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Prima tappa di giornata sono i Bagni San Filippo, ai piedi dell’Amiata, per un tuffo nelle piscine termali naturali di acqua calda sulfurea che hanno creato un paesaggio magico di bianche formazioni calcaree, cascatelle e piccole vasche all’interno di un bosco. Le proprietà terapeutiche dei Bagni San Filippo sono conosciute fin dall’antichità: Filippo Benizi, santo cui è dedicata la chiesetta del paese, si fermò qui in eremitaggio nel 1269. Un biglietto da visita a cinque stelle per chi ama ambiente, natura e giocare con l’acqua delle terme e io, fermo nella convinzione della straordinarietà del posto, guido il gruppo fino alle prime spettacolari concrezioni calcaree, ma dopo i primi oh!! di sorpresa si fanno strada dubbi e perplessità. “Come la mettiamo con il Covid? Qui c’è troppa gente”. “C’è puzza di zolfo”. “Ettecredo, sono acque sulfuree”, provo a ribadire sulle orme di Catalano. “Non si vede il fondo, questo fango mi inquieta”. Niente da fare, nonostante sia un posto di una rara bellezza selvaggia Bagni San Filippo non scatena entusiasmo: le facce parlano chiaro, il caldo fa il resto e, dopo un breve bagno nelle piscine naturali, decidiamo di raggiungere i più tranquillizzanti e freschi 1.734 metri del Monte Amiata.
La strada attraversa una faggetaia spettacolare alla cui ombra trovano spazio e refrigerio famigliole e gruppi di amici per grigliate domenicali: siamo a metà strada tra i bbq americani e le feste dei filippini nel parco ai piedi del Monte Stella, per intenderci, la montagnetta di Milano. In ogni caso il profumo delle salsicce e delle costate che sfrigolano sulla brace mette un po’ di acquolina in bocca. Tanto che arrivati in cima all’Amiata, dove si raduna il popolo delle gite della domenica con nonna al seguito, ci consoliamo con mezzo metro di tagliere di salumi e un paio di schiacciate ripiene: la qualità è scarsa ma la quantità non si può discutere e ci impone una strategica pennichella di cui apprezziamo anche i primi da molti giorni brividi di freddo che paradossalmente riscaldano il morale della truppa.
Un’occhiata alla cartina per decidere come scendere a valle senza rifare le stesse curve e per capire che, con una deviazione di pochi chilometri, possiamo raggiungere l’abbazia di Sant’Antimo. Seggiano, lungo la strada, è anche un modo per riconciliarsi con la Toscana dei borghi in pietra meno frequentati: quelli lontani dai percorsi turistici, meno citati nelle guide e per questo anche più veri. Meno leccati, hanno conservato lo stile di vita e le abitudini di chi vive in e di campagna.
Seggiano ci introduce a Sant’Antimo che è l’altra faccia (religiosa) di questa Toscana. Nemmeno il fisiologico e non trascurabile numero di visitatori riesce a intaccare l’atmosfera magica che avvolge questa abbazia. Un’aura che mi riporta alla mente quella che si respirava nelle enclave dei monasteri serbi del Kosovo, dove nemmeno la protezione e la presenza dei militari della Kfor riusciva a scalfire la mistica che anche un agnostico lontano da fede e religione come me riusciva a cogliere.
L’architettura medievale dell’abbazia è la cassa armonica per le note della musica gregoriana che risuona tra le navate romaniche della chiesa. L’orto e la farmacia all’esterno sono le uniche altre attrazioni di questo luogo di culto. Una menzione speciale è per l’orto di Ildegarda, il cui ordine benedettino è ammirevole e da ammirare. Ma la storia di questo luogo di culto è curiosa. A cominciare dall’Antimo cui è dedicata l’abbazia. Che potrebbero essere addirittura due, il primo sarebbe un religioso perseguitato da Diocleziano e Massimiano che convertì anche un sacerdote del dio Silvano e l'intera famiglia. Colpevole di aver infranto il simulacro di quella divinità, Antimo venne gettato nel fiume Tevere con una pietra legata al collo, ma ne uscì incolume. Poi decapitato venne sepolto nell'oratorio nel quale era solito pregare. La leggenda vuole che papa Adriano, nel 781, consegnò parte delle reliquie del martire romano (assieme a quelle di san Sebastiano) a Carlo Magno, che poi le donò all'abbazia al momento della fondazione.
