Asian Runways: dal Giappone all'Italia, pt. 3

Asian Runways: dal Giappone all'Italia, pt. 3
Continua il viaggio di Giampiero Pagliochini: oltre due mesi dal Giappone all’Italia attraverso la Siberia e il Deserto del Gobi in sella alla nuova KTM 1190 Adventure R
30 ottobre 2015

25 AGOSTO: Sono negli Altaj russi. Unica differenza rispetto alla Mongolia sono le strade asfaltate; i panorami sono bellissimi, con gole e montagne innevate. Alla sera, prima di andare a dormire, una bella sauna stile amarcord; al mattino assaporo l’ambiente di dove ho trovato da dormire, fatto di casette in legno lungo il fiume.
Non ho fretta, carico la moto con calma e partoverso Novosibirsk.Le distanze sono immense in Russia, un paese grandissimo che mostra segni di ripresa e dove gli sforzi più grandi sono concentrati sul rimettere in sesto la rete viaria.Ovunque campeggianomanifesti o monumenti chetrasudano un nazionalismo viscerale, come a voler ripetutamente ricordare a chi passa di trovarsi in un grande paese.
Durante il percorso, all’altezza di Barnaul, si scatena un temporale e le temperature scendono, così decido dinon rischiare e fermarmi in un motel lungo la strada con annesso ristorante. La cosa più pericolosa sulla strade russe, oltre ai cambiamenti di asfalto, sono le auto; non perché gli autisti siano particolarmente indisciplinati, quanto perché c’è la tendenza ad acquistare auto giapponesi, che costano la metà ma hanno la guida all’inglese, e quindi induconoi conducenti a spostarsi sulla corsia opposta, causando incidenti mortali.

26 AGOSTO: Giungo a Novosibirsk, una città moderna, anche se la geometria costruttiva ricorda sempre lo stile del regime anni ’50.Sosto una notte e mi riposo.

27 AGOSTO: Da Novosibirsk piego ad ovest verso Omsk.Il paesaggio è monotono, con rettilinei che non finiscono mai, ma oggi è un giorno speciale, perchého appuntamento con due viaggiatori in moto italiani.
Federico e Matteo stanno andando in Australia: un viaggio di piacere, ma anche di necessità, per costruirsi un futuro lavorativo migliore di quello che gli si prospetta in Italia. Parte la scontata riflessionesul perché tanticervelli con un potenziale professionale utile al nostro Paese se ne vanno a caccia di fortuna altrove e mi rendo conto di essere un fortunato.
Decidiamo di passare la serata insieme ed alloggiare nello stesso hotel, mai nostri presupposti cozzano con qualcosa che non riusciamo a capire. I titolari dell’albergo ci dicono che non c’è posto per noi, anche se in realtà si capisce bene chenon ci sono clienti; proviamo con l’hoteldall’altro lato della strada, ma anche lì ci dicono “Niet”. A quel punto ho due alternative: o proseguo verso Omsk, o torno indietro da dove sono venuto, col rischio di non trovare comunque da dormire. Scelgo la prima soluzione e saluto Federico e Matteo. Tanti auguri, ragazzi; magari un giorno ci si rivede.
Arrivo ad Omsk e stavolta mi presento in hotel con un altro stile: carta Visa bene in vista equalche migliaio di rubli appoggiato sul bancone della reception. Non è il mio modo di fare, non sono così sbruffone, ma stavolta vedo che mi fanno entrare; forse i biker russi non sono ben visti.

28 AGOSTO: Piove, ma devo abituarmi a queste condizioni: sto andando verso gli Urali e ho idea che non troverò né sole, né caldo. La strada è sempre il solito piattume dritto; ogni tanto sosto lungo la strada per fare qualche scatto ai tanti venditori di prodotti della terra, con i soliti sidecar Dnepr carichi per l’occasione di ortaggi e la mitica Fiat 124.La sera dormo in un motel lungo la strada, una sorta di stazione di servizio con ristorante annesso.Il rituale è sempre lo stesso: mi dicono che non c’è posto e posso dormire solo in una stanza da condividere senza bagno, metto su tavolo rubli e Visa e allora mi danno la suite.

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29 AGOSTO: Prima di accendere la moto indossol’antipioggia, so già chedovrò farne uso nel corso del tragitto. Supero Ufa, una città che vedo da lontano(tutte le arterie stradali distano parecchio dagli agglomerati urbani), e decido di sostare in prossimità di un piccolo paese dove trovo anche un bancomat: piove ed il fondo stradale è in condizioni pessime, meglio non rischiare.

