Nico Cereghini racconta la storia di Freddie Spencer

Spencer ha rivoluzionato la guida delle 500. Ma è anche il più grande mistero del motociclismo; una specie di ghiacciolo, stava con miss Louisiana, bellissima, lui però non la toccava perché la sua religione lo proibiva | Nico Cereghini
11 maggio 2011

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Originario della Louisiana, si era formato nelle corse statunitensi dell’AMA, classe 750, e fin da giovanissimo vinceva facile. Lo notò Oguma-san, il boss delle corse Honda, che lo portò in Europa; prima per una fugace apparizione con la NR quattro tempi con i pistoni ovali, poi per il nuovo progetto a due tempi. Fin dalla prima gara della stagione 1982 Freddie salì sul podio. Lui aveva capito il segreto: le sempre più potenti e scorbutiche 500 dovevano seguire traiettorie differenti dalle altre moto. Niente più linee rotonde, quelle da manuale. Ciò che contava era uscire forte, dare tutto il gas il prima possibile. Vinse due corse in quella sua prima stagione mondiale. E nell’83, con sei successi su dodici gare, conquistò il suo primo titolo mondiale ai danni del grande Kenny Roberts.

Io preferivo Kenny, Freddie era un po’ bionico, una specie di ghiacciolo; stava con miss Louisiana, una bellissima ragazza, che lui però non toccava perché la sua religione lo proibiva. Non sudava mai e non entrò mai in Clinica Mobile, tanto che Costa si domandava perché. Dopo la stagione ’84, complicata dall’arrivo della nuova quattro cilindri che non amava, arrivò il 1985, e con quello la stagione più incredibile del motociclismo moderno. Spencer fu capace di conquistare una doppietta storica, l’ultima. Con sette vittorie alla guida della 250 bicilindrica e altrettante con la mezzolitro a quattro cilindri entrò nel mito.

Ma dopo il trionfo qualcosa dentro di lui si spezzò, un interruttore si spense. Era in testa nella prima prova del 1986 al Jarama, in Spagna; a metà gara lo vidi alzare il braccio sinistro ed entrare nei box per ritirarsi. Tendinite, spiegò, ma due settimane dopo, a Monza, non si presenta; poi in Germania va, ma senza correre, annunciando l’intenzione di operarsi. In Austria cade e andava adagio, in Jugoslavia lo aspettano, gli scaldano le moto, non si presenta; in Olanda assente ingiustificato, poi più visto. Telefonava a Kanemoto, “arrivo per le prove del venerdì”, e non si vedeva.
Per la stagione ’88 la Honda cercò di rimetterlo in sella, ma le poche volte che corse nemmeno entrò nei dieci. E non andò meglio l’anno dopo, quando Agostini lo chiamò per sostituire Lawson sulla Yamaha, e un quinto posto fu il miglior risultato. Ago, furbo, lo pagava a risultati.

Ai tempi d’oro, Spencer sosteneva di avere i superpoteri; di poter vedere le cose che si muovono rapide con tutti i dettagli di una ripresa al rallentatore. Al passaggio a livello poteva guardare un treno che passava a 150 all’ora, per esempio, e descrivere tutti i visi dei passeggeri affacciati al finestrino.
Un visitor? Io penso che, semplicemente, Spencer avesse bruciato tutte le sue energie psichiche con quella stagione della doppietta.
Il 1985 era stato esageratamente stressante. Disputare due classi con moto tanto impegnative lo aveva azzerato.
 

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