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La lista dei suoi piloti è lunga: Gary Hocking, Jim Redman, Mike Hailwood, Bill Ivy, Jarno Saarinen, Barry Sheene, Giacomo Agostini, Kenny Roberts e anche Marco Lucchinelli. Nobby è stato il tecnico dei piloti più grandi, a partire dal 1960 ha smontato e rimontato i motori delle MV Agusta, delle plurifrazionate Honda, delle due tempi Yamaha. La sua vita è un romanzo.
Classe 1936, era cresciuto nella Rhodesia del Sud, oggi Zimbabwe, e aveva una gran passione per la tecnica motoristica della moto. Amico di Gary Hocking, suo coetaneo e anche collega di lavoro alle ferrovie rodesiane, lo raggiunse in Europa quando Gary (dopo un biennio di mondiale) diventò pilota ufficiale MV Agusta. Entrò nella squadra di Arturo Magni come meccanico, si fece apprezzare in fretta, passò alla Honda con Redman quando Hocking, conquistato il titolo delle 500 nel 1961, passò alle auto senza fortuna e si schiantò con una Lotus alla vigilia dell’esordio in F1.
I motori Honda erano fantastici, il suo preferito fu il 250/350 sei cilindri. Ricordo che in un’intervista di qualche anno fa Nobby raccontava che i meccanici Honda avevano otto ore per la revisione completa, non un minuto in più: per smontare il motore dal telaio, aprirlo, sezionare la testata, cambiare i pistoni, sostituire anche l’albero motore dopo 350 miglia. “Bisognava lavorare con le pinzette –diceva- su molte parti come le valvole, perché tutto era sempre più piccolo ma le tue dita erano sempre le stesse”. Quello era un motore da 18.000 giri, qualcosa fuori dal mondo per l’epoca. Poi la Honda nel ’67 si ritirò e per Clark cominciò l’era del due tempi: passò alla Yamaha con Ivy, Carruthers, Gould, infine Saarinen e Ago dal ’74.
Giacomo ci racconta oggi che Nobby era un meccanico molto serio e devoto. “Aveva i suoi ritmi, mai di fretta, preciso; con molta calma smontava ogni pezzo e lo puliva subito con il suo straccetto. Andiamo a mangiare? Lui ti rispondeva no, prima devo finire. E del resto mi diceva che con Gary Hocking erano abituati a mangiare solo una volta al giorno, non come noi italiani che quando è pronto in tavola interrompiamo tutto”.
Mino confida che proprio in questi giorni, con alcuni amici americani, stava attivandosi per aiutare Nobby Clark: era ricoverato negli Usa, aveva un tumore, le cure erano molto costose e i risparmi di una vita non bastavano più.
“Sai –mi dice- com’è l’America. Purtroppo non abbiamo fatto in tempo e lui è morto solo e senza mezzi. Mi dispiace: era sempre stato un solitario, qualche amico, qualche amica, ma non grandi amori. Davvero era una specie di asceta che aveva dedicato tutta la vita alla moto”.
E Nobby aveva ammirazione per Ago ma venerava Hailwood: un pilota che aveva sempre voglia di correre e se la gara andava male non cercava scuse. Non si può vincere tutte le domeniche, diceva Mike, e la squadra poteva essere sicura che ci aveva provato fino in fondo. Il meccanico rodesiano non apprezzava i primi americani, invece, secondo lui erano poco concentrati sulle corse. Tranne Kenny Roberts, naturalmente, che dopo i tre titoli con la 500 Yamaha non aveva perso un millimetro della sua grinta e parlava di tecnica alla pari con i meccanici.
Con Nobby Clark – dal 2012 nell’AMA Hall off Fame, nella foto sotto la medaglia consegnatagli da Kenny Roberts nell'occasione della proclamazione - se ne va un’era del motociclismo da corsa, affascinante ma non così bella. I suoi occhi scuri e attenti, la sua espressione seria e concentrata, per me era da sempre un simbolo di come era intesa la passione negli anni eroici e drammatici: piloti che rischiavano la vita ogni domenica e meccanici che sentivano sulle loro spalle tutta le responsabilità.