30 AGOSTO: Ha diluviato per tutta la notte ed il fondo stradale è peggiorato ulteriormente, complice anche la temperatura(il termometro della moto indica 3,5 gradi). In unbar incontro un gruppo di motociclisti polacchi e facciamo due chiacchiere;sono circa 80 moto, si muovonocon mezzi di appoggio etre di loro ieri sono caduti. Quando gli racconto che io sto viaggiando da solo dal Giappone e con pneumatici da fuoristrada rimangono stupiti. Non mi conoscono, non sanno che io sono uno che non molla mai.

31 AGOSTO: Percorro vallate degli Urali, dove si alternano tratti di vento freddo ad altri in cui le temperature sono più miti. Poi di nuovo la pianura, il sole e torno oltre i 20 gradi. Alla sera giungo a Samara e decido di soggiornare all’Hotel Moya, una chicca: per una sera non voglio badare a spese, ma mi partono 30 €.

1 SETTEMBRE: Il sole splende su questa parte di Russia, viro verso Togliattigrad, la città mito dei vecchi comunisti italiani. Sosto per un po’ di riprese e un’intervista ad un ragazzo che, come tutti gli altri che hanno capito da dove sono partito, non esita a darmi del matto.
Da qui in avanti scendo verso sud aggirando il Kazakistan, che evito per non incorrere nell’attesa di giorni del traghetto per l’Azerbaigian, che arriva e parte un po’ a casaccio.La scelta si rivela più che azzeccata: qualche giorno dopo ricevo un messaggio da Martin, un motociclista tedesco conosciuto in Russia, il quale m’informa che, dopo quattro giorni di inutile attesa, ha deciso di rientrare in Russia e scendere a sud; nel percorsoè finitoin Cecenia, dove poliziotti senza scrupoli gli hanno scucito 260$ e dove hapure rimediato un morso di un cane in uso agli aguzzini, finendo in ospedale.Senza presunzione,gli avevo suggerito di non passare per la Cecenia.
È sera, il contachilometri è vicino ai 700 km giornalieri ed io, a 54 km da Volgograd, decido di fermarmi: di notte non mi azzardo a viaggiare.

2 SETTEMBRE: A Volgograd ero già stato una volta, nove anni fa: è la classica città russa squadrata nella rete viaria, con lunghi viali intervallati da semafori. Volgograd è il nome dato a Stalingrado dopo il crollo del regime comunista; qui si consumò una delle battaglie più cruente della Seconda Guerra Mondiale, dove i tedeschi subirono la sconfitta che rilanciò le armate sovietiche verso Ovest.
Ad ogni sosta ai semafori qualcuno mi chiede informazioni e c’è chi, vedendo la targa austriaca,mi si rivolge in tedesco;quando rispondo che in realtà sono italiano, vedo sempre una reazione positiva da parte della gente.
Senza GPS, sono costretto a chiedere informazioni per capire dove si trova la Statua della Libertà. Mi aiuta un motociclista, che parla inglese e mi fa strada. LaStatua della Libertà di Volgograd è la più grande della Russia e misura 90 mt. Le solite foto di rito, poi l’invito del ragazzo a seguirlo a casa sua vicino a Sochi, ma non posso: ho un appuntamento in Armenia a cui non posso dire di no.
Scendo a sud, consapevole di andare dritto verso la Cecenia.Quando giungo ad Elista mi trovo un mondo nuovo intorno a me: non c’è più un viso che abbia caratteri somatici russi, ma solo gente con la carnagione scura e lineamenti mongoli, o a volte gitani.Dove sono capitato?
In attesa di chiedere informazioni mi fermo ad un distributore a fare il pieno. C’è una guardia con tanto di Kalashnikov e pistola nella fondina, mi chiede dove sono diretto, gli rispondo “Georgia”, lui mi chiede che strada intendo fare e, quando gli mostro la cartina spiegandogli che voglio passare per Grozny (capitale della Cecenia), mi dice che sono matto. Si avvicinano altre persone, tra cui un ragazzo che spiccica un po’ d’inglese, e tutti mi consigliano vivamente di cambiare strada; mi torna in mente l’esperienza dell’amico Martin con il cane e i poliziotti e decido di seguire i suggerimenti. Se tutti mi dicono di non farlo, perché ostinarsi?
È notte quanto giungo a Stavropol.Grazie alla solita tattica del taxista che ne sa sempre più di una degli altri alloggio in un hotel da favola, senza prima avere messo sul tavolo la solita carta Visa e i 5000 rubli.

