizio Partel
Foto di Fabio Principe
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Pantaloni Ixon Owen Flash
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Ducati
Via C. Ducati, 3
40132 Bologna
(BO) - Italia
051 6413111
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