Per inviarci segnalazioni, foto e video puoi contattarci su [email protected]
Come la cena della sera precedente, anche la colazione viene servita, di buon’ora, in giardino, nonostante una quindicina di gradoni di una ripida scala lo separi dalla cucina, al primo piano. La giornata si annuncia calda ed è meglio non perdere tempo e mettersi in moto. Una volta assolte le formalità mattutine siamo pronti per partire per Orvieto che, con Viterbo, è uno degli obiettivi di questa prima giornata alla scoperta della Tuscia.
L’arrivo a Orvieto è spettacolare, una cartolina di quelle che oramai non si mandano più, come dice Paola. Per stare al passo con i tempi potremmo dire che è il frame di uno spot pubblicitario dell’Umbria felix da Mulino Bianco. Dalla Tuscia laziale siamo passati senza accorgercene a quella umbra. L’ingresso in città è complicato da una segnaletica approssimativa. E una volta nel centro storico pedonale, realizziamo che quello che io chiamo “effetto Saint-Paul de Vence” ha colpito anche qui. Come a Pienza, troppe bottegucce con artigianato made in China, delicatessen della campagna a prezzi da gioiellerie, traffico di turisti da città d’arte che sono però vestiti, e urlanti, come se dovessero andare in spiaggia.
Incuranti, puntiamo dritti alla piazza del Duomo e alla cattedrale. Che non deludono. Non a caso Santa Maria Assunta è considerata uno dei capolavori dell’architettura gotica in Italia centrale. Fortemente voluto da papa Niccolò IV per celebrare il miracolo di Bolsena, fenomeno paranormale citato in parecchi documenti e dipinto pure da Raffaello nella Messa di Bolsena nel ’500, il progetto della basilica risale al 1263, l’inizio dei lavori di costruzione della cattedrale è del 1290, ma per arrivare all’attuale configurazione bisogna aspettare la seconda metà del ’500, quando vennero erette anche le guglie. Quando si parla di fabbrica del Duomo normalmente si fa riferimento alla lunghezza dei lavori per la realizzazione di quello di Milano. Ma nemmeno quello di Orvieto fu costruito in quattro e quattro otto. Anche da queste parti se la sono presa comoda, ma ora questa meraviglia è sotto gli occhi di tutti e soprattutto davanti ai nostri. Estasiati di fronte a tanta bellezza non esitiamo a entrare per ammirarne anche l’interno, di cui si narra nelle guide altrettanta meraviglia.
Non è solo questione di arte. Nel duomo ci staremmo ore, tra le navate ci sono 10 gradi meno che all’esterno, ma Viterbo ci attende e il programma va rispettato, dice Cesare, che nomen omen teme le derive anarcoidi in questa armata Brancaleone a due ruote. Sostiene che il gruppo ha poca disciplina. Soprattutto quando si viaggia in moto. Lamenta che nessuno lo segue e spesso e volentieri ci si perde. Non tiene conto delle difficoltà oggettive, per noi motard da vacanza, nel manovrare queste moto, spesso cariche all’inverosimile e con passeggero, sugli stretti e scivolosi acciottolati dei centri storici, tra Ztl, sensi unici e segnalazioni spesso e volentieri non chiare. Lui ascolta, ma non ammette ragioni: chi è dietro deve seguire altrimenti è un disastro. E ora il suo “Viterbo” suona come una sentenza che esclude la visita al cinquecentesco pozzo di san Patrizio, voluto da Clemente VII che dopo il sacco di Roma intendeva proteggere la città in caso di assedio. Usciamo dal Duomo, recuperiamo Giacomo e le moto, e in formazione compatta riprendiamo la strada. Destinazione Viterbo: un’altra città per papi.
Contrariamente a Orvieto, l’arrivo a Viterbo è disarmante. La disordinata periferia è di uno squallore proverbiale e non incoraggia la visita della città sebbene la guida di Anna testimoni la presenza del centro medievale più grande d’Europa. Con oltre 60 mila abitanti, capoluogo di provincia dell’Alto Lazio e sede dell’Università della Tuscia, Viterbo è città vera e vissuta, non un borgo bomboniera a uso e consumo del turismo d’arte. Il Palazzo dei Papi che qui hanno dimorato per oltre un ventennio per fuggire alle faide della Curia romana, racconta con dovizia di particolari, e anche grazie a una audioguida, le vicende storiche ed ecclesiastiche di cui nel XIII secolo la città, contesa tra guelfi e ghibellini, fu protagonista.
