Le donne dei campioni Motocross USA: Georgia Laporte

Le donne dei campioni Motocross USA: Georgia Laporte
Le mogli di Lechien, Lackey, Laporte e Smith hanno ripercorso in una serie di quattro divertenti interviste la vita trascorsa a fianco di questi mitici eroi che hanno scritto esaltanti pagine di storia di Motocross | M. Zanzani
8 febbraio 2013

 
La nostra prima intervista alle mogli di quattro giganti del motocross yankee (Lackey, Laporte, Lechien e Smith) riguardava Lory Lackey, del cui marito abbiamo naturalmente anteposto la biografia. Questa volta  intervistiamo Georgia LaPorte, mentre la biografia del mitico Danny ce la racconta lo stesso Brad Lackey.


«Danny aiutò enormemente il motocross statunitense a uscire dagli ambiti nazionali per imporsi a livello mondiale: nel 1979 centrò il campionato AMA 500 National, e due anni dopo il suo apporto fu fondamentale per consentire al Team U.S.A. di aggiudicarsi per la prima volta il Trofeo delle Nazioni. Per poi diventare il primo crossista americano a vincere il Campionato del Mondo della 250, nel 1982.

Danny è nato a Los Angeles il 3 dicembre del 1957, e fin da piccolo venne cresciuto dal padre “a pane e moto”, nel deserto o su qualunque terreno libero o pista di cross nei pressi di Torrance, nella South Bay californiana (dove una trentina d’anni fa aveva sede la Cagiva U.S.A., ndr).

Danny iniziò a gareggiare a 11 anni, sentendosi inizialmente a disagio in mezzo ad un gruppone di altri ragazzini assatanati; ma fu cosa breve, vista la rapidità con cui divenne uno dei migliori assi del Sud California, già a metà degli anni 70. A 16 anni divenne professionista a livello locale, ed iniziò a portare a casa quattrini vincendo così tante gare che alla fine del 1975 la Suzuki lo mise sotto contratto, per debuttare l’anno seguente nel campionato AMA National MX classe 125.

L’epico arrivo di Bob Hannah oscurò naturalmente il debutto di Danny, che tuttavia non si fece certo intimidire, tant’è che si inserì più volte nei foriosi duelli tra Hannah e Marty Smith, vincendo oltretutto due gare su otto. E la sua vittoria a Houston, in agosto, fu anche la prima per la Suzuki in quel campionato, che vide Danny terminare sul terzo gradino del podio, ad un solo punto dal secondo.

Danny LaPorte  
Danny LaPorte  
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Ancora in sella alla Suzuki nel 1977, LaPorte fu molto vicino a vincere il titolo nazionale: in quella che fu probabilmente il finale di stagione più memorabile del motocross statunitense, Yamaha mise in atto una tattica molto discussa per consentire a Broc Glover di vincere il titolo, sebbene con LaPorte staccato di pochissimo.

L’anno seguente Danny passò alla 500, sempre con la gialla Suzuki, vincendo la gara d’apertura ed altre manche nel corso della stagione, ma finì quinto a causa di una serie di inconvenienti meccanici. Ma nel ’79, al suo quarto anno in Suzuki, si prese la rivincita sulla Yamaha battendo Mike Bell, e aggiudicandosi il titolo. Ma dimostrò anche di sentirsi a suo agio non solo nell’outdoor, piazzandosi nei primi dieci alla sua prima stagione dell’AMA Supercross, terminata al nono posto.
La stagione 1980 fu invece molto deludente per Danny, che si sforzò il più possibile di vincere in anticipo il campionato National, e disputò alcune gare molto brillanti, ma non riuscì ad andare oltre il settimo posto finale.

Cos’ nell’81 il leggendario Roger DeCoster (ex pluri-iridato belga, ndr) passato dalla Suzuki al Team Honda come consulente, e grande sostenitore di Danny, lo convinse a passare dal giallo al rosso: il risultato finale fu un quarto posto con quattro podi conquistati, ma senza mai vincere: un’altra stagione da dimenticare, insomma, prima che Danny ed i suoi compagni di team – Chuck Sun, Johnny O’Mara e Donnie Hansen – partissero per la Germania per partecipare al Trofeo delle Nazioni, dove LaPorte fu uno dei migliori artefici della vittoria del Team U.S.A., che probabilmente fu anche il risultato più importante del motocross americano. Un successo che rinfrancò anche lo stesso Danny, che chiese di entrare nel team ufficiale Honda per il Mondiale 500. Il che non fu possibile, perché il team era già al completo. Ma ci pensò un altro ex-asso del cross mondiale a metterci una pezza: Heikki Mikkola, consulente di Yamaha Europe, gli aprì le porte per correre con una Yamaha 250 ufficiale nel mondiale dell’82. Gran bella occasione per Danny, che scioccò gli europei vincendo 5 gare e divenne il primo pilota statunitense ad aggiudicarsi il Mondiale della 250. Fu un colpaccio per Danny, che battè il favoritissimo Georges Jobé e parecchi altri fuoriclasse».


Dopodiché, Danny LaPorte tornò a casa e iniziò a correre nelle famose gare nel deserto, vincendo tre volte la mitica Baja 1000 in sella a moto Kawasaki. E dal ’90 gareggiò anche nei grandi Rally, vincendo una tappa e piazzandosi al secondo posto finale alla Parigi-Tripoli-Dakar del 1991, in sella alla Cagiva Elefant 950. 

 

Danny LaPorte su Cagiva
Danny LaPorte su Cagiva

Pregi e difetti invece di essere la moglie di un campione?
«L’aspetto affascinante è stata la vita molto dinamica, non posso certo lamentarmi che sia stata monotona. Purtroppo è passata velocissima, siamo sposati da 28 anni ma se mi guardo indietro mi chiedo dove è finito tutto questo tempo… La parte più pesante sono il capitolo infortuni, e la depressione che viene quando i piloti si fanno male. Specialmente se devi fare un nuovo contratto e non sai cosa farai l'anno dopo, perché ti vogliono tutti quando vinci, ma quando non è così è un bel problema… Mi ricorderò sempre le parole di André Malerbe, che un giorno ci disse: quando vinci sono tutti sotto la tua tenda, quando hai perso non c'è più nessuno, ed è vero. Diceva anche un'altra cosa: sai quali sono i tuoi veri amici quando sei in ospedale, vedi chi viene a trovarti, e sai veramente chi ci tiene a te».

 


Del pilota effettivamente la maggior parte delle volte vedi solo la facciata, e non sai cosa c'è veramente dietro.
«Effettivamente c'è una vita e una sensibilità che si fa fatica a cogliere se non entri in intimità. Un anno sei un campione, poi ti fai male e non sai cosa succederà, in generale è una vita simpatica, specie per i viaggi, però per tutto il lavoro che fanno è un vita pericolosa. Poi avranno dei problemi fisici quando arriveranno a sessant'anni. Ma i corridori di una volta sono grandi appassionati, non lo facevano solo per i soldi, specialmente la generazione di Danny, erano tutti simpatici, sorridenti, disponibili. Ora sono un po' più freddini».


Forse perché il fattore business ora si sente di più.
«Sì, in America dai tempi di Carmichael i campioni si sono chiusi nei loro motorhome, mentre prima invece stavano tutti nel furgone ed era facile parlare con loro. Erano tutti giovani, californiani, lo sport era agli inizi ed erano contenti di viaggiare per tutto il mondo per divertimento».

 

Quando ci siamo sposati lui si era un po' stancato, e mi sono detta: spero che non sia colpa mia!

Quanto è stata importante la tua presenza per la sua carriera?
«Quando ho conosciuto Danny era già campione del mondo, correva da nove anni e aveva vinto anche un titolo americano nel '79. Poi quando ci siamo sposati lui si era un po' stancato, e mi sono detta: spero che non sia colpa mia! Mi ero sentita un po' in colpa perché lui non aveva più voglia di correre, ma poi visto che la vita di tutti i giorni ha un altro ritmo e si annoiava quando ha iniziato le gare nel deserto sono stata contenta perché mi ha tolto quel senso di colpa che sentivo. Comunque io ho sempre voluto che lui facesse quello che voleva, sono stata contenta della sua carriera e ha smesso quando ha voluto lui, per cui diciamo che l’ho sempre assecondato».

 
Cos'è cambiato da quando ha smesso di correre?
«Danny ha avuto tante carriere, motocross, deserto americano, nei rally, ha fatto tante cose ma non è cambiato, diciamo che è maturato. Quando era giovane era più pazzoide, poi facendo i rally è diventato un uomo più maturo, ma è sempre pronto a partire per una cosa nuova, è un carattere facile, non si lamenta mai, è sempre felice e contento».


Ma tu preferisci la versione precedente o quella più riflessiva?
«La parte estrosa ce l'ha sempre, ma siamo maturati tutti e due, quando eravamo giovani non sapevamo niente di niente e siamo cresciuti assieme. Dei due comunque lui è comunque quello più estroso, sono io che ho i piedi più per terra e quindi ci bilanciamo. Quando andava alle gare e avevamo i figli mi occupavo io di tutto, così lui poteva fare le gare senza preoccuparsi, perché i piloti non possono pensare a troppe cose. E poi è rimasto così».


Hai sacrificato qualcosa della tua vita per seguire lui?
«Sì, perché sono andata subito a vivere in America, per fortuna mi ha conosciuto in un momento in cui avevo appena finito la scuola e non avevo ancora intrapreso una carriera. Mi sono ritrovata a vent'anni con una valigia e sono partita, se mi avesse conosciuta cinque anni più tardi ci avrei pensato due volte, invece quello era proprio il momento giusto».


I pregi e i difetti di quando correva e quelli di adesso?
«Lui si dimentica sempre tutto, ma non dimenticherà mai un guanto, un paio di stivali: la borsa di motocross è sempre tutta a posto. Tutto il resto, le chiavi di casa, il telefono, li lascia dappertutto, ma quando va in moto ha tutto».

 

Quando Danny vince una cosa poi deve farne un'altra, deve avere un altro obiettivo, e quando vinse il Mondiale 250 con la Yamaha ufficiale volle passare alla 500

Il suo più grande errore?
« Quando Danny vince una cosa poi deve farne un'altra, deve avere un altro obiettivo, e quando vinse il Mondiale 250 con la Yamaha ufficiale volle passare alla 500 ma la Casa non aveva il budget per dargli una moto ufficiale, ha voluto farlo lo stesso ma il risultato non è stato come si aspettava e forse era meglio se faceva ancora un anno in 250».

 
In definitiva è meglio il Danny di oggi o di ieri?
«Il Danny di oggi va bene con la Georgia di oggi, quello di ieri andava bene con la Georgia di ieri. Siamo cresciuti insieme in questi 28 anni, e ogni momento che siamo cresciuti insieme siamo andati nella stessa direzione».