3 SETTEMBRE: La giornata è piacevole, le fredde temperatura degli Urali sono dimenticate.Nel primo pomeriggio mi ritrovo alla frontiera con la Georgia, tra le montagne.C’è un traffico caotico, ma grazie alla moto mi districo tra i mezzi in fila ed arrivo abbastanza rapidamente al gate.
Gli addetti in frontiera non si sono scrollati di dosso quel senso investigativo classico della guerra fredda e mi fanno mille domande che non capisco:NietRusky!Però, alla fine dei controlli, ringraziano gentilmente.
La Georgia è un paese che da subito mi dà l’idea della Grecia anni ’80.La conferma la sera a tavola, in un ristorantino alla periferia di Tbilisi: musica, tanti tavoli e tanta vodka invece che ouzo.

4 SETTEMBRE: Alle 7:30 sono in piedi, deciso ad arrivare prima possibile all’appuntamento al lago di Sevan, in Armenia. Percorro qualche km e mi rendo conto che mi manca qualcosa: cavolo, gli occhiali da enduro!Svolto e torno indietro alla ricerca, che, per fortuna, si conclude presto,a lato della carreggiata.
Lascio alle spalle Tbilisi, mi inerpico sulle montagne e poi la pianura.La ragazzadella dogana apre il passaporto e mi saluta con un bel “Buongiorno”; le pratiche sono sbrigate in un attimo.Ma, mentre sto ancora pensando stupito alla rapidità della frontiera georgiana,incappo nella terribile burocrazia armena: salto da una scrivania all’altra, pago due volte non so che cosa, esco dopo un’ora e vengo accolto da due autentici predatori, che mi bloccano per invitarmi a fare l’assicurazione della moto. Il modo di fare è tutt’altro che gentile, uno di loro mi afferra per un braccio e a quel punto reagisco in modo brusco: capisco che sono il turista da spennare, ma a tutto c’è un limite! Ristabilitii ruoli, acquisto questa benedetta assicurazione e, tra una riffa e l’altra, passa un'altra ora. Dopo, posso finalmente girare la chiave della moto.
Arrivato a un bivio, mi trovodue diverse possibilità per arrivare a Sevan: costeggiare il confine con Azerbaigian o proseguire sulla statale per Jerevan e poi tornare indietro.Opto per la prima:la strada prevede una lunga salita tra le curve, il divertimento è assicurato.
Rispetto ai Paesi confinanti, l’Armenia vive un disagio economico e forse anche religioso, essendo l’unicoPaese cristiano in una zona quasi totalmente islamica.Tra l’altro nel 2015 si celebra il centenario del genocidio avvenuto per mano dei turchi, che causò centinaia di migliaia di morti. Ma oggi il nemico è l’Azerbaigian, come mi spiega, in perfetto inglese, Amelia, una donna che trovo sul ciglio della strada a vendere noci eduna specie di prugne.
In pochi minuti Amelia mi racconta lasua vita e quella dei suoi avi, le difficoltà attraversate nei decenni dagli armeni.Con un dito mi indica le montagne: gli azeri ci controllano e in questi giorni ci sono tensioni lungo il confine.Stai a vedere che, dopo essere scampato al caos ceceno, mi ritrovo inguaiato qua!
È ora di andare, ma prima Amelia vuole regalarmi della frutta; io cerco in qualche modo di pagare, ma lei insiste emi lascia con una lezione di vita: “Oggi non guadagno nulla, domani forse qualcosa, ma è importante che il mio animo sia felice”.Quanto è lontano il nostro stereotipo!
Riprendo la marcia edattraverso vallate incontaminate, ma ogni tanto anche militari in assetto di guerra; saluto e loro ricambiano.Dopo un centinaio di chilometri arrivo al lago di Sevan, poi mi fermo ad un distributore per chiedere la cortesia di farmi fare una telefonata (sono senza scheda telefonica). Chiamo e dall’altra parte mi risponde entusiasta Roberto Curnis. Roberto lavora in KTM Italia e durante l’estate impegna un po’ delle sue ferie per venire a Spitak con altri amici, tutti fedelmente iscritti all’Associazione Alpini di Gorle, il paesino bergamasco ai piedi di Bergamo, a titolo di cronaca ogni anno organizza una manifestazione benefica di enduro in collaborazione con Gio Sala.
Dopo il terribile terremoto che colpì l’Armenia nel 1998(causando circa 200.000 morti), a Spitak(località a circa 100 km da Jerevan) la Croce Rossa italiana piantò un campo con moduli abitativi. Questi moduli sono ancora presenti ed oggi ospitano un centro funzionale che raccoglie 24 ragazzi con vari problemi, accuditi da quattro suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta. Questi ragazzi non avrebbero vita lunga fuori dal centro, e invece qui sono mantenuti in maniera dignitosa e parlano bene sia l’italiano che l’inglese; per farla breve, i loro coetanei fuori dal centro non hanno queste attenzioni.
Quando vengono qua, Roberto e gli altri fanno tutti i lavori necessari a mantenere in funzione il centro, portando anche aiuti economici fondamentali per il mantenimento degli occupanti.I ragazzi non mi conoscono, ma in pochi attimi diventano tutti amici.

