Nico Cereghini: “L’Endurance di una volta”

Nico Cereghini: “L’Endurance di una volta”
L’Endurance è un campionato tostissimo anche oggi, e vincere resta da veri specialisti, ma negli irripetibili anni Settanta c’erano tanti piloti del mondiale GP e correvano ufficialmente anche le Case italiane…
29 gennaio 2019

Ciao a tutti! Mi capita sott’occhio una foto del settembre 1972. Bol d’Or a Le Mans, una Suzuki 500 col numero 30, equipaggio Bonera-Cereghini: Gianfranco, campione italiano junior 500 con una moto analoga, in sella poco prima del via della 24 Ore ed io che lo guardo concentrato. Si partiva per vincere la 500 dopo avere stabilito il miglior tempo di classe, e la moto era ben preparata dall’importatore di Torino: motore Titan 500 con termica “Daytona”, espansioni adeguate, freno Fontana davanti e una coppia di fari belli grossi. Gomme Michelin e per i due piloti caschi jet Granturismo, poi diventati Nava. Non fu una gara memorabile: una biella piegata subito al primo turno, due ore abbondanti per sostituirla ad opera di un tecnico ex-Motobi appena arrivato in Suzuki, poi il mio turno per rodare e provare a spingere, infine la caduta di Bonera col buio e l’abbandono definitivo. Non varrebbe nemmeno la pena di parlarne, se non fosse che insieme alla fotografia è sbucata anche una classifica, ed è impressionante scorrerla.

L’Endurance, allora, era una cosa veramente grossa. Vinsero due specialisti: Debrock e Ruiz, con la Japauto Honda 950, con un giro in più di Godier-Genoud che allora correvano su Honda 750. Terzi gli inglesi John Williams e Stan Woods, sempre su Honda. Quindi due forti equipaggi italiani: Guido Mandracci-Raimondo Riva su Guzzi 850 ufficiale, e Renato Galtrucco-Giovanni Provenzano con la Triumph Koelliker 750. La Moto Guzzi aveva schierato anche i fratelli Tino e Vittorio Brambilla, mentre Bepi Koelliker aveva in gara anche il mitico Walter Villa con Giampiero Zubani. I ritiri furono tanti: dei sessanta partenti, trentasette finirono fuori gara per rotture e per cadute. Non conclusero le Laverda ufficiali (tra le quali Brettoni-Angiolini, secondi l’anno prima davanti alla Guzzi); c’erano moltissime Honda, molte Kawasaki, qualche Norton, le BSA 500. A vincere la mezzolitro al nostro posto fu la coppia Ravel-Blosser su Kawasaki tre cilindri, dodicesima assoluta, e c’erano anche le 250, una dozzina: la Montesa a due tempi di Alguersari-Escobosa staccò prepotentemente due Kawasaki, due Ducati e la Pannonia (bicilindrica due tempi) superstite della nutrita squadra ungherese.


Ma è a leggere i nomi dei piloti che si resta attoniti. Il mondiale quel weekend era fermo, si sarebbe corso la domenica dopo al Montjuich. Oltre ai già citati, vedo Jack Findlay, Michel Rougerie, Patrick Pons, Olivier Chevallier, Eric Offenstadt, Christian Bourgeois, e poi Luc, Rigal, Fougeray, Bertorello, Loigo, Pescucci, Rollason, Bowler, Oosterrhuis, decine di forti specialisti internazionali. C’era anche una coppia femminile: Lagauche-Toigo su Kawa 500; Gabrielle Toigo, origini friulane, aveva vinto la Coupe Kawasaki davanti ai maschi e andava fortissimo, purtroppo fu fermata da un brutto incidente l’anno dopo.


Personalmente ricordo poche cose, di quel mio primo Bol’Or troppo breve, soltanto ottantun giri. Ho ancora in mente le due BSA derivate dalla B50 Gold Star, che in staccata sfruttavano il freno motore più dei due freni a tamburo laterali; ma staccavano per dire: sul dritto avranno fatto i 180 e sotto il casco ci veniva da sorridere di tenerezza, ma poi non te ne liberavi così facilmente, perché in curva erano velocissime e pesavano niente; e poi con i 25 litri del pieno erano capaci di girare due ore e mezzo contro i nostri 50 minuti di autonomia massima. Per pulire gli occhiali in corsa, il pilota usava una spugnetta contenuta in una mezza pallina da tennis fissata in testa di forcella, come negli anni Cinquanta e Sessanta. E poi c’era la spagnola Ossa 1000 a quattro cilindri. Pochi l’avranno vista: si chiamava Byr, ed era un prototipo ottenuto allineando in batteria i quattro gruppi termici del motore 250 a due tempi. Larghino, come motore, magari era anche potente, ma poco affidabile: si ruppe dopo 13 giri, e quella moto bislacca non sarebbe mai andata in produzione.

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