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«Ho iniziato nel Reparto Pianificazione prodotti - spiega l'olandese responsabile di tutta l'attività iridata racing Yamaha Superbike e Motocross che nel paddock è riconoscibile anche a distanza per i suoi due metri di altezza - nei primi sette anni il mio compito era individuare quale tipo di moto o di dettaglio poteva essere confacente al mercato europeo e sottoponevo i piani al Giappone. Eravamo un piccolo gruppo, comprendente anche un paio di giapponesi, ma proponevamo diverse idee per l'Europa che in Giappone sapevano realizzare molto bene dal punto di vista dell'industrializzazione. L'ultimo progetto di moto che abbiamo sviluppato per l'Europa è stato quello delle A1, A6, A7 alla fine del 1997, quando l'anno dopo le moto uscirono sul mercato con un nuovo concetto tecnologico per me fu come raggiungere il punto più alto della mia carriera in quel reparto. Poi però si è reso disponibile un posto nel Reparto Corse e visto che ho sempre avuto interesse per le gare sia su asfalto che fuoristrada il primo gennaio '98 ho accettato la sfida nonostante non fossi abbastanza esperto. Mi piaceva andare in moto ma non sono mai stato bravo, andare veloce come fanno i piloti veri per me è impossibile, non è nella mia natura anche per le limitazioni dovute alla mia statura visto che stare dentro ad una sportiva stradale mi risulta difficile».
Prima di arrivare in Yamaha di cosa ti occupavi?
«Ho fatto il college laureandomi in ingegneria meccanica che ha dato una buona base tecnica, dopodiché ho fatto un corso di commercial business e marketing. In quel periodo ho vissuto sei mesi in Inghilterra come parte del mio addestramento, e subito dopo ho iniziato a lavorare per Yamaha».
In questi ultimi anni le situazioni ed i tempi cambiano molto velocemente, ma l'impressione è che i giapponesi fatichino a stare al passo, che non siano sufficientemente reattivi. Per prendere una decisione dovevano riunirsi dieci volte, e in passato poteva andare bene per scegliere la cosa più giusta, ma in questo momento mantenere lo stesso atteggiamento può limitare le strategie e aprire le porte ai concorrenti più dinamici.
«Capisco cosa intendi, e devo ammettere che questa loro filosofia effettivamente non sia cambiata molto. D'altronde quando i giapponesi escono con una novità o anche solo un aggiornamento hanno dei tempi non brevissimi perché impiegano tante energie nella ricerca e per i test, sia per provare il rendimento dei componenti che per garantire la massima affidabilità. E' la ragione per cui la qualità giapponese è molto alta, che ha un effetto sulla rapidità nelle decisioni ultimamente influenzate anche dai costi per cui prima di muoverti devi pensare con molta cura».
KTM in questi ultimi anni è cresciuta molto anche per la loro rapidità, scelgono un pilota e lo prendono, decidono di puntare sulla 350 e in un anno il progetto è fatto.
«Penso che in Yamaha siamo abbastanza efficienti nella scelta dei piloti anche se va considerato che non investiamo lo stesso budget di KTM perché abbiamo anche la strada e non siamo concentrati solo sull'offroad come loro. Posso dire di essere fortunato ad avere vicino persone come Rinaldi e il suo staff, che in ambito fuoristrada ci permette di fare scelte di qualità. Per esempio nel caso di Steven Frossard io non sarei in grado di dire se ha talento, se è più adatto alla MX1 o alla MX2, che genere di pilota è, prima di sceglierlo avrei bisogno di consultare degli esperti in questo campo e Michele è la persona ideale».
Come cambia la gestione tra le attività strada, superbike, motocross?
