A volte ritornano

A volte ritornano
La moto chiama e qualche volta, magari tanti anni dopo il ritiro, i grandi piloti provano a rientrare, con maggiore o minore fortuna. E’ il caso di Schwantz, Barros,Bayliss, Corser, Haga, Gibernau. Invece Casey Stoner…
27 settembre 2019

Smettere è la scelta più difficile. Parola di Graziano Rossi. O appendi il casco al chiodo perché non sei più al cento per cento dopo un brutto incidente, come è successo al babbo di Valentino dopo la caduta al Tamburello di Imola nel settembre dell’82 (e a tanti altri su diversi circuiti) oppure sbagli. “Quasi tutti hanno sbagliato il momento - dice Rossi senior - e anche quando ci ripensi e torni a correre, fai comunque uno sbaglio”. Opinioni.

Nelle loro biografie, piloti come Doohan, Stoner, Spencer, Crivillé, Biaggi ammettono di aver fatto una gran fatica a chiudere con la moto, ma di aver capito bene quando era arrivato il momento giusto. Piegati dal fisico gravemente minato, oppure per un calo della competitività a livelli personalmente inaccettabili. Nel caso di Stoner perché il mondo delle corse gli era andato di traverso. E però, nonostante tutto, talvolta i fenomeni ritornano.

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L’ultimo “ritornante” che abbiamo citato è Alex Barros, che a 49 anni corre nella SBK brasiliana e guida il campionato nazionale in sella alla sua BMW S1000RR saltando da un podio all’altro. Era fermo dal 2008, dopo vent’anni di mondiale e sette vittorie, tre stagioni con la Cagiva e il meglio con le Honda, forte anche in MotoGP; ma Barros non è solo: molti ex piloti di alto livello fanno fatica a star fermi.

Hanno annunciato il ritiro come tutti gli altri, spesso hanno pianto davanti alle telecamere perché lo stacco è sempre doloroso, poi ci ripensano. Io credo che molti ci ripensino, non soltanto qualcuno, ma il dubbio è: dopo aver deciso che nel mondiale non hanno intenzione di rientrare, può bastare una competizione di minor livello per sprigionare l’adrenalina accumulata e divertirsi ancora con la moto? Spesso basta.

Schwantz e Haga gli acrobati folli

Kevin adesso è fermo, bazzica nei box come uomo immagine Suzuki, ma certo ricorderete che tornò a correre nel 2013 la 8 Ore di Suzuka, dividendo la moto con Kagayama ed Haga. Quella era una gara che il texano aveva fatto per anni, anche sfiorando la vittoria, e a quarantanove anni compiuti tornò sul podio con il terzo posto. Anche se fece meno giri degli altri due, lì Schwantz ha scritto una bella pagina della sua storia. Non che ne avesse realmente bisogno: la sua guida acrobatica, le staccate furibonde, le cadute rovinose sono rimaste impresse nella memoria di tutti, dall’88 al ’94 sette stagioni da matto con 25 vittorie e il titolo mondiale, l’unico purtroppo, nel ’93. Con la Suzuki 500, naturalmente, tutta la vita. Nel 1995 si era arreso dopo tre gare, troppi dolori agli arti plurifratturati.

Invece Nitronori Haga, dopo quella famosa 8 Ore di sei anni fa, di fatto aveva smesso (con la BMW Grillini si era presentato ancora a Imola 2013); salvo partecipare, per pura passione e fino all’anno scorso, al CIV, classe Supersport 600.

Il nostro Carlo Baldi mi dice che il giapponese di Milano (dove sta da anni e ha aperto un ottimo ristorante nippo, da provare) partiva come un missile ma poi calava, perché l’allenamento non era mai stato il suo forte, nemmeno ai tempi del mondiale SBK… E comunque alla zona punti ci arrivava quasi sempre.

La smisurata passione di Noriyuki ha contagiato i due figli Akito e Ryota, che dalla classe 300 del CIV proprio quest’anno sono passati alla 600 e hanno bisogno di tutto il supporto paterno. Nori è fermo, ma anche recentemente ha dichiarato che, se qualcuno lo chiamasse, anche a 44 anni tornerebbe al volo in SBK. E’ un pilota rimasto nel cuore di tutti gli appassionati per la sua spettacolarità: gas spalancato dalla prima curva e pazienza se le gomme poi mollano. Haga si era affacciato alla SBK dal 1994 , per anni disputando solo la gara di casa come nella tradizione nipponica, un primo e un secondo posto nel ’97; poi sempre tra i primi dal ’98 fino al 2011 in sella ad Aprilia, Ducati e soprattutto Yamaha. Vanta anche un podio con la GP 500, stagione 1998, naturalmente in Giappone.

Bayliss e Corser, eterni australiani

Di Troy Bayliss, il più bolognese dei piloti australiani, abbiamo parlato a fine luglio scorso, quando a cinquant’anni compiuti è sceso in pista con il figlio Oliver nella 5 Ore di Sidney. Era il terzo round del Road Race Championships & Endurance Racing, e la Yamaha R6 dei Bayliss, padre e figlio, alla fine ha chiuso seconda assoluta e prima di categoria per la classe 600.

