SBK. Il sacro fuoco della passione

SBK. Il sacro fuoco della passione
Dove nasce la nostra passione per le due ruote? Diventa un fuoco quando si è a bordo pista. Ma continuerà a bruciare se il nostro sport si piegherà allo spettacolo?
13 gennaio 2016

Non so da quando il “sacro fuoco” della passione motociclistica arde dentro di me. Forse è nato con me o forse me l’ha trasmesso mio padre. Magari quando avevo quattro anni e mi portò assieme alla mamma da Abbiategrasso a Ferrara, sulla sua Isomoto 150. O forse saranno stati i racconti delle sue avventure su due ruote, come quando, stanco morto per aver lavorato 15 ore, partì di notte per raggiungere mia madre ed un colpo di sonno lo fece rotolare con la preziosa Iso in un campo di grano. Più stanco che dolorante, alzò la moto, sistemò il grano ….. e ci dormì sino all’alba.

 

Sempre per colpa sua la mia passione aumentò sensibilmente quando mi fece attendere per due anni, prima di darmi il permesso di comperare il mio primo motorino. Stavo ancora studiando, ed ottenuto il suo permesso, lavorai tutta l’estate per raggranellare le 97.000 lire che mi dividevano dal mio bolide : il Garelli Gulp 50 (mono marcia). Lo ritirai il venerdì sera ed il sabato mattina partii da Settimo Milanese alla volta di Dogliani (Cuneo). Duecentoventi chilometri che percorsi in dodici ore, rallentato dal rodaggio e dalle Langhe, che in alcuni punti mi costrinsero a pedalare per arrivare in cima alle colline. Ma arrivai a Dogliani e toccai il cielo con un dito!


Il sacro fuoco divenne un indomabile incendio qualche anno dopo, nel 1981. Ero nel parco di Monza e, non appena sentii il rombo dei motori, feci il biglietto ed entrai in autodromo. Si correva il Trofeo delle Regioni. Moto derivate dalla serie (un segno premonitore) e squadre divise per regione di appartenenza. Pochi appassionati sulle tribune, anche a causa del freddo e della pioggia. Entrai per la prima volta in un paddock. Tende, furgoni, meccanici che lavoravano in improvvisate officine, bambini che correvano e donne che facevano da mangiare, mentre qualcuno a terra saldava una marmitta. E poi c’erano loro: i piloti. Sempre con la tuta addosso e sempre vicini alle loro bellissime moto. C’erano tutte, Suzuki, Kawasaki, Honda, Yamaha ma soprattutto quella che da allora in poi popolò molti dei miei sogni: la Ducati Pantah 600.


Si corsero 3 o 4 gare, tutte combattute ed avvincenti. Sul bagnato vi furono molte scivolate e qualcuno si fece anche male. Il primo classificato vinse circa 300.000 lire, il secondo delle gomme ed il terzo caschi o stivali. Nessuno quindi sarebbe riuscito nemmeno a coprire le spese, men che meno quelli arrivati dal sud Italia e dalla Sardegna. Qualche mese dopo la mitica pista brianzola ospitò il mondiale 500. Non potevo ovviamente entrare nel paddock e mi piazzai all’interno della curva parabolica. Vinse Kenny Roberts ed il mio idolo, Marco Lucchinelli, arrivò quinto. Sembravano dei marziani. Arrivavano velocissimi in parabolica ed ogni staccata mi lasciava con il fiato sospeso. Alla fine tutti in piedi, ad applaudire i piloti che ci avevano regalato quel meraviglioso spettacolo. Tutti bravi, dal primo all’ultimo. Americani, inglesi, italiani e francesi. A nessuno importava la loro nazionalità. Certo noi italiani facevamo tutti il tifo “a favore” di Lucchinelli, ma “contro” nessuno, perché tutti i piloti vanno applauditi, perché danno sempre il massimo, perché possono anche cadere e farsi male e perché sono animati da una passione infinita, che li rende coraggiosi e pronti ad affrontare sacrifici e rischi.


Quando mi sono avvicinato al motociclismo gli appassionati non erano tanti. La maggior parte di loro era formata da chi possedeva ed utilizzava la moto. I piloti erano considerati l’espressione massima della passione. Sono stato fortunato. Ho vissuto il periodo nel quale il motociclismo non si era ancora trasformato in sport di massa. Nessuno applaudiva quando un pilota cadeva, nessuno fischiava i piloti sotto il podio. Ora invece il motociclismo è diventato uno sport popolare. Tutti ne parlano ed abbondano gli esperti. I media (soprattutto giornali e televisioni) ci hanno convinto che il motociclismo sia come il calcio. Ci hanno rimbambito facendoci credere che si debba essere tutti dei patrioti e che si debba gioire solo se a vincere sia un italiano. Come quando gioca la nazionale. Hanno alimentato ad hoc accesi dualismi pur di allargare la schiera dei “tifosi”. Il motociclismo quindi non è più solo per gli appassionati, per i motociclisti, ma anche per i tifosi, che come tali devono avere un idolo da venerare (sempre e a qualsiasi costo) ed un nemico da schiacciare (sempre e a qualsiasi costo). Sono stati bravi perché così hanno avuto più audience e venduto più copie e più pubblicità. Ovviamente non si sono minimamente curati delle conseguenze ed hanno sfruttato i dualismi e gli assurdi nazionalismi sino in fondo, cavalcando ed esasperando quanto è successo ad esempio nel finale del recente campionato della MotoGP.


Io non sono per Rossi, per Marquez o per Lorenzo. Sinceramente me ne importa poco. Quello che mi rattrista è il fango che è stato gettato sul nostro sport e che sarà difficile da ripulire. Il motociclismo ha vissuto la sua “calciopoli” e l’ombra del complotto (creato ad arte e senza avere la minima prova) oscurerà a lungo uno sport che è invece fatto di passione, di sacrificio e a volte anche di dolore. Ma si riprenderà. Per fortuna ci sono ancora competizioni motociclistiche dove si può entrare nel paddock, scambiare due chiacchiere con i piloti e sbirciare nei box per vedere i meccanici al lavoro. Dobbiamo ripartire da qui. Da chi per comperarsi la moto o per partecipare ad una gara è disposto a fare grandi sacrifici. Da chi ha dentro il sacro fuoco della passione.  

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