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Ciao a tutti! Seguo le qualifiche di Magny Cours alla tivù e un dettaglio mi colpisce. Qualche volta i particolari diventano più importanti della sostanza, che in questo caso è la battaglia senza esclusione di colpi tra le due Kawasaki ufficiali. Ecco: Chaz Davies con la Ducati superstite sta lasciando i box per cercare il tempo sull’asfalto umido (alla fine sarà il terzo) e mi colpisce il gesto di un meccanico del team, che esce dal garage di fianco al suo pilota con una corsetta, tiene la mano destra sul codone della moto numero 7 (bel numero, quello che preferisco dai tempi di Barry Sheene) e mentre Chaz guadagna velocità lui rallenta ma gli dà una specie di spinta, lo accompagna con la mano che poi, sull’abbrivio, si alza con un mezzo giro del braccio come per salutarlo, lanciandolo simbolicamente verso la pista. Davies non ha certo bisogno di quella spinta, 220 cavalli sono già abbastanza per andar via in fretta, eppure quel gesto ha la sua importanza e resta nell’aria.
Tra il pilota e il meccanico si stabilisce quasi sempre un rapporto speciale. Sono pochi i casi nei quali, per via di caratteri molto diversi, ci si scontra e ci si separa appena possibile. Di norma succede che la condivisione di una cosa così bella e così intensa come sono le corse di moto cementa un rapporto che dura negli anni e non si cancella veramente mai. La passione in comune, certo, e poi tutte quelle ore dentro il box ad inseguire la perfezione, il momento della gara con l’ansia della partenza e l’eccitazione crescente giro dopo giro, la pura felicità del podio quando finalmente ci si arriva; ma anche l’angoscia quando il pilota cade e mancano notizie precise, e l’incoraggiamento dopo un ritiro o una caduta, e le trasferte lontano da casa con tutto quel tempo passato insieme in aereo, in macchina, in albergo, al ristorante. Un pilota passa più ore e giorni con i suoi meccanici che con la famiglia. Logico che nasca un rapporto affettivo e duraturo.
Ma c’è un ricordo personale che affiora e che ha a che fare con la spinta fuori dal box. In quel caso non soltanto simbolica, ma necessaria. Si era al Mugello per la 1.000 Km del ’75 e le Laverda tre cilindri avevano un problema: una volta spente, riavviarle col pulsante era un’incognita, la batteria insufficiente. Così Augusto Brettoni, la mia prima guida sulla 1.000 ufficiale, aveva coinvolto due suoi clienti ed amici fiorentini: tali Umberto Panerai e Riccardo De Magistris. Avete presente lo storico Settebello della pallanuoto che in quegli anni vinceva titoli e medaglie? Quello. Quel De Magistris e quel Panerai, detto Lothar, che della squadra era il portiere (187 cm per 80 chili) e successivamente sarebbe diventato il preparatore atletico di Luna Rossa. Salivo in sella mentre i meccanici facevano rifornimento, prendevo in mano il manubrio e quei due davano una spinta tale che invece della prima si poteva inserire direttamente la seconda. Ce l’ho ancora nella schiena, quell’accelerazione a motore spento. Finimmo sul podio e invitammo i due pallanuotisti anche al Bol d’Or a Le Mans. Umberto in seguito si comprò una SFC e fece pure qualche gara a Vallelunga. Ogni tanto ci sentiamo ancora.