Che Troy Bayliss disponga ancora di una gran manetta pochi ne possono dubitare: chiusa la carriera ufficiale in SBK nel 2008, con il terzo titolo mondiale, ma capace di vincere anche in MotoGP quella rocambolesca ultima gara del 2006 a Valencia, Troy è rimasto in forza alla Ducati per sviluppare le SBK successive. Circolano video che non lasciano spazio a dubbi sulla sua velocità. Nel 2015, dopo sette anni di “riposo”, tornò in sella a una Ducati SBK, la Panigale R, in sostituzione di Giuliano nelle prime due gare di Phillip Island e Buriram (dove annunciò il ritiro definitivo) a quasi 46 anni di età. E adesso compare di nuovo in gara col figlio sulla Yamaha 600, naturalmente per l’ultima gara della sua vita. Ultima: a crederci.

L’altro Troy, Corser, in gara fino al 2011, in realtà non fa parte del gruppo a pieno titolo perché non ha mai ripreso veramente a correre, però l’anno scorso era stato citato come probabile concorrente della neonata formula E. Fermo da otto anni ma notoriamente veloce e solido, l’australiano pareva perfetto. Ma l’accordo saltò e Speedweek Corse riportò in un’intervista il suo sfogo: “Volevano che pagassi per correre - ha denunciato Corser, quarantotto anni - e non ho nessuna intenzione di passare la mia vecchiaia così”.

Troy si era fermato dopo diciassette stagioni da protagonista, due titoli mondiali e 33 vittorie su Ducati, Aprilia e Suzuki. Può essere considerato un veterano delle derivate, più di 350 gare disputate e 120 podi; ha concluso la sua carriera con BMW e ai tedeschi è rimasto sempre legato: attualmente è istruttore della Racing School Europe, sono famosi sul web i suoi numeri con la S1000RR e quegli altri, a Goodwood, in sella a una BMW da corsa d’anteguerra. Tipico di molti ex: dategli qualunque moto e vi faranno vedere meraviglie.

Infine Gibernau, invece Stoner…

L’ultimo dei nostri è Gibernau. Dopo tredici anni di inattività, Sete è rientrato quest’anno e proprio con le moto elettriche; non conosciamo i dettagli del suo ingaggio ma per lui, che aveva per nonno il signor Bultaco, Francisco Bultò, gli aspetti finanziari sono secondari. Corre per il team di Sito Pons (già successo, nel ‘95 in classe 250) e attualmente è settimo in classifica con un sesto e un nono posto. Per la cronaca, ha appena annunciato il secondo ritiro della sua carriera: a fine stagione lascerà, per sempre (?), le moto per via del desiderio di dedicarsi di più alla famiglia.
 
Non pensavo di rientrare - ha ammesso Sete - ma la vita riserva sempre qualche sorpresa”. Il catalano non è stato un talento esplosivo come altri, in cinque stagioni di 500 aveva vinto una sola gara (Suzuki, 2001) e poche volte era salito sul podio; ma quando nel 2003 approdò al team Gresini per affiancare Kato sulla Honda MotoGP, allora tutto cambiò.

Il forte giapponese purtroppo incappò nel terribile incidente di Suzuka, e come per magia - strani meccanismi della mente - Gibernau si trasformò nel principale antagonista di Rossi: due stagioni di fuoco con la RCV ufficiale, otto vittorie, nove secondi posti, due volte vice campione del mondo. Poi la Ducati, tanta fatica, qualche disastro come a Barcellona 2006 quando sbagliò la frenata e fece uno strike, l’annuncio ufficiale del ritiro nel novembre dello stesso anno. Tornò in realtà sulla Desmosedici tre anni dopo, ma la squadra fallì a metà stagione. Lo rivedemmo due anni fa come coach di Dani Pedrosa.

Per chiudere, parlando di rientri più o meno clamorosi, è obbligatorio ricordare che moltissimi appassionati vorrebbero rivedere soprattutto Casey Stoner, l’ex più rimpianto dalla fine del 2012, l’australiano delle trentotto vittorie pesanti in MotoGP. Il suo era un addio veramente definitivo? L’uomo pareva davvero nauseato dall’ambiente, ma il pilota resisteva un po’ di più: Casey provò a correre le Dunlop Series australiane con le auto, restò sulla moto come collaudatore HRC fino al 2015, poi tornò sulle Ducati dal luglio 2016 sino alla fine del 2018 e in questi sei lunghi anni il grande rientro fu sfiorato più volte.

Di sicuro alla Ducati qualcuno provò a convincerlo, invano. Invece fu lui, a un certo punto, a chiedere di correre ancora in MotoGP. Accadde nel luglio del 2015, quando Pedrosa fu operato all’avambraccio, la riabilitazione si annunciava lunga e la sua moto fu affidata per la gara di Austin ad Aoyama. La voleva lui. “Volevo correre, ma questa possibilità mi è stata negata” twittò in quei giorni Stoner. E Livio Suppo alla fine dovette ammetterlo: “Vero, lo aveva chiesto, ma le aspettative sarebbero state altissime, lui non conosce la pista, e noi dobbiamo restare concentrati su Marquez”.

Marc Marquez che vinse quella gara, ma non avrebbe vinto il campionato: l’unico sfuggito finora alla sua fame.

Casey Stoner quell’anno disputò comunque una gara importante: la 8 Ore di Suzuka a luglio, quarto tempo in prova e in testa alla gara fino alla seconda ora quando l’acceleratore della sua Honda CBR 1000RR restò bloccato. Brutto volo, scapola e tibia destre fratturate.

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