L'altro Antimo era un diacono aretino martirizzato insieme a san Donato nel 352. La leggenda racconta che mentre il vescovo aretino stava celebrando una funzione di ordinazione e Antimo distribuiva la comunione con un calice di vetro, nel tempio entrarono alcuni pagani che gettarono a terra il calice mandandolo in frantumi.
Sempre secondo la leggenda, Donato li raccolse e sebbene mancasse un pezzo del fondo del calice, incurante del problema, continuò a servire il vino senza che neanche una goccia uscisse dal calice. Questo provocò lo stupore dei pagani, che si convertirono. Seguirono l'arresto di san Donato, la sua uccisione assieme ad altri cristiani, la distruzione dei libri e degli arredi liturgici. Si ritiene che Antimo, per sfuggire alla persecuzione, si rifugiò nella val di Starcia e qui sia stato martirizzato e sepolto dove poi venne eretto il nucleo primitivo dell'abbazia: sul luogo del martirio dove prima sorgeva una villa romana venne edificato un piccolo oratorio. Ad avvalorare questa ipotesi numerosi reperti di epoca romana come il bassorilievo con la cornucopia sul lato nord del campanile o alcune colonne nella cripta carolingia. L'incisione “Venite et bibite” invece farebbe pensare alla presenza di una fonte con proprietà terapeutiche. Fin qui la religione.
Furono comunque i Longobardi nel 770 a incaricare l'abate pistoiese Tao di iniziare la costruzione di un monastero benedettino e gli affidarono anche la gestione dei beni demaniali. Le abbazie erano strategiche per il controllo del territorio oltre a essere fonte di entrate: infatti erano utilizzate come sosta dai pellegrini diretti a Roma, dai mercanti, dai soldati e dai messi dei re. Ma nel 781 Carlo Magno di ritorno da Roma sulla via Francigena pose il suo sigillo. Una leggenda medievale racconta che Ludovico il Pio, figlio e successore di Carlo, arricchì l'abbazia di doni e privilegi. Leggenda o meno, Sant’Antimo diventa un'abbazia imperiale e l'abate viene insignito del titolo di conte palatino e consigliere del Sacro Romano Impero. Potere non bruscolini.
Verso la metà del secolo XII la costruzione della nuova abbazia è quasi completata e per Sant’Antimo inizia un secolo d’oro cui pose fine Pio II. Certamente gli abati avevano approfittato del loro potere. Nel 1439 l'abate Paolo viene addirittura incarcerato per le sue scelleratezze. Ma questo fu solo uno dei motivi che indussero poi Pio II, Enea Silvio Piccolomini, a sopprimere l'abbazia. Sant’Antimo avrebbe sicuramente messo in ombra la sua Pienza. Calò invece il sipario su Sant’Antimo: solo quattro secoli dopo, nel 1870, quando l'abbazia era abitata da un mezzadro, che alloggiava nell'appartamento vescovile, utilizzava la cripta carolingia come cantina, la chiesa come rimessa agricola e il chiostro per dare riparo agli animali, inizia a rivedere un po’ di luce. Passata sotto la giurisdizione delle Belle Arti, fu oggetto di ben sette campagne di restauro fino a raggiungere lo stato attuale. Fino ad arrivare ai giorni nostri.
All’inizio degli anni Settanta Franco Zeffirelli girò alcune scene del film “Fratello sole, sorella luna”, ma, nonostante le Belle Arti di Siena, l'edificio rimase in uno stato di sostanziale abbandono. Nel 1975 si decise di ricostituire una comunità monastica e nel 1979 un gruppo di giovani nomadi arrivati dalla Francia fondò una comunità ispirata alla regola dell'ordine dei premostratensi, religiosi che si dedicano a una vita contemplativa che però prevede anche l’educazione della gioventù e l’apostolato missionario. Nel 1990 iniziarono i lavori di ristrutturazione per renderla nuovamente abitabile per i monaci, a cui si sono uniti altri giovani, sia sacerdoti che laici, che si insediarono nel 1992 . L’abbazia è ora sede di eventi liturgici e culturali dell'arcidiocesi di Siena, Colle val d’Elsa, Montalcino, ma nessuna comunità monastica vi risiede. Fine del pippone.
