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Due dei tre Gran Premi extraeuropei sono stati archiviati. Ryan Villopoto, il cui arrivo in Europa ha creato un interesse quale mai si era visto (almeno negli ultimi tempi) attorno alla MXGP è stato protagonista di una Rollercoaster Ride, come la definiscono gli statunitensi – un vero e proprio giro sulle montagne russe che lo ha portato dal Qatar alla Thailandia assaggiando in prima persona le differenze ambientali e tecniche fra il Supercross e il Mondiale.
E dando vita ad uno scontro che si preannuncia sempre più interessante con il passare della stagione, con la missione di riportare negli USA la corona di Campione del Mondo della classe regina (ad oltre trent’anni dallo storico successo di Brad Lackey) regalandola nel contempo a Kawasaki, ancora in caccia di questo primo successo nel Mondiale.
Un’interessante intervista condotta dal giornalista statunitense Eric Johnson, e diffusa da Alpinestars attraverso il suo sito web, ci regala uno spaccato della situazione di Ryan Villopoto alla vigilia del GP d'Argentina – una spiegazione di cosa è andato storto in Qatar, ma anche di cosa ha funzionato in Thailandia, e delle sostanziali differenze fra il mondo del cross statunitense e quello europeo.
Hai corso due gare del Mondiale 2015, e siamo alla vigilia del Gran Premio d’Argentina – sei nella posizione di poter fare qualche valutazione. Cosa ne pensi della tua avventura finora?
«Non è andata male – le prime tre gare comportano grandi spostamenti, e questa in Argentina sarà quella più distante. Una volta archiviata anche questa resteremo in Europa praticamente fino a fine Mondiale, avendo un punto d’appoggio. Le cose stanno procedendo per il verso giusto, soprattutto in questa pausa abbiamo potuto capire cosa dobbiamo cambiare sulla moto, cosa ci serve migliorare».
Si è parlato molto della tua moto – l’hai trovata lontana dal livello a cui te l’aspettavi?
«Più che altro sono state le piste a rivelarsi molto diverse da quello che mi aspettavo. Si sono rivelate molto più lente di quanto non mi aspettassi, quindi abbiamo dovuto ammorbidire molto le sospensioni – non per la composizione del fondo o cose del genere, proprio perché le velocità sulle piste erano molto inferiori. Dopo il Qatar siamo tornati e abbiamo effettuato un po’ di regolazioni; in Thailandia è andata molto meglio. Dopo la Thailandia abbiamo fatto quello che definisco messa a punto, dopo il Qatar abbiamo fatto UN SACCO di lavoro. Abbiamo fatto un sacco di modifiche in pochissimo tempo. Abbiamo avuto circa due giorni qui in Belgio per provare, tra l’altro sulla sabbia. E’ stato difficile, ma avevamo davvero bisogno di provare – ce l’abbiamo fatta, e pur con il poco tempo a disposizione siamo andati in Thailandia con una moto molto migliore. In queste due settimane abbiamo fatto un lavoro molto più preciso».
Moto nuova, squadra nuova, mondo nuovo – tutto nuovo. Quando sei arrivato in Qatar ed è stato il momento di correre l’impatto com’è stato? Non correvi davvero da tanto…
«Si e no. Avevamo appena cominciato, volevamo capire dove eravamo. Credo che la scoperta più grossa sia stata quanto fossimo lontani dall’assetto ideale della moto. All’inizio sono riuscito a fare qualche tempo decente, poi, per tutto il resto del weekend, è stato un disastro. Qualche piccolo problema con la moto, le cadute, le pessime partenze. Niente, niente è andato come doveva. Ma ogni volta che siamo scesi in pista siamo riusciti a migliorare».
Tutto il rituale di un Gran Premio – prove libere, cronometrate, qualifiche e tutto il sabato in sella – l’hai trovato molto diverso?
«Moltissimo. Al sabato si guida moltissimo – ci sono due sessioni di prova da 20 minuti e una gara da 20 minuti più due giri. Quindi si, al sabato si guida tanto e bisogna usare un po’ di strategia per piazzare il giro giusto e scegliere la propria posizione al cancelletto. E anche per scegliere il posto giusto per le gare di domenica bisogna fare bene nella manche di qualifica – bisogna vincere o comunque piazzarsi molto bene, ma bisogna stare attenti a non spingere troppo o a stancarsi eccessivamente. Sto ancora imparando tutte queste cose, sto cercando di capirci qualcosa. Lo stile americano è molto diverso da quello europeo, da noi tutte le volte che si scende in pista si tira al massimo. Qui sto scoprendo che bisogna tirare, ma che bisogna anche usare la testa – pensare bene a quanto c’è bisogno di girare e quando forzare».
Bisogna insomma gestire il proprio passo lungo il weekend?
«Si, un po’».
Come ti sei sentito dopo le due manche del Qatar? Perplesso?
«No, ad essere onesti niente è andato secondo i nostri piani. Abbiamo avuto problemi con la moto in entrambe le manche e ho finito per cadere tutte e due le volte. E’ difficile spiegarmi – certo, ho guidato malissimo, ma tutto il weekend è stato un disastro. E’ impossibile trovare una causa precisa, perché ce ne sono state tantissime. Certo, le cadute sono state un mio errore, perché stavo spingendo troppo ma il motivo era semplicemente che erano andate storte talmente tante cose che dovevo cercare di guidare sopra i problemi. Dopo la gara abbiamo potuto farci un esame di coscienza e dire ‘OK, abbiamo avuto questo problema e quest’altro’, e io sono caduto tre volte. E’ stato piuttosto facile capire quali fossero stati i problemi».
