Nico Cereghini. Piloti e Paesi: Gran Bretagna

Nico Cereghini. Piloti e Paesi: Gran Bretagna
Nella quinta puntata della rubrica scopriamo il DNA dei piloti inglesi. Le caratteristiche comuni che li uniscono ma anche i vizi e le virtù che li rendono unici rispetto ai rivali | N. Cereghini
24 dicembre 2012

 


Chiariamo subito un fatto: sono partiti prima, perché mentre da noi Garibaldi univa l’Italia, 1861, da loro già cominciava la rivoluzione industriale che li avrebbe portati a uno sviluppo enorme: industrie, mezzi, cultura, tecnologia, e dunque gare, piste, primati. Oggi i piloti britannici (Inglesi, Scozzesi, Irlandesi e Gallesi) sono una sparuta minoranza in tutti i campionati, ma fino agli anni Settanta erano i dominatori. Da Woods a Duke a Surtees, da Hailwood fino a Read e Sheene. Vere leggende del motociclismo. Vi basti un dato: 365 vittorie britanniche nel motomondiale, di cui 135 con 22 piloti nella top class. Con noi Italiani, sono in vetta a tutte le classifiche. Mi sarà impossibile citare tutti i piloti vincenti e le case britanniche, ci vorrebbe un libro, dunque questa volta – per cercare il loro speciale DNA- mi limiterò a raccontare qualche storia esemplare.

I famosi di oggi, e penso soprattutto alla SBK e a Sykes, Rea, Haslam, Camier, Davies, non spiccano nel gruppo. Smith, Redding, Webb e Kent pure. Ma Geoff Duke spiccava eccome: stile impeccabile, grande sensibilità, sei titoli mondiali in 500 e 350, Norton e soprattutto Gilera, 33 vittorie, un protagonista degli anni Cinquanta, un personaggio di grande signorilità molto amato anche in Italia. Velocissimo anche sul bagnato come è tipico dei britannici. Poi John Surtes, altro fenomeno di quell’epoca: lui, che aveva iniziato con la Norton come gli altri, diventò il numero Uno della MV Agusta nel 1956, e conquistò sette titoli iridati in 350 e 500 prima di passare alle auto. Vincendo anche lì: Surtees è l’unico pilota della storia con in tasca titoli mondiali in moto e in Formula 1: stagione 1964, quattro successi, campione con la Ferrari. MV e Ferrari, John deve tutto al made in Italy. Ancora adesso è un’autorità e forse ricorderete: suo figlio Henry purtroppo ha perso la vita nel 2009, in F2, una ruota vagante lo ha colpito al capo.

 

 

Tourist Trophy
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Gran Bretagna vuol dire anche e soprattutto Tourist Trophy, la famosa corsa stradale che si disputa dal 1907 sui 60 chilometri e rotti dell’isola di Man. Discutibile fin che si vuole, ma assolutamente unica per fascino e tradizione. Il coraggio, ecco la prima caratteristica del DNA britannico. Ci vuole molto coraggio per tuffarsi sul quel tracciato a medie pazzesche, e quasi tutte le generazioni dei piloti britannici sono passate da quella scuola. Lassù, al TT, si certificava anche la qualità delle moto, così agli albori vincevano soltanto le inglesi, la Guzzi la spuntò una prima volta con lo specialista Stanley Woods nel 1935 e con Omobono Tenni (primo “straniero”) nel ’37. Ancora negli anni Sessanta, se volevi dimostrare che le tue moto erano valide, dovevi vincere al TT. La stessa Honda, quando pianificò di aggredire il mercato europeo, proprio in quella corsa (allora valida per il mondiale) fece debuttare le sue favolose pluricilindriche.

Dunque, l’industria inglese a lungo fu la prima nel mondo. Oltre novanta le case che hanno prodotto moto dal 1901 ad oggi. Solo qualche cartolina. La Matchless fu la prima, e già vinceva il TT nel 1907, faceva una bicilindrica nel ’12 e una quattro cilindri 593 a V stretto, la Silver Hawk, nel 1931. La Matchless, che assorbì la AJS diventando AMC, faceva moto fantastiche, aveva vinto il primo mondiale 500 della storia, nel ’49, con Leslie Graham, e nel ’54 seppe costruire questa bicilindrica di gran classe: la 500 Porcupine, porcospino per via dell’alettatura dei cilindri. Gli anni Sessanta furono molto critici per tutta l’industria britannica, del ’66 la bancarotta del gruppo.

