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Odio la Dakar, o come diavolo si chiama adesso. Ho massimo rispetto per i piloti, per tutti quelli che la amano, la seguono, la affrontano, ma io la ritengo troppo pericolosa. Esattamente come il Tourist Trophy. In passato, nel 1997 e nel 1998, ho avuto la possibilità e la fortuna di seguire, per il giornale per il quale lavoravo ai quei tempi, la Dakar, che allora si disputava ancora in Africa.
Un'esperienza meravigliosa e indimenticabile, tanto per i rapporti umani quanto per i luoghi visti. Ma la gara non ha alcun senso, trasformata dallo sviluppo tecnologico di moto, gomme, accessori e gps in una corsa di velocità in mezzo al deserto.
Già nel 1997, di "avventura", come la intendeva il suo ideatore Thierri Sabine, c'era poco, adesso immagino che la situazione sia ancora più esasperata. Discutevo di questo praticamente ogni sera al bivacco con il fantastico Fabrizio Meoni, il più grande appassionato d'Africa e di Dakar (intesa come corsa) che abbia mai conosciuto, purtroppo anche lui tradito tragicamente dalla sabbia e da quella gara maledetta.
Fabrizio, con il quale avevo instaurato un ottimo rapporto, mi chiedeva spesso dei "miei" piloti, come li chiamava lui, di Luca Cadalora, Valentino Rossi, Max Biaggi, Loris Capirossi e tutti gli altri, quelli che io frequentavo abitualmente nei GP. Discutevamo a lungo e poi il discorso, inevitabilmente, finiva sempre sulla Dakar: lui cercava di convincermi della bellezza e del fascino di quella competizione, io esprimevo tutte le mie perplessità.
Che nel corso di questi anni sono solo aumentate, perché ritengo assurdo che si vada a 150 km/h per ore in mezzo al deserto, con pericoli e insidie praticamente a ogni metro.
Mi ricordo che Giovanni Sala, un altro pilota che ho avuto il piacere di conoscere nella mia partecipazione alla Dakar, ripeteva continuamente che come difficoltà vera e propria a livello di guida, una gara di enduro è molto più impegnativa di una in mezzo al deserto. Questo, diceva Sala, ti porta a esagerare, a spingere sempre più forte per recuperare il tempo perso magari per una foratura o per un qualsiasi banale inconveniente, facendoti dimenticare la stanchezza di giorni e giorni sempre in sella, di riposo ridotto, di condizioni climatiche difficilissime, arrivando a sottovalutare le note del road book, i pericoli segnalati con uno, due o tre (massima allerta) punti esclamativi.
Esattamente come pare sia successo a Luca Manca, il pilota sardo ancora in lotta tra la vita e la morte. Per tutto questo, odio la Dakar.
Giovanni Zamagni