Dopo è arrivato il trionfo in Thailandia. Una vera e propria resurrezione.
«Si, ho finito con la vittoria assoluta, cosa che mi ha ovviamente fatto piacere. Passare da un weekend come quello del Qatar a fare un primo e un terzo in Thailandia è stata un’esperienza molto, molto, molto migliore. E’ stato bello conquistare quella vittoria, sapete?»
Hai letto tutte le polemiche sui forum e sui siti internet? Nel bene e nel male la tua impresa sta generando un livello incredibile di attenzione e reazioni dal pubblico e dagli addetti ai lavori di tutto il mondo.
«No, non ho letto (ride silenziosamente). Sapete, credo semplicemente che le cose vadano così – venire a correre qui è stato un grosso cambiamento. Mi piacerebbe vedere uno qualunque dei piloti europei andare negli USA e correre subito nel Supercross o nel National. Finirebbero dritti nella prima ambulanza in partenza per l’ospedale. Ci saranno sempre persone che dicono la loro, ma di fatto è il motivo per cui esiste un adesivo da paraurti che recita ‘shit happens’ (cose che capitano, NdT). Dopo il Qatar la situazione non era buona e lo sapevo. Tutti lo sapevano. Cercheremo solo di migliorare passo dopo passo, di andare più forte ogni settimana e ogni weekend – credo che abbiamo ancora un buon margine di miglioramento».
Dobbiamo chiedertelo: senti sulle spalle il peso di tutto il mondo del cross americano? C’è un certo attrito fra i tifosi europei e statunitensi in questo momento.
«Si, voglio dire – credo sia davvero bello che tutti seguano lo sport. Mi sento decisamente come uno che ha… non voglio dire nemici, ma ci sono tante persone che pensano che io credessi di poter venire qui e fare piazza pulita. Non ho mai detto che sarebbe stato facile, o che i piloti europei non fossero forti o qualunque cosa del genere. Tuttavia ho la netta impressione che ci sia gente che mi guarda come per dirmi sarcasticamente ‘Benvenuto al Mondiale!’ Per quel che mi riguarda non ho mai detto che non fossero veloci o cose del genere».
Cosa ne pensi dei piloti contro cui corri? Parli con loro? Che tipo di impressione ti hanno fatto?
«No, in questo momento ognuno sta molto per conto suo, soprattutto perché nelle gare extraeuropee si arriva in aereo assieme alle moto, non abbiamo il nostro motorhome. Non abbiamo niente, è un po’ come quando veniamo per il Cross delle Nazioni, tutto arriva nei container, noi abbiamo le nostre valige e ci sistemiamo alla bell’e meglio».
Parliamo di piste. In Thailandia diversi piloti hanno dichiarato che la pista fosse adatta al tuo stile, o che comunque fosse simile ad una pista da Supercross. Cosa ne pensi?
«Beh, correvamo tutti sulla stessa pista. Se pensano che quella pista fosse difficile, sarà meglio che non vadano mai negli USA per provare una delle piste che ci sono là perché finirebbe molto, molto male. Si, c’erano alcune sezioni con dei salti, ma roba piuttosto blanda. Erano tutti tratti molto scorrevoli, non c’era nulla anche solo vagamente simile ad una pista da Supercross. Anzi, la prima volta che ci ho fatto un giro a piedi mi ha ricordato il Loretta Lynn’s (la più celebre gara outdoor amatoriale degli USA, NdT). Ho sentito qualcuno dire ‘Oh, ma questa è una pista da Supercross’. Beh, se lo pensate non salite su un aereo per l’America, perché finirete in una palla di fuoco».
In Thailandia faceva molto caldo, tanto che alcuni piloti non si sono nemmeno presentati alla seconda manche. E più di un pilota che sembrava molto provato dopo la prima manche si è presentato notevolmente rinfrancato e in piena forma durante la seconda manche. Cosa ne pensi?
«(Lunga pausa) Faceva caldo. Era davvero caldo, soprattutto dopo il freddo che avevamo trovato in Europa. Là c’era qualcosa come 42 gradi. Quando siamo arrivati credo che fossimo a 43° - era caldo, ma era caldo per tutti ed è stato uno shock per tutti. Non so se si possa dire che ci sia stato qualcosa di sospetto. I top rider sono andati forte anche nella seconda manche – come ho già detto, c’è anche un aspetto strategico, e forse mi sono stancato troppo sabato durante le qualifiche. Ci sono molti aspetti in cui posso ancora migliorare».
OK, hai corso due gare e ti aspettano altre 15. Hai già vinto un Gran Premio al secondo tentativo e ti stai abituando a questa nuova situazione. Tutto considerato come ti senti?
«Mi sento piuttosto bene. Stiamo lavorando sulla moto, che sta migliorando – era la mia maggiore preoccupazione, e ci stiamo lavorando. E poi una volta che ci saremo lasciati alle spalle l’Argentina avremo un calendario più regolare e potremo lavorare con più metodo. Diciamo che sto guardando tutto da un punto di vista diverso. Non è una stagione come quelle a cui sono abituato. Sapete, è come se stessi reimparando tutto. Imparo qualcosa di nuovo ogni giorno».
Eric Johnson, per gentile concessione Alpinestars.com