Invece la BSA faceva armi dal 1861, e le moto dal 1903; negli anni trenta aveva una gamma completissima, dalla 250 alla 1000. Nel ’51, quando acquisì la Triumph, era la più grande casa motociclistica mondiale. Vinsero tanto tra le derivate, le BSA: a Daytona, anno 1954, 5 BSA ai primi 5 posti. Ma nel ’68 anche quella fu spazzata via dalla crisi. Come la Norton, che dal 1902 faceva bellissime moto vincenti e nel ’47 iniziò a produrre per i piloti privati la famosa Manx 500, eccola, che classe e che telaio, era il famoso “letto di piume”. Per molti la più bella monocilindrica da corsa mai costruita. Alla fine degli anni Sessanta ancora vinceva. Del ’67 è la felice Norton Commando, nel ‘76 la chiusura ufficiale.

Triumph Bonneville del 1959 
Triumph Bonneville del 1959 

Tra le moto inglesi più belle non si possono dimenticare le Broguh Superior del periodo tra le due guerre, le Rolls Royce a due ruote: con una di queste si ammazzò il celebre Lawrence d’Arabia nel 1935. Era il modello SST 100. E 100 stava per 100 miglia orarie, cioè oltre 160 chilometri all’ora.
Di tutti questi marchi oggi sopravvive Royal Enfield, forte negli anni Cinquanta e dal ’71 venduto agli Indiani. E naturalmente il marchio Triumph, fallito nell’83 ma acquistato da John Bloor e rilanciato definitivamente nel ’90 con il nuovo stabilimento di Hinckley. La Triumph che ha fatto la storia è soprattutto questa 650 bicilindrica del ‘69, chiamata Bonneville in memoria dei record ottenuti sul famoso lago salato dello Yutah. Era stata concepita per il mercato americano, fu la moto di Marlon Brando e di Steve Mc Queen, ed è bello che sia ancora vivo un modello che la celebra.

Tornando ai piloti, il più grande di tutti è stato Mike Hailwood, Mike the bike, nove volte campione del mondo con la Honda, con la MV e ancora con la Honda. Numero Uno degli anni Sessanta, lui ha vinto GP in quattro classi, dalla 125 in su, è stato il re del TT e la sua impresa più leggendaria ha avuto come teatro proprio l’isola di Man. Mike era ormai passato alle auto, aveva conquistato un titolo europeo di Formula 2 nel ’72, poi aveva fatto molto bene anche in F1 prima del terribile incidente del ’74 al Nurburgring.

Mike Hailwood su MV Agusta, 1965 
Mike Hailwood su MV Agusta, 1965 

Ma nel 1978 tornò sulla moto, tornò al suo Tourist Trophy dove aveva già vinto tredici volte, con una Ducati SS 900 preparata a Bologna. E vinse, una gara epica, battendo Phil Read con la Honda. Nel ’73 Hailwood aveva salvato Regazzoni dal rogo della sua vettura, in Sud Africa, e gli era stata assegnata la Medaglia di Re Giorgio. In Gran Bretagna sanno come si fa a valorizzare le cose e le persone. Mike è morto nel marzo dell’81, era appena quarantunenne, in un incidente stradale con la macchina sotto la pioggia. Lui che era considerato il re del bagnato…

Dietro a Mike, per me i grandi britannici sono stati Phil Read, sette volte campione con Yamaha e poi MV, grandissimo stile di guida; Barry Sheene, re della 500 con la Suzuki nel biennio ‘76 e ’77, gran senso dello spettacolo; Carl Fogarty, 4 volte campione della SBK con la Ducati, guida fisica e temeraria. Nelle altre discipline penso a Sammy Miller, un riferimento per il trial e al giovane Lampkin, Dougie, sette volte campione outdoor e 5 indoor; a Dave Thorpe per il cross con i suoi tre titoli sulla Honda; a Paul Edmondson e David Knight per l’enduro; a Lee Richardson che era una star dello speedway, ed è morto nel maggio scorso in una gara in Polonia. Solo per citare qualcuno dei tantissimi piloti britannici che hanno vinto titoli mondiali.

Joey Dunlop
Joey Dunlop

Una pagina in più merita però Joey Dunlop, scomparso nel 2000 a Tallin in una gara stradale che era la sua specialità, sul bagnato, contro gli alberi, con una piccola 125 subito dopo aver vinto la 600 e la 750. Il suo funerale fu trasmesso in diretta tv dalla sua Irlanda del Nord. Dunlop è il più vittorioso al TT –dove aveva esordito nel ’76!- con 26 successi e altri 14 podi, per la maggior parte in sella alla Honda; precede sull’albo d’oro dell’isola Mc Guinness a quota 19, ma primatista è anche Ian Hutchinson, che nell’edizione del 2010 ha colto cinque vittorie su 5 partenze. E al Tourist Trophy siamo tornati, perché la matrice dei piloti è qui.

Gli Inglesi. Tutte queste storie hanno un comune denominatore? Sì, io penso che nel loro DNA c’è tutta la grandezza di un Paese che ha dominato a lungo la cultura e l’economia del mondo. Da lì quattro grandi qualità: facilità di relazione, coraggio, eleganza e soprattutto classe. Grande classe per i piloti britannici, figlia della cultura.

 

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