Nella terza puntata della rubrica scopriamo il DNA dei piloti statunitensi. Le caratteristiche comuni che li uniscono ma anche i vizi e le virtù che li rendono unici rispetto ai rivali | N. Cereghini
Non è un Paese omogeneo: tante culture diverse, tante storie, enormi differenze anche oggi. Ma tutti dicono che un DNA comune c’è: tenacia e fede
Guardate Kenny Roberts: era un ragazzino di campagna, dislessico, non sapeva neanche leggere. Dopo aver vinto nell’AMA fu il primo americano a puntare sul mondiale con successo: tre titoli consecutivi della 500, tra il 78 e l'80, 22 GP vinti (più 2 in 250). Grandissimo e tenace, è stato anche un ottimo manager, il suo team è stato a lungo al vertice, ed ha provato anche a fare il costruttore.
Prima di Kenny qui da noi si erano visti diversi ottimi piloti: la leggenda Cal Rayborn, classe 1940, ufficiale Harley Davidson negli anni Sessanta e Settanta (tre vittorie su 6 gare nel Transatlantic Trophy del ’72, americani contro inglesi), e poi Gary Nixon, Gene Romero, Don Emde, Dale Singleton. Gina Bovaird, oggi sessantacinquenne, che fu la prima donna nel motomondiale e fece la 200 Miglia di Imola due volte, Randy Cleek che morì proprio a Imola nel ’77 con l’auto a noleggio, in un terribile incidente alla vigilia della corsa, Steve Baker che tuttora guida forte nelle rievocazioni, Pat Hennen che fu centrato da un volatile nel ’78 e non si è più ripreso del tutto, e tanti altri. Impossibile citarli tutti; negli States andavano fortissimo, anche su terra, in Europa fecero apparizioni per lo più estemporanee e lasciarono poche tracce. Tutti piloti partiti con le Harley. Per forza, c’era soltanto quella.
Harley-Davidson
Dei circa 150 marchi motociclistici americani dell’epoca restava poco: la Indian era nata prima, nel 1900, e tra le due guerre era diventata la più grande fabbrica motociclistica del mondo, ma dopo cinquant’anni fallì. L’Harley Davidson è del 1903, 150 moto nel 1907, del 1909 il primo bicilindrico a V di 45°, poi le moto per l’esercito nella prima guerra mondiale e più tardi per la seconda, per la polizia; divenne il mito, arrivò la concorrenza inglese degli anni Sessanta, la crisi, e poi la rinascita. Oggi l’Harley, che mantiene la formula tecnica originale, è il simbolo dell’American Dream e anche della tenacia. E a Daytona, oltre alla celeberrima 200 Miglia che si corre dal 1937 e che ha lanciato una formula, c’è la mitica Bikeweek, la settimana del grande raduno che è un inno alle più belle moto del mondo. Per loro e non soltanto loro.
Americani in Europa
La svolta di Roberts trascinò in Europa Freddie Spencer, tre titoli e la famosa doppietta 250/500 dell’85, Eddie Lawson che ha vinto più di tutti: 4 titoli della 500 e 31 vittorie su Yamaha, Honda, Cagiva, dopo un timido inizio con la kawasaki 250. E John Kocinski che era matto ma guidava da Dio la 250 (campione del ’90), la Cagiva 500 e più avanti la Honda SBK, iridato ‘97; l’acrobata Kevin Schwantz che ha vinto un solo campionato (500 nel ‘93) ma ben 25 GP con la Suzuki; sempre in terra, ma tenace, tenacissimo a tornare in sella. E poi naturalmente Randy Mamola, mai campione, ma tuttora in pista con la ducati biposto. Senza dimenticare le star della SBK come Fred Merkel campione 88 e 89 con la RC 30 del team Rumi, Doug Polen nel 91 e 92 con la Ducati 888 (e campione anche dell’Endurance), Scott Russel con la Kawasaki nel ’93; e più avanti Colin Edwards bicampione con la Honda e Ben Spies con la Yamaha.
Il Cross e gli statunitensi
Nelle altre specialità ricordo i crossisti iridati Donnie Schmit, Trampas Parker, Brad Lackey, Danny La Porte e Bob Moore. E devo anche citare quello che non era un vero pilota ma quasi: un attore diventato un mito anche del motociclismo, Steve Mc Queen, figlio di uno stuntman, poetico e spericolato. Nel celebre film la Grande fuga il salto con la Triumph non è suo ma avrebbe potuto benissimo farlo, amava i deserti e tutto quello che aveva un motore. Grandissimo.
Ma quello che preferisco resta Wayne Rainey. L’ho conosciuto quando aveva 23 anni, appena vinto l’AMA 750 con la Kawasaki; l’ho seguito da vicino nelle stagioni dei tre titoli mondiali, 90 91 e 92. Non correva semplicemente per vincere: voleva essere il numero Uno, determinazione tremenda, il rischio assunto lucidamente. Per me è l’uomo simbolo di questa America, in lui c’è il loro DNA. Tenaci dietro al sogno. E l’epilogo della sua carriera, sulla sedia a rotelle come John Savage, il reduce del Vietnam nel film il Cacciatore… Niente, purtroppo, è gratis.
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