Con questa storia di Sant’Antimo sono andato un po’ lungo. Lo so e me ne rendo anche conto. Ma così come mi aveva affascinato, arrivando, l’abbazia e il luogo dove sorge, allo stesso modo mi ha incuriosito la storia di questo luogo sacro ma che è stato insieme centro di potere temporale e oggetto di faide arcivescovili e papali. Nei secoli l’hanno depredata della sua giurisdizione e anche dei suoi tesori, ma nessuno è mai riuscito a toglierle l’austera bellezza della sua architettura né quell’aura magica che anche in un contesto così ricco di storia e di arte non solo religiosa fa di Sant’Antimo un unicum imperdibile per chiunque sia in viaggio da queste parti.
Tanto è entrata nel mio cuore l’abbazia che questa infinita digressione storica su Sant’Antimo se lo sono sorbita anche i miei compagni di viaggio. Che, ricordandomi tutto quel che ci rimane da fare, fanno ampi gesti a forbice con le dita: taglia corto, dobbiamo andare a Bagno Vignoni. Loro sono stati più colpiti dall’Orto di santa Ildegarda di Bingen, badessa benedettina vissuta tra il 1098 e il 1179, che condusse uno studio tanto approfondito quanto concreto della natura e dei suoi impieghi in medicina. Presso la farmacia, allestita nell’antica sala del tesoro, si possono acquistare prodotti alimentari realizzati secondo le ricette della secolare tradizione: miele, confetture di frutta, caramelle e tisane. La farmacia, sulla falsariga dei book shop all’uscita dei musei, propone anche una selezione di prodotti per la cura del corpo realizzati con essenze naturali ed erbe officinali, olio d’oliva, uva rossa, lavanda, pepe nero. Per chi invece non ha bisogno di cure specifiche ma ama la birra, può sempre ripiegare su quella artigianale di Sant’Antimo che viene prodotta nelle varianti bionda e ambrata. Noi non possiamo fare shopping per evidenti problemi di posto nelle borse. Tantomeno se le confezioni sono delicate o in vetro.
Tra sacro e (non)acquisti profani lasciamo Sant’Antimo. Ci aspetta Bagno Vignoni , ultima tappa di questo sconfinamento in val d’Orcia e nella Tuscia toscana. Vogliamo vedere la sua piazza delle Sorgenti, con la cinquecentesca vasca rettangolare di acqua termale calda e fumante di origine vulcanica che già etruschi e romani conoscevano come testimoniano molti reperti archeologici. Oggi si parlerebbe di piazza iconica, ma fu frequentata da illustri personaggi, da Pio II a Lorenzo de’ Medici e ad altri che elessero questo borgo come meta di villeggiatura. Bagno Vignoni fu set per Tarkovskij, esule da alcuni anni in Toscana, che nel 1982 ambientò alcune scene del film “Nostalghia” e nella "piazza delle sorgenti" è ambientata una scena del film “Al lupo al lupo” di Carlo Verdone.
Al di là dei riferimenti storici e cinematografici per chi viaggia da queste parti, non passeggiare sotto il loggiato affacciato sulla piazza vasca è impensabile. Il borgo purtroppo ha subito il turismo asfissiante di quasi tutte le cartoline della val d’Orcia, ma data l’unicità di questa piazza è inevitabile.
Ieri sera JackChef ci ha stupiti con un agilissimo quanto gustoso spaghetto al pomodoro e ai profumi dell’orto. Che cosa inventerà per stasera? A nulla valgono le proteste del signorCesare che sogna di sedersi al tavolo di un ristorante davanti a una fiorentina. Sebbene non vegetariani, preferiamo il menu a sorpresa di JackChef. Il ristorante, almeno per stasera, può attendere.
Più dei chilometri, il caldo. La giornata dedicata ai Bagni, intesi come San Filippo e Vignoni, doveva avere un effetto defatigante. Si è rivelata più tosta del previsto e JackChef ha fatto di tutto per rimetterci in forze e di buon umore con uno spaghetto al pomodoro semplice semplice, ma buonissimo. Purtroppo avevamo le gomme a terra (noi, non le moto), ed esaurite le ultime forze in una discussione animata su un carotoniano futuro incerto, ad anime belle e verginelle (come alcuni di noi sono stati definiti) e cinici analizzatori di un sistema destinato ad autodistruggersi per inefficienze democratiche e malaffare, non resta che coricarsi nella speranza che qualche buona lettura plachi gli animi e dia un minimo di prospettiva alla linea dell’orizzonte e al futuro dell’umanità. Per intenderci, complice anche il tasso alcolico, siamo passati da Tonino Carotone a Bilderberg passando per la Spectre e il Protocollo dei Savi di Sion.
- continua