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Max Biaggi si ferma e giù il cappello: tutti i motociclisti, anche quelli che non lo amavano particolarmente, gli hanno manifestato il loro rispetto. Rispetto dovuto. Biaggi è stato un grande del motociclismo e ci mancherà, per la sua bella guida e anche per la sua originalità. Un romano. Che voleva fare il calciatore ed è finito per caso, già sedicenne, sulla moto di un amico a Vallelunga. Atipico fin dalle origini, in un mondo che parla il romagnolo e fa correre i bimbi di sei anni. Io che l’ho conosciuto nel ’91, quando esordiva e vinceva nell’Europeo della classe 250, posso confermare che l’impressione era quella di un carattere di ferro e di una determinazione speciale. Ricordo i pianti di Chili quando, al Mugello, Max lo buttò giù dal podio con un’entrata garibaldina all’ultimo giro; era il ’92, Pierfrancesco era il leader della squadra di Valesi. E a fine stagione, in Sud Africa, ero lì ad applaudirlo quando vinse il suo primo GP.
Come tutti, restai sconcertato di fronte alla sua prima grande scelta controcorrente: mollò l’Aprilia che lo aveva lanciato, per cogliere al volo l’offerta più generosa della Honda-Rothmans, che lo voleva sulla 250 lasciata libera da Cadalora campione (che passava in 500). Con le gomme Michelin, meno competitive delle Dunlop in quella classe, Max avrebbe vinto una sola corsa nel ‘93, a Barcellona. Ed io, quella domenica 6 settembre del suo isolato successo dell’anno, ne fui così felice da rubare la bandiera a scacchi e
Ed io, quella domenica 6 settembre del suo isolato successo dell’anno, ne fui così felice da rubare la bandiera a scacchi e regalargliela in segno di amicizia e di stima
regalargliela in segno di amicizia e di stima. Però fin da allora pensavo che avrebbe dovuto essere meno diffidente ed orgoglioso, che avrebbe avuto bisogno di qualcuno che lo consigliasse, perché di fatto aveva buttato una stagione. E ancora sarebbe successo. Fortunatamente, quella volta Carlo Pernat calmò Ivano Beggio, che perdonò l’affronto. E da lì, da quei tre anni con la squadra di Giovanni Sandi e l’Aprilia 250 nera come le bandiere dei corsari, è nata la leggenda. Da quella tripletta così impressionante, e poi dal quarto titolo del ’97, conquistato appena Biaggi tornò sulla Honda con Erv Kanemoto. Pilota motivato, stile di guida da fuoriclasse, nessuna pietà per i rivali. Impressionò anche Rossi, che forse per esorcizzarlo iniziò a prenderlo in giro prima ancora di averne una ragione.
E il famoso esordio di Max in 500 con pole, vittoria e giro veloce a Suzuka 1998 ai danni di Doohan, è lì a testimoniare che il romano avrebbe potuto vincere anche nella classe più prestigiosa. Sfortuna, e qualche ostilità dentro il paddock, giocarono contro. La carriera di Max Biaggi è stata lunga e ricca di successi. Invidiabile. E senza rovinosi incidenti. E’ andato forte anche in 500, e poi in SBK con i due titoli mondiali, ancora con Aprilia. E io credo che nella sua lunga carriera ultraventennale molto di più avrebbe potuto raccogliere senza quel peccato originale del ‘93. Intelligente e abile, ma permaloso e diffidente, Max ha voluto fare da solo. A mio parere gli è mancato un direttore sportivo: uno che lo consigliasse nelle scelte, che smussasse gli angoli del suo carattere, che lo incoraggiasse verso la leggerezza, che facilitasse il suo rapporto con la stampa e i tifosi, che difendesse i suoi interessi nel mondiale. Un pilota, per quanto motivato e deciso, non può arrivare a tutto. Max ha avuto ed ha molti amici, tanti che sono entrati dentro la sua corazza e stravedono per lui. Da Marino Laghi che lo assiste da sempre a Fabrizio Frizzi e a moltissima gente comune. A dimostrazione che anche l’uomo –e non soltanto il pilota che tutti conoscono- ha la sua eccezionalità. Ebbene, per quanto lo conosco io penso che un amico in più, forse, gli avrebbe cambiato la carriera.