«E' piuttosto diverso, in superbike, dove il budget era più alto, il giro d'affari è più vasto rispetto al fuoristrada. Anche perché l'offroad è più specialistico, in Europa le moto mediamente vanno a clienti che corrono, significa che seguono direttamente le gare e scelgono il mezzo per le sue prestazioni. Nella superbike l'uso è più vasto, anche solo restando nell'ambito delle competizioni, abbiamo avuto molte spese per sponsorizzare le gare, ma abbiamo avuto anche un riscontro alto sul mercato. Per quanto riguarda l'atmosfera, tra superbike e motocross c'è differenza, ma non molta. In superbike succede spesso di confrontarsi e parlare con persone degli altri team di problemi e sfide, e anche lavorarci insieme è piuttosto comune. Nella MotoGP sono più riservati, è più professionale ma è comprensibile visto che il coinvolgimento a livello economico e politico è molto più alto. In generale direi che, nella MotoGP rispetto alla Superbike e rispetto al Motocross, c'è più coinvolgimento politico, di denaro e più cose da considerare».
Qual è la differenza di vendite tra strada e fuoristrada?
«Possiamo dire che è quasi simile, la differenza la fa il modello di moto. Per esempio la R1 che abbiamo messo sul mercato nel primo anno ha venduto 18.000 pezzi solo in Europa, ma già il secondo anno ne abbiamo vendute molte meno, anche perché allo stesso tempo i concorrenti uscivano con il loro nuovo modello. Se invece possiamo confrontare nello specifico, per esempio, le 450F con la R1 o le 250F con la R6, allora posso dire che le quantità sono due, tre volte più alte nella strada».
Non è molto, pensavo che la proporzione fosse uno a dieci.
«Parliamo di una cifra media. Negli ultimi due anni il mercato delle supersport è molto difficile, è sotto pressione ancora più del mercato motociclistico generale, perché la gente non vuole spendere soldi a causa della crisi. Questo ha avuto un impatto maggiore sulle supersport rispetto alle moto come la Fazer o la Thunder. La moto da strada o gli scooter hanno un uso diverso, quotidiano, devi comunque spendere dei soldi ma usi la moto perché ti serve. Le sportive invece spesso sono un hobby, e quando ci sono problemi finanziari e devi decidere con tua moglie è più facile giustificare l'acquisto di uno scooter o una naked, per cui la gente aspetta di avere più stabilità economica e sicurezza per il futuro».
Dopo la rinuncia alla Superbike Yamaha rimane coinvolta in MotoGp e Motocross.
«Nella MotoGP tra le Case giapponesi non siamo quella che spende di più, per esempio confronto a Honda, ma cerchiamo di far fronte ad un budget più limitato affrontando tutto con molta efficienza e creatività nello sviluppo. Nel motocross siamo fortunati ad avere un partner forte come Monster Energy, e la nostra presenza è notevole ed efficiente».
La scorsa stagione Honda è tornata al Motocross con un team ufficiale, questo per voi ha un significato particolare?
«Tutti vogliono essere competitivi, e se vuoi investire del denaro devi farlo bene. Credo che nonostante la crisi del mercato abbiano visto che ci può essere un futuro nell'area offroad in Europa».
Sia la vostra struttura della MotoGP che quella del Motocross hanno sede in Italia, è un caso o una scelta precisa?
«Il motivo va ricercato nello spirito positivo per le competizioni e la presenza di molti fornitori tecnici che hanno molta dedizione per questa attività con indubbi benefici nel lavorare a contatto con loro. C'è molta qualità a livello di team, ed è importate avere il giusto ambiente, il giusto spirito e una buona organizzazione per gestire un team ufficiale».
Se dovessi appendere nella tua stanza un poster di Motocross, uno di Superbike e uno di MotoGP, cosa sceglieresti?
«E' difficile scegliere con un solo spazio, ed è da tanti anni che non ne appendo uno. Nel piccolo ufficio di casa ho appeso quello di Andrea Bartolini, perché con lui nel '98 ho vinto il mio primo titolo mondiale. Fu un momento speciale, così come quando nel 2009 ricevetti un messaggio speciale da Ben Spies che correva in Usa nella Superbike. Ebbi l'occasione di farlo venire in Europa, ricordo con precisione l'incontro nell'officina di Milano, seduti su una panca per alcune ore a parlare di come stendere il contratto, un bel meeting con una bellissima atmosfera. La sera stessa firmammo il contratto e assieme abbiamo vinto il titolo nello stesso anno e anche in quello seguente. Un'altra persona veramente speciale per me è stato Stefan Everts, abbiamo corso insieme per sei anni vincendo altrettanti titoli iridati consecutivi, è stato incredibile. Ecco, un posto in camera lo terrei per una foto di tutto quel team. Se vinci un anno è bello, ma quando ne vinci due ti aspetti che nella stagione successiva la quadra non abbia più la stessa motivazione, la stessa spinta per affrontate ancora tutto quanto con la stessa determinazione. Ma non è successo, anche grazie allo sforzo di Michele e del suo staff rimasti sempre motivati al 101%».
