Intervista a Lima, il driver del Supercross USA

Intervista a Lima, il driver del Supercross USA
Il Supercross Usa ha disputato la prima gara, ma dietro alle star non ci sono solo moto e meccanici, ma anche gli angeli custode alla guida dei mega bilici che trasportano tutto da una pista all’altra
14 gennaio 2016

Viene dalla cittadina brasiliana di Gujania e si chiama Neilton Lima de Carualho, ma nel paddock del Supercross è conosciuto come Lima così come lo è stato quando frequentava quelli della MXGP.

 

La sua carriera nel motocross parte praticamente nel 1998 quando, dopo una breve esperienza presso la Honda Brasile, andò da Corrado Maddii assieme all'importatore brasiliano della Ufo Plast per fare da meccanico a Fabrizio Dini. Dopo un anno il suo trasferimento a Parma presso l’atelier di Michele Rinaldi, dove si è preso cura prima delle moto di allenamento di Andrea Bartolini e poi di quelle di Marniq Bervoets, Stefan Everts e Andrew McFarlane per poi chiudere la sua parentesi europea alla KTM Austria prima di trasferirsi nel 2002 negli Stati Uniti in veste di meccanico del portoghese Rodriguez, pilota della KTM America.

 

«Sono rimasto per due anni - ci ha raccontato il simpatico sudamericano - ma la situazione era pesante per i troppi viaggi, mi sono abbattuto un po’ e quindi sono tornato in Brasile. Dopo qualche anno però l’ambiente mi mancava, e quattro anni fa quando ho saputo che il team ufficiale Yamaha Rockstar cercavano un autista ho provato per cinque gare e sono rimasto. Poi ho guidato il motorhome di Trey Canard ma fare tutto il campionato era troppo costoso e non l'ha più voluto usare, peccato perché è un bravo ragazzo, tranquillo, ha un carattere buonissimo ed è sempre sorridente e tranquillo. Dopodiché sono andato a lavorare sempre come autista nel team di Jeff Ward e da due anni conduco il bilico della Suzuki ufficiale».

 

Nel corso della tua carriera hai alternato il lavoro di meccanico a quello dell’autista, quale preferisci?

«Mi piace più avere il volante in mano perché si sta sempre in giro e ci si diverte di più. Qui negli Stati Uniti per i meccanici c'è un bel po' di stress, tra Supercross e National hai 29 gare da fare, devi smontare e rimontare la moto 29 volte e i viaggi sono lunghi, quasi tutti i fine settimana fai la spola tra costa ovest e costa est e anche se i meccanici viaggiano in aereo hai solo due giorni a casa per lavare la moto, fare il bucato e tornare al lavoro».

 

Adesso sei alla guida di uno di questi camion giganti che pullulano nei paddock statunitensi, che motore hanno?

«In genere un Cummis diesel 700 cavalli e 18 marce che spinge davvero forte, in certi tratti superiamo le ottanta miglia all'ora che sono oltre 120 km all'ora anche se cerco di evitarlo perché è pericoloso per il consumo delle gomme che in estate col caldo torrido di certi stati diventano bollenti e perché consuma da matti, dipende dalla qualità del carburante ma si rasentano i 3 chilometri al litro».

 

Quanto è impegnativo avere a che fare con un gigante simile?

«Non poco, perché praticamente lavoro tutta la settimana. Il veicolo coinvolge 17 dipendenti, e io oltre che guidare devo tenere tutto in ordine, pulire, essere sicuro che abbiamo tutto il necessario per il fine settimana. Tutto deve essere sempre pulito, lucidato, nel posto giusto al momento giusto e non può mancare niente, ci sono delle regole ferree da seguire compreso il diario di bordo da compilare con le ore di guida e di sosta».

 

Immagino sia confortevole però.

«Quello ne puoi stare sicuro, è come una casa, è bellissimo e quando guidi ti sembra di stare in poltrona. Anche se è lungo circa 16 metri, le strade sono larghe e i parcheggi molto grandi per cui bisogna stare attenti ma è più confortevole di quello che sembra. Io però non dormo in cabina ma in albergo in quanto manca la doccia».

 

Comunque mi sa che avrete una buona assicurazione….

«Certo, e costa qualche di migliaia di dollari perché un affare così ne costa circa 350.000, solo per la motrice bisogna tirarne fuori 70.000».

 

Praticamente come si svolge il tuo lavoro?

