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La notte in effetti ha portato consiglio. E soprattutto maggiore saggezza. Per oggi tutti concordano: programma agile, tappe brevi e non motociclisticamente impegnative che prevedano anche la possibilità di rientrare a casa in qualsiasi momento. Il meteo ha messo caldo torrido e già a Proceno, dove ci fermiamo per un caffè (sembrerebbe esagerato considerarlo una tappa) capiamo che il termometro difficilmente scenderà sotto i 30 gradi. Il piccolo borgo di 600 anime si rivela meno banale della sosta alla quale lo avevamo associato. Proceno, di origini etrusche, arrivato in dote allo Stato della Chiesa dopo la morte di Matilde di Canossa ne è stato l’avamposto militare sul Granducato: la rocca, ora albergo diffuso che ospita pure un piccolo museo, è la testimonianza di quanto questo piccolo borgo lungo la via Francigena fosse al centro dei traffici non solo militari ma anche commerciali. Qui soggiornò pure Galileo in viaggio da Firenze a Roma per il processo: una regolamentare targa ricorda il casale dove trascorse la sua quarantena a causa della epidemia di peste che affliggeva Firenze.
Dalla quarantena di Galileo a quella di mia moglie il passo è straordinariamente breve, basta che l’occhio si sposti dalla targa commemorativa allo schermo illuminato del telefonino che annuncia l’arrivo di un messaggio: domani prende il treno per Frosinone dove mi impegno ad andare a prenderla.
Noi nel frattempo abbiamo deciso di lasciare Proceno e la sua piazza dove campeggia un treppiede con tutto quello che occorre per riparare una bicicletta, un servizio per i cicloturisti che pedalano da queste parti e fa guadagnare a Proceno anche la stima di Anna, neocicloamatrice che gradisce questo tipo di attenzioni nei confronti dei bicicolleghi. Sorano e Pitigliano sono le prossime due tappe della Tuscia più affascinate ma anche più votata al turismo. Per anni le testate di viaggio hanno pubblicato servizi fotografici spettacolari sulle città del tufo. Ora basta googolare Pitigliano per vedere che, in 64 secondi, il motore di ricerca ha trovato quasi 3 milioni di voci. E non potrebbe essