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Ciao a tutti! L'epilogo della Otto Ore di Suzuka è all'altezza della magia dell'Endurance, che per conto mio è unica nel panorama del Motosport. In questo caso, dopo gli immancabili colpi di scena di una gara così lunga, è stata la caduta di Jonathan Rea nel finale a tenere tutti con il cuore in gola. Per la Kawasaki, condivisa dal campione del mondo SBK con Haslam (e sulla carta anche con Razga), era ormai fatta, ma rompe la Suzuki Sert, butta olio su mezza pista, arriva Rea che cade e addio: la corsa già vinta sembra buttata via. Sapete tutti come è andata: lì per lì il successo è attribuito alla Yamaha, poi viene giustamente accolto il reclamo Kawasaki (bandiera rossa uguale classifica al giro precedente) e le cose si mettono a posto. Le immagini girate dentro il box della verdona sono eccezionali, dalla gioia di una vittoria ormai ampiamente meritata (che mancava dal 1993!) alla disperazione, e poi ancora alla festa in pochi minuti.
Jonathan è davvero caduto sull'olio perduto dalla Suzuki, oppure per non aver valutato correttamente l'umidità incombente della notte giapponese? Chissà, il dubbio rimane, ma d'altra parte l'Endurance è sempre ricca di mistero. L'idea stessa di correre con il buio, che qui a Suzuka è stabilita a tavolino ma in tutte le 24 Ore è parte integrante del gioco, è qualcosa che ha poco a che fare con il motociclismo classico. La notte di Le Mans è lunga, lunghissima, spesso piovosa o nebbiosa, niente a che vedere con la fresca serata di una Losail potentemente illuminata per la MotoGP. Di notte tutto può accadere.
L'Endurance che correvo negli anni Settanta è roba arcaica, le moto sono cambiate tanto e le gare oggi sono tiratissime ed equilibrate, certamente più difficili. Ho il massimo rispetto per i protagonisti attuali: allora magari rischiavamo di più, si andava a correre sui 14 km del velocissimo Spa-Francorchamps in mezzo ai guardrail, o tra gli alberi nel parco del Montjuich a Barcellona; ma il nostro passo non era questo, le gomme erano un'altra cosa, si piegava molto meno e i distacchi erano misurati in minuti e non in secondi. E' lo stress del pilota moderno, dalla MotoGP alla MX, tutto è molto più esasperato e professionale.
Ma credo che la qualità dell'Endurance resti quella, e particolare. È la gara lunga, il continuo cambiare delle condizioni, la capacità del pilota di dosare lo sforzo, di modificare la guida, di andare forte senza cadere. È il lavoro nel box, la preparazione tecnica e fisica, la moto che deve girare forte senza rompersi, e tutto il lavoro di affinamento che sta dietro. È la solidarietà di un'intera squadra che lavora da mesi sull'obiettivo, ed è la solitudine del pilota che da un momento all'altro si trova catapultato nella pista scura, unica compagnia il canto del motore. È l'alba con le tribune semivuote nella prima luce, è l'ultima ora con tutti gli spettatori a bordo pista e le poche moto rimaste in gara e i motori stanchi e le marce cambiate un po' in anticipo per non rompere proprio alla fine, che sarebbe disastroso.
Io non so perché l'Endurance non abbia mai attecchito in Italia. I pochi tentativi fatti non sono stati replicati e così tutto è finito in nulla, perché naturalmente è solo la tradizione e la continuità che possono determinare il successo di una formula. Perché quello che ha funzionato in Francia, e persino in Giappone, non funziona in Italia? Sospetto che la risposta sia nel nostro DNA. Ci sono popoli che amano riunirsi per festeggiare insieme un grande evento, gli americani corrono a vedere la 500 Miglia di Indianapolis che a noi pare noiosa. Noi forse non ci sentiamo ancora popolo, siamo individualisti. Forse. E anche impazienti.