Che Viterbo sia stata sede papale per oltre 20 anni nel XIII secolo è, come direbbe Feltri, fattuale. Ma in quel periodo, per eleggere un papa, Gregorio X, ci misero più di tre anni e perché ciò avvenisse fu necessario chiudere i cardinali a chiave nella sala dell’elezione, metterli a pane e acqua, e poi scoperchiare il tetto per lasciarli esposti alle intemperie: 1006 giorni di calendario per eleggere il nuovo capo della Chiesa è tutt’ora un primato che allora fu fonte di una serie di aneddoti che oggi arricchiscono la storia di questa città che a tanta indecisione si ribellò. Solo grazie all’intervento di Raniero Gatti, Capitano del Popolo di origine bretone e quindi risoluto nei modi, la città riuscì a imporsi sulle faide che stavano dilaniando e coprendo anche di ridicolo un clero tanto corrotto quanto litigioso.
Per esempio, l’origine del Conclave. Una volta eletto papa infatti, Gregorio X, stabilì con la costituzione apostolica Ubi Periculum che anche le future elezioni papali avvenissero in una sede chiusa a chiave (clausi cum clave). Dal 1261 al 1281 Viterbo ne ospitò ben cinque, ovviamente più brevi, finché nell'ultimo lo zampino di Carlo d’Angiò e della monarchia francese, che fece eleggere Martino IV, chiuse il periodo aureo della città. Non più sede papale, Viterbo rientra nei ranghi della normalità e nel novero delle tappe della via Francigena lungo la Cassia come una Orvieto qualsiasi e anche noi, dopo avere ammirato un’ultima volta la splendida loggia che affaccia sulla piazza San Lorenzo, usciamo dal palazzo.
Per eleggere un papa fu necessario mettere i cardinali a pane e acqua e lasciarli esposti alle intemperie. A noi bastano i 40 gradi di questo agosto torrido per non proseguire la visita al museo, accontentarci di quel che resta dell’antico palazzo papale e trovare ristoro all’ombra del platano che presidia la piazza della Morte. La toponomastica purtroppo non ci è di grande conforto, ma il venticello che si è nel frattempo alzato ci ridà quel briciolo di energia che serve per ritornare verso casa.
Prima di lasciare Viterbo, decidiamo di fare il quotidiano pieno di benzina per evitare di rimanere a secco. Normalmente è un’operazione noiosa per la quale occorrono pochi minuti e un po’ di attenzione, ma è sempre meglio non dare mai nulla per scontato. Nel nostro caso, l’affaire pieno si complica per la atavica renitenza di Marco a usare il bancomat o la carta di credito. Uomo di pensiero, ben poco attratto dalla tecnologia e dai suoi innegabili progressi, preferisce fare il pieno usando denaro contante, nella fattispecie una banconota da 20 euro. Ma quella che in gergo definiamo la classica ventata di euro e di ottimismo per continuare a viaggiare, è troppo . Quando la pompa segna 17 euro, il serbatoio della Bmw di Marco è pieno raso. Noi abbiamo già completato le nostre operazioni di rifornimento ma per evitare di lasciare 3 euro a Big Benza iniziamo un motogirotondo intorno alla pompa per riempire anche i nostri serbatoi fino all’orlo. Una poverata, direbbe la mia collega snob, che si è tradotta in una mezz’ora demenziale per fare il pieno di benzina e riprendere la strada di casa. Montefiascone, una sosta strategica in una norcineria per acquisto guanciale docg e le verdi sponde di Bolsena alleggeriscono il ritorno mentre il pensiero corre più delle nostre moto ed è già all’aperitivo in giardino e alla cena: gricia o amatriciana? JackChef ama sorprenderci.
“Partenza ritardata”. Il messaggio di Anna avvisa anche Paola e Marco che dormono nell’altro casale. Non si può partire nonostante la colazione di buon’ora, l’espletamento di tutte le pratiche preparatorie ad affrontare la giornata dedicata alle terme sulfuree e Giacomo stia già assaporando il suo primo toscano in attesa dei compagni di viaggio. Cesare con un gesto maldestro? Un improvviso colpo di vento? La tenda malandrina? La dinamica dell’incidente non è chiara, anche se i sospetti si concentrano sulla negligenza del signorCesare. Sta di fatto che siamo chiusi fuori di casa, con la vecchia chiave incastrata nella toppa all’interno. Di più: tutte le finestre sono al primo piano e sono pure chiuse per evitare che entri il caldo. I nostri timidi tentativi di improvvisati scassinatori con coltellino, lamette e cacciaviti non danno frutti. Solo grazie a Francesco, il padrone di casa, arrivato con il suo Porter e con una scala telescopica riusciamo a rientrare in casa. Con un acrobatico intervento stile pompiere, Francesco, aiutato da un amico, riesce ad arrampicarsi fino all’unica finestra non chiusa. Noi assistiamo, coadiuviamo per quanto possibile e documentiamo il pronto intervento con foto e video: non un grande aiuto, piuttosto sostegno morale ai due temerari quanto provvidenziali pompieri sul campo. Rientrati in casa e soprattutto rientrati nella condizione di entrare e uscire dalla stessa senza patemi, si decide di lasciare la chiave sempre all’esterno, si raccomanda al signorCesare di fare maggiore attenzione nei suoi spostamenti e proviamo a metterci in moto.
- continua