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Ciao a tutti! Molto preoccupato per Chaz Davies, alla fine contento per Marco Melandri che torna alla vittoria, ma dal fine settimana di Misano esco con una preoccupazione in più. Anche in SBK, quante cadute! Nella prima manche del “Riviera di Rimini” i primi quattro, per un motivo o per l’altro, sono finiti tutti a terra. Non è che ultimamente, e penso anche alla MotoGP, in pista si cade un po’ troppo? Ho la brutta sensazione che la caduta dalla moto sia diventata qualcosa di diverso da quello che era.
Certo, la caduta fa parte delle corse da sempre, fin dagli albori del nostro sport; ma non sempre è stata vissuta nello stesso modo. Ai tempi eroici di Duke e Surtees era un evento da evitare assolutamente perché potenzialmente mortale. Un pilota cadeva e molto spesso semplicemente moriva. Già negli anni Settanta, da Agostini a Roberts, la caduta entrava in maniera diversa nei ragionamenti di chi sapeva guardare oltre: Ago cercò un nuovo livello di protezione, Kenny lottò contro la Federazione Internazionale per avere piste più sicure. E la caduta è diventata progressivamente un evento frequente e sempre meno spaventoso; si potrebbe quasi dire che negli ultimi vent’anni tutti noi ci abbiamo fatto il callo: il pilota cade e nella stragrande maggioranza dei casi semplicemente si rialza. Grazie a piste quasi perfettamente sicure, ai caschi, alle tute e ai sistemi di sicurezza evolutissimi. Le tragedie non ci sono mancate, purtroppo, ma sempre più rare e frutto di combinazioni particolarmente sfortunate.
Oggi però sta succedendo qualcosa che moltiplica le cadute in misura sempre più alta. E nessuno sembra preoccuparsene. Perché in pista si cade così tanto? Perché si piega moltissimo, mi viene da dire, su angoli spaventosi con i controlli che ti permettono di farlo. Una volta la fisica diceva che una moto poteva inclinarsi al massimo 45 gradi, però adesso sappiamo che una MotoGP sfiora i 65° di inclinazione sulla verticale, una SBK supera i 60°, una sportiva stradale piega a 50°. Merito di gomme, ruote, sospensioni, telai e naturalmente dell’elettronica. Ma allora come mai, con tutti questi supporti tecnologici, invece di mantenere il controllo con sicurezza si cade così spesso? Qualcosa non torna, mi pare.
Oppure torna. Mi secca ammetterlo, ma i “nemici” dell’elettronica forse lo avevano capito da tempo, i controlli hanno mille pregi ma un difetto grande: il pilota si sente molto sicuro e protetto, guida sempre al limite, osa. I due piloti della Ducati in SBK, domenica, stavano guidando al 110 per 100: numeri incredibili, la moto sempre di traverso, due leoni, fegato da vendere, spettacolo, ma troppo di tutto. Su quei ritmi basta un grado in più, un metro di staccata più in là, e ciao. Anche perché, seconda questione, le SBK e le MotoGP di oggi sono particolari. A mio modo di vedere, la moto da corsa non è mai stata così sbilanciata. Guardatela: dietro è incollata al suolo e spinge sempre più forte, davanti è appena appoggiata e delicata da governare. Come un super-dragster che però piega sempre di più.
Personalmente sono allarmato. Troppe cadute non portano bene. E non aiuta un riferimento mondiale come Marc Marquez, che teorizza la caduta come fase metodologica dell’avvicinamento alla gara. Al Montmelò è caduto quattro volte nella sola giornata di sabato, cade quasi sempre in prova, cade dove sa di poterlo fare; forse ha addirittura chiesto ai suoi tecnici elettronici di configurare la moto in modo che sappia reagire alla scivolata rallentando in autonomia. Per cadere senza farsi male. Ho indagato tra i massimi esperti: lo ritengono possibile. L’anno scorso Marc è caduto circa venti volte, e ha vinto il suo terzo titolo in quattro anni di MotoGP. Un modello allarmante, sotto questo punto di vista: non trovate anche voi che le corse vadano nella direzione del rischio sempre più alto?