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Se Valentino Rossi è il punto di riferimento tra i piloti del motomondiale (e non solo), Gigi Soldano lo è tra i fotografi. Un autentico fuoriclasse: non esiste foto che Gigi non abbia fatto, in pista come nei box. Ma Soldano ha fatto la storia anche della Dakar, avendone “disputate” da fotografo 21, la prima nel 1984, l’ultima nella passata stagione, quella dell’esordio nella versione attuale.
Come tutti quelli che hanno passato molto tempo in Africa, anche Soldano ama la Dakar, al di là del lavoro e della sua professione.
Così, dopo aver scritto la mia opinione, sintetizzata nel titolo “Odio la Dakar”, ho scambiato quattro chiacchiere con Gigi, per far conoscere il suo punto di vista e per provare a capire qualcosa di più di questa competizione.
“Sicuramente si tratta di una corsa particolare – spiega il fotografo lombardo - un’evasione dal quotidiano, una sfida che mi ha permesso di fare al meglio quello che più mi piace (le foto, ndr), in un territorio unico come quello africano. Adesso è sicuramente un po’ diverso, ma ancora oggi un viaggio in Africa rappresenta qualcosa di particolare e affascinante. E la Dakar ti permette di entrare a contatto con le persone in un modo molto speciale”.
Soldano spiega come è cambiata la gara vera e propria in questi anni.
“All’inizio lo spirito era quasi esclusivamente goliardico, poi si è trasformata in una competizione vera e propria a tutti gli effetti. Sono arrivate le Case e i piloti ufficiali, si è un po’ perso il senso originale”.
La mia teoria sulla Dakar, come ho già avuto modo di scrivere, è che la gara non ha più alcun senso, perché la navigazione, di fatto, non esiste più e ormai si viaggia esclusivamente con il gas spalancato dal primo all’ultimo chilometro. Così, i pericoli sono aumentati a dismisura, con conseguenze sempre più drammatiche. Per tutto questo, odio la Dakar. Ecco invece l’opinione di Gigi.
“Non la penso come te, anche se è chiaro che è cambiato completamente il senso di questa gara, trasformata in un qualcosa di commerciale e istituzionale come tutte le altre. Tutto quello che una volta era “mitico” e inimmaginabile, è diventato realtà di tutti i giorni con i media, i cellulari, le trasmissioni satellitari. E’ vero però che l’arrivo dei prototipi, le grandi bicilindriche, prima BMW, poi Cagiva, quindi Honda e Yamaha, ha stravolto il modo di correre e adesso in mezzo al deserto si va sempre alla massima velocità. La gara, anche per l’esigenza di esplorare posti nuovi, è diventata più pericolosa. Credo che l’anno prossimo si farà un passo indietro e, per quel che so, al 50% si tornerà in Africa”.
Gigi è amico di moltissimi piloti, grandi campioni come Edi Orioli che hanno fatto la storia della Dakar.
“Sono tutti innamorati di questa gara e l’esempio migliore viene quest’anno da Franco Picco, che per festeggiare i 25 anni di Africa è voluto tornare alla Dakar, a 54 anni, con una moto Marathon, quindi di serie, arrivando 23esimo assoluto e vincendo la sua categoria”.
Soldano ammette che qualcosa andrebbe rivisto.
“Dal punto di vista umano, la Dakar non ha paragoni, ma dal punto di vista sportivo qualche dubbio c’è: i ritmi sono troppo elevati, bisognerebbe avere tempi più tranquilli, dare maggiore spazio ai privati e correre con moto praticamente di serie”.
Gigi ci spiega come un fotografo vive una gara così lunga e articolata.
“Bisogna riuscire a seguirla da dentro, come un qualsiasi concorrente: di fatto è come se tu partecipassi alla gara. Ricordo un anno che Orioli (nel 1997, ndr) non aveva partecipato alla Dakar e veniva con me in auto: quando fu finita, mi confessò di non aver mai fatto così tanta fatica! Ed è inevitabile che sia così, perché come fotografo devi anticipare i concorrenti, quindi praticamente non dormi mai di notte, devi “indovinare” dove passano i piloti, perché hai una sola possibilità e non continui passaggi come avviene in autodromo”.