5-6-7 SETTEMBRE: Sono tre giorni all’insegna della cordialità, di un mondo che siamo abituati, almeno per me, a vedere o ricordare solo quando ci vengono chieste donazioni. Approfitto del tempo e della disponibilità per manutenzionare la moto prima del rush finale fino in Italia;cambio pure gli pneumatici, visto che le TKC 80 che ho su si sono sparate già 9000 km: il posteriore è una caciotta, e non poteva essere altrimenti, mentre l’anteriore ne avrebbe ancora.
Approfitto della domenica per scendere a Jerevan e mi becco pure una multa per sorpasso su striscia continua; avevo incrociato pochi metri prima la polizia in senso opposto, ma non avrei mai pensato che avessero la telecamera pure al Jerevan è la classica capitale che offre tutto in una terra dove per chilometri e chilometrile uniche risorse sono il pascolo di animali e agricoltura. Passo per il centro e vedo che c’è anche una strada che si chiama Via Italia,di sicuro per la presenza della nostra ambasciata. D’obbligo la visita al Dzidzernagapert (la Collina delle rondini), dove sorge il mausoleo che ricorda le vittime dello sterminio del 1915. Dopo questa gita rientro a Spitak per l’ultima notte che trascorro qua.

7 SETTEMBRE: Dopo essere passato al centro per salutare i ragazzi, le suore e gli amici bergamaschi, salgo a nord verso Ashot, dove c’è un ospedale della Croce Rossa costruito sempre nel periodo del terremoto. Da lì faccio rotta nuovamente per la Georgia.La strada scorre tra le montagne, a tratti piove e viaggio solo fino al confine; per rientrare in Georgia mi viene chiesto di pagare per fare uscire la moto dall’Armenia.Sto al gioco, ma non mi è mai successo di pagare per una esportazione…
Scendendo tra le montagne, verso ora di pranzo, scorgo un fumo proveniente da delle abitazioni. Cavolo, è un ristorante on the road!Parcheggio e mi abbuffo senza ritegno.La sera raggiungo nuovamenteTbilisi e parcheggio la moto in hotel.

8 SETTEMBRE: Giornata dedicata alla visita del centro storico della capitale georgiana.Con la funicolare salgo alla cittadella, da dove si domina tutta Tbilisi, poi a piedi scendo tra i quartieri antichi, dominati da simboli religiosi ebrei, islamici ed ortodossi. La mia mente con un flashback torna indietro al 1985, quando visitai Sarajevo e rimasi sorpreso da come religioni diverse potessero convivere pacificamente così a stretto contatto. Qualche anno dopo, come si sa, le mie impressioni sulla capitale bosniaca furono radicalmente stravolte dai fatti. È difficile capire l’evolversi di questi contesti: la religione è spesso il pomo della discordia da cui dare vita a rivendicazioni di ogni tipo, ma, almeno per il momento, non mi sembra il caso della Georgia.
Torno in hotel e poi la sera di nuovo alla cittadella, per godermi lo spettacolo del panorama di notte.

9 SETTEMBRE: Lascio Tbilisi e punto verso Batumi, sul Mar Nero: vorrei fare un percorso fuoristrada che mi è stato consigliato negli ultimi 100 km, ma, non avendo GPS, non trovo la strada e rinuncio.
Batumi, distante 15 km dal confine con la Turchia, è una città spumeggiante, piena di turisti e con un fiume di denaro che gira grazie ai casinò. Per le strade vengo affiancato da una Lamborghini prima e una Ferrari poi. Come cambia repentinamente il mondo!

9-10-11 SETTEMBRE: Entro in Turchia e proseguo costeggiando il Mar Nero.La sera del terzo giorno arrivo ad Istanbul, dove devo fermarmi per comprare una cosa che mi ha chiesto mia figlia. Dormo, come sempre, vicino alla Moschea Blu.Per strada si vedono tante famiglie di sfollati siriani a chiedere elemosina.Una tragedia, ripensando alla Siria di qualche anno fa.