«Il lavoro per me praticamente comincia ad inizio dicembre, un mesetto prima del via della stagione. Devo portarlo a verniciare e ad aggiornare gli adesivi degli sponsor, ci sono da sistemare le varie cose, caricare le batterie, cambiare i poster, sistemare il frigorifero e così via. Quando iniziano le gare solitamente se si corre nella Costa Ovest parto il mercoledì o per la trasferta di Dallas il lunedì mattina Dallas in quanto ci sono circa 2.400 km da fare, mentre le trasferte del National sono più lunghe, anche più di 3.000 km, per cui non rientriamo ma rimaniamo nella Costa Est ».
 

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Quanti chilometri fai quindi in un anno?

«Circa 100.000, dipende dal calendario che può avere trasferte più o meno lunghe. Andiamo a San Francisco e poi a New York, che sono oltre 4.800 chilometri, poi a Las Vegas e torniamo a casa per una settimana. Poi andiamo a Hangtown e torniamo a casa per Glen Helen, poi si va in Colorado che sono altri 2.400 km, praticamente non ci fermiamo mai».

 

Ti è capitato di trovare degli incidenti per strada?

«Certo, anche troppi, e bisogna fare molto attenzione. Due anni fa un autista a Detroit mentre spostava il camion è andato contro un palo nascosto dalla neve perché quando ha frenato c’era il ghiaccio e non si è fermato col risultato di spaccare tutto il davanti. Per il resto non ho mai visto niente di grave perché la notte ci fermiamo per dormire».

 

A parte gli incidenti ci sono altri pericoli sulla strada?

«Sì, per questo devo chiudere sempre il camion con l’allarme perché vicino ai benzinai ci sono spesso delle persone pericolose, matti o drogati che vogliono rubare dai camion».

 

I limiti di velocità vengono rispettati?

«In California il limite è quasi sempre 55 miglia all'ora, circa 90 chilometri all'ora, ma mantenerli è pericoloso perché rischi di addormentarti, devi frenare in continuazione e la polizia sta molto addosso agli autisti. Se ad esempio fai una virgola sbagliata nel diario di viaggio ti fanno la multa ti tolgono punti sulla patente, e se scendi a 5 te la possono togliere per un anno e addio lavoro... Poi c'è anche il controllo del peso ogni tot chilometri, solitamente ai confini di stato o prima delle montagne».

 

La polizia qui non scherza….

«E sì, e si rischia di perdere la patente come niente. L’anno scorso dopo aver svoltato a destra c'erano dei binari della ferrovia, io ero dietro agli altri camion Suzuki e l'ultima ruota del mio trailer è rimasta vicino ai binari mentre il semaforo è diventato rosso, se fosse arrivata la polizia mi avrebbe tolto di sicuro la patente anche se eravamo andati più avanti possibile per non intralciare».
 


Un momento pericoloso ed uno buffo in cui ti sei trovato?

«Diciamo che quelli più paurosi sono quando piove, perché il camion è lungo e ogni tanto sbanda. Un giorno invece mi sono trovato in cabina assieme all'autista di James Stewart, eravamo in Texas in una strada troppo dritta e stretta, per qualche centinaia di chilometri non si incontrava nessuno, era come guidare nel deserto per cui ci è venuto sonno, ci siamo fermati a riposare a mezzogiorno e ci siamo svegliati alle cinque del pomeriggio ma poi abbiamo dovuto guidare tutta la notte. Quando possiamo facciamo delle pause per girare con la bici da strada che ormai tutti noi autisti abbiamo. Ci serve per divertirsi un po’ ma anche per fare un po' di esercizio, siamo seduti per ore e ore e il fisico ne risente».

 

Ma quanto guadagna un autista?

«Tra i 50 e i 70 mila dollari l'anno, quelli dei team ufficiali guadagnano di più e hanno anche degli incentivi. Ad esempio se il nostro pilota vince la gara tutti e 17 i componenti ricevono 450 dollari a testa, oltre all’abbigliamento e agli accessori che ci danno i nostri sponsor, praticamente per me non compro quasi niente, mi danno persino le scarpe».

 

Dov’è che abiti?

«In Florida, a Boca Raton, ci sono tanti brasiliani perché nell’Est la vita costa molto meno».

 

Pensi di tornare in Brasile?

«Ogni tanto per trovare qualcuno, ma mi piace di più la vita negli USA, ora sono sposato con una irlandese che ho conosciuto in un bar di San Francisco, ho una figlia, e sto bene qui».

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