Oltre che con Everts, la storia Yamaha è stata fatta da due tra i più grandi campioni di tutti i tempi, ovvero Rossi e Cairoli, il loro addio alla Yamaha ha cambiato qualcosa?
«Ovviamente, d'altronde i piloti hanno nuovi obiettivi e nuove sfide. Effettivamente entrambi sono stati fondamentali per raggiungere certi traguardi, ma il fatto che abbiano deciso di andarsene fa parte della vita da pilota ed è per questo che non abbiamo fatto nessuna pressione per trattenerli. Fa parte della vita, e ci siamo lasciati in buoni rapporti, tuttora quando sono al Motocross Tony viene sempre a parlarmi, è un bravo ragazzo ed è un grande campione».
Per lavorare con una Casa giapponese devi essere un po' giapponese dentro, è così?
«Diciamo che bisogna un po' adattarsi al loro modo di lavorare. Hanno dei punti di forza dai quali ho imparato molto, ma noi lavoriamo in Europa ed è importante anche essere europeo e far conoscere il nostro punto di vista. Ci sono aspetti che noi non vogliamo assolutamente cambiare e per loro va bene, così contribuiamo molto anche sotto l'aspetto tecnico per ottenere i migliori risultati».
Hai qualche rimorso, qualcosa che hai fatto, o che non hai fatto?
«Provo proprio per Cairoli una grande delusione, avevamo la possibilità di tenerlo ma con la crisi in arrivo dal Giappone arrivò la decisione di non confermarlo pur conoscendo il suo valore, che sia lui che Claudio De Carli erano felicissimi della sistemazione con noi e che avrebbe vinto ancora. Ma la dirigenza mi disse di avere dei problemi e di dover effettuare dei tagli di budget, non è un rimpianto, ma mi è dispiaciuto molto. Quando prepari tutto con cura e i risultati sono fantastici, è difficile dire: ci dispiace ma non possiamo tenerti».
Hai un sogno nel cassetto?
«Ovviamente di vincere ancora dei titoli Mondiali, anche se è un po' scontato, non è un sogno speciale, bensì quello di tutti gli anni. Per me la cosa più bella è far crescere i piloti, non prenderli da qualcun altro quando sono già al vertice, e farli diventare dei campioni».
Casa ti piace e cosa non ti piace dei piloti?
«Mi piacciono i buoni risultati, e non mi piacciono i cattivi risultati. Ci sono diversi modi di lavorare e, come nella vita, ogni persona è diversa. A volte un carattere strano o una persona molto esigente rendono il lavoro difficoltoso. Questo è uno sport di alto livello, e volte vedo che certi piloti non sembrano molto simpatici ma in certi casi è perché sono timidi, o perché esageratamente concentrati e non vogliono interferenze dall'esterno. Questo non significa che non siano amichevoli, ma questa a volte è l'impressione che si può avere da fuori. Ma se mi chiedi se ho mai avuto un pilota che non era una buona persona, la risposta è no. Con certi è più difficile lavorare, ma non posso dire che siano persone antipatiche. Anche in passato non mi viene in mente nessuno che non fosse una brava persona. Certo adesso approcciano lo sport in maniera diversa, e bisogna accettare il fatto che non sempre possono essere di buon umore o gentili con tutti, devono concentrarsi sui loro compiti perché questa è la loro principale attività».
Come spieghi la difficile stagione di Rossi in rosso?
«Non saprei dire, non conosco i dettagli. Quello che so è che insieme eravamo molto forti e che con Yamaha stava avendo un grande successo. Sicuramente perché è in assoluto uno dei migliori piloti al mondo, al quale allo stesso tempo col nostro impegno lo abbiamo aiutato a raggiungere quei risultati».