12 SETTEMBRE: Piove ed ho un problema: non ho fatto rifornimento e l’autostrada che porta in Grecia non è fornita di stazioni di servizio, così rientro sulla normale e proseguo, sempre con un occhio attento alle auto bianche parcheggiate in senso contrario, che sono quelle della polizia munita di laser. Non faccio in tempo a pensarlo che ne trovo una! Mi attacco ai freni, passo a 60 km/h, ma poco più avanti vengo fermato dall’altra pattuglia avvisata dalla prima: mi contestano 120 km/h, io nego, così mi fanno accomodare in auto (in verità con grande gentilezza) per mostrarmi le riprese, in cui si vede che all’inizio viaggiavo a 120 km/h, per poi rallentare bruscamente fino ai 60. Io ammetto di aver rallentato solo dopo aver visto la macchina della polizia, ma sta di fatto che sono passato davanti a loro a 60 km/h e quindi non possono farmi multe:alla fine mi fanno firmare un verbale, ma nulla da pagare.
Arrivo in Grecia, mi sento quasi a casa.Decido di dormire a Kavala, ma la sera mi arriva un messaggio di Maria, che abita a Komotini, una città che ho già superato da 100 km. Ci eravamo conosciuti nel 2008 sulla nave che dalla Grecia veniva ad Ancona, io di ritorno da un viaggio dal Pakistan e lei che andava a trovare amici in Austria, e ci siamo tenuti in contatto tramite Facebook.Non posso dire di no, domattina tornerò indietro.

13 SETTEMBRE: Appuntamento a Xanti, Maria è lì con il suo compagno.Che bello ritrovarsi dopo tutti questi anni!Prima un aperitivo e poi a pranzo insieme; come è tradizione in Grecia, ci si alza dal tavolo a pomeriggio inoltrato e allora Maria m’invita a restare, sarò loro ospite per la notte.

14 SETTEMBRE: Saluto Maria e riparto. Da due giorni sto pensando se imbarcarmi direttamente dalla Grecia per l’Italia o se salire per Spalato; alla fine opto per quest’ultima soluzione.
Nel primo pomeriggio sono alla frontiera con l’Albania: un paese che è un vero cantiere a cielo aperto e sta andando incontro a grandi cambiamenti. Visito il lago di Prespa, che fa da confine a tre Stati, poi torno a Korcè, dove passerò la notte.
Collegandomi a FB ricevo un messaggio da Alessio Corradini, che è a 50 km da qua: sta seguendo come fotografo il Raid di Albania 2015 e mi invita ad andarlo a trovare. Ormai per oggi è troppo tardi, andrò domani.

15 SETTEMBRE: Giungo a Pogradec, non mi è difficile trovare l’hotel lungo il lago.Bella organizzazione, vengo accolto con tutti gli onori, poi Alessio mi invita a seguirlo lungo il percorso di off-road per scattare delle foto. Il tracciato s’inerpica sulle alture circostanti la città ed è davvero bellissimo.
Ad una certa ora saluto e scendo a valle, versoTirana. Prima di arrivare nella capitale devio per l’ultimo tratto di fuoristrada del viaggio, consigliatomi da due amici:il canyon di Gramsh. In questa zona ci sono dei lavori in corso ed il tracciato è in parte modificato, ma quello che resta da percorrere è libidine pura. Ad un certo punto incontro una sbarra chiusa e sono costretto ad attendere 4 ore per passare: stanno costruendo una nuova strada e, per farsi largo tra le gole del canyon, usano la dinamite.
Finalmente arrivo a Tirana, a due passi da casa del mio amico Alberto.Lo chiamo e lui arriva subito in moto, mi faccio una doccia e poi ci sediamo intorno ad un tavolo per fare quattro chiacchiere.

16 SETTEMBRE: In un giorno faccio tre frontiere.Sono luoghi che ho già visitato qualche anno fa; addirittura il Montenegro l’attraversai nel 1985, ma questa è un'altra storia.La sera mi fermo a dormire appena fuori Dubrovnik, giusto per non farmi spellare il portafoglio dagli hotel dentro la città.

17 SETTEMBRE: La prendo con tutta la calma del caso, visito l’antica Dubrovnik(in italiano conosciuta anche come Ragusa di Croazia), poi nel pomeriggio arrivo a Spalato e parcheggio la moto al gate del porto.
È l’ultimo atto di Asian Runways.Sono passati 83 giorni da quando misi piede a Tokyo ed il contachilometri, una volta a casa, segnerà 25.581 km percorsi.
Cosa farò ora? Di sicuro non mi guardo indietro. Già penso alla prossima avventura, tanto per non perdere l’abitudine.

Giampiero Pagliochini

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