Nell'endurance vince chi ha testa e pochi pruriti

Nell'endurance vince chi ha testa e pochi pruriti
Vi raccontiamo la filosofia delle gare Endurance e le qualità dei piloti che corrono per ore. L’esser bolliti è una condizione fondamentale per terminare le lunghe maratone. L'esempio di Charpentier | M. Temporali
23 aprile 2010

Si è appena disputata la trentatreesima 24 Ore di Le Mans: 828 giri, 3.456 km, 55 equipaggi al via, 36 al traguardo.
C’è da farsi un mazzo così per la fatica, ma non si tratta certo di una gara corsa sul fil di lana, stile Superbike o Moto2. Il secondo equipaggio arriva doppiato 11 volte, il sesto è a quasi trenta giri. In Italia le gare di durata non hanno presa, non c’è cultura. Quando ne parli, giudizio comune è che l’endurance è per piloti “bolliti”, cioé quelli all’ultima spiaggia.

Nell’Endurance il bello è che stai in moto parecchio, la consumi, te la godi. Ma non sei galvanizzato, vulcanico, dirompente come nelle gare brevi

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I PILOTI DI “DURATA”


In realtà è l’esigenza della disciplina a richiedere piloti di provata esperienza. Proviamo a pensare a un giovane rampante, al posto di un Giabbani, Lavilla o Martin; a uno che da un secondo a tutti, di vent’anni, che guida col manubrio in bocca. C’è il rischio che il suo equipaggio non veda la bandiera a scacchi. Al contrario, un pilota “sedato” dall’età e dall’esperienza fa al caso di questa disciplina: è più malleabile, meno irrequieto, responsabile e calcolatore. Questo, a mio avviso, è il significato di “bollito”. Significato positivo, in questo mondo, dove si vince per un gioco di squadra e non per la velocità del singolo in pista.
A questo proposito penso al Team Bolliger, con oltre vent’anni di esperienza, terzi in campionato nel 2009, sesti qui a Le Mans. Dell’equipaggio fa parte un pilota di nome Roman Stamm, che ho incrociato al via della 200 Miglia di Imola di otto anni fa.

Correvo in coppia con Dario Tosolini, su una Suzuki GSX-R 1000 del Team Sacchi Corse preparata Stock. Nella stessa giornata avevo disputato anche il campionato italiano Stock 1000, perdendo per un soffio la gara. Insomma, avevo le mie belle vesciche sulle mani, ma, per farvi capire, ero quel giovane a cui facevo riferimento: carico come un vulcano islandese. In griglia di partenza della 200 miglia avevamo il 7° tempo, davanti proprio al Team Bolliger, che correva con una Kawasaki superbike, staccato di quasi un secondo… Stamm e company erano lenti da paura. Agli occhi di un velocista la cosa era scandalosa. Ma nel mondo dell’endurance squadre come il Team Bolliger vengono premiate per la consistenza: niente errori, box super attrezzato e ordinato per cambi gomme, rifornimenti e varie evenienze. Alla fine, ad ogni stagione si portano a casa un paio di podi alla faccia di chi, prima, li umilia in prova, poi, come noi, si stende in gara al primo passaggio…

NELL’ENDURANCE CI VUOLE LA TESTA

Ricordo la 200 km di Monza nel 2000, corsa con un’Aprilia RSV 1000 in coppia con Fabrizio Pellizzon. E’ stata la gara di durata più breve della vita: partenza, 200 metri, prima variante, strike, con Igor Antonelli in testa, finito ribaltato.
E poi a ritroso: Monza, 1997, su Honda CBR 600 in coppia con Tonino Calasso. Un altro di quelli (come me) che preferiva suonare il compagno di squadra che vedere la bandiera a scacchi. Conclusione: spalla lussata nelle qualifiche, gara gettata al vento.
1996, Misano, Aprilia RS 250, in coppia con Bruno Cirafici: fuori per grippaggio.
1995, Mugello, sempre Aprilia RS 250, in coppia con Paolo Bentivogli: scivolata del sottoscritto alla Scarperia...
Partivamo al sabato tra i favoriti alla vittoria, ma l’endurance non si addice a chi vede nel compagno di squadra il primo nemico da bastonare.

IL CASO DI SEBASTIEN CHARPENTIER


Il pilota francese, 37 anni e due titoli mondiali in Supersport, è tornato alle corse quest’anno dopo un lungo periodo di sosta. Siglato l’accordo col Team Triumph ParkinGo, ha disputato solo la prima gara a Phillip Island e poi gettato la spugna. L’ex campione aveva paura del confronto ravvicinato in una gara tirata al limite della Supersport. Troppo alta l’adrenalina, elevata la concentrazione e il ritmo di gara. Una condizione che non gli procurava più il piacere di una volta. In Australia, al primo round, è finito in fondo alla classifica, ultimo dei piloti a giri pieni. Oggi lo accoglie il mondo più disteso dell’endurance.
E lo comprendo: ricordo che nelle gare “corte” iniziava a chiudersi lo stomaco già la mattina appena sveglio. Con quelle di durata, mangiavo pane e salsiccia anche un’ora prima del via… E il buon umore non mancava mai.
La "carena" di Max
La "carena" di Max


LA DIVERSITA’ CON LA GARA SPRINT

Non avendo la testa “da resistenza”, per me le gare in moto sono quelle sprint, dove ti confronti coi limiti della fisica, l’importanza del sorpasso e il decimo di secondo. Se poi vinci, provi un cocktail di emozioni indescrivibili.
Nell’Endurance il bello è che stai in moto parecchio, la consumi, te la godi. Ma non sei galvanizzato, vulcanico, dirompente nella stessa misura.
Se vinci, esulti con braccia stanche, la coppa pesa. Niente elettroshock tra le sensazioni in corsa, ma tanto pragmatismo e ragioneria spalmati nell’arco del tempo. Ogni starnuto è condiviso coi compagni di squadra e coi meccanici. S’instaura una magnifica condizione umana, ma il battito del cuore rimane lento. E se vuoi fare carriera nelle maratone, devi avere testa e pochi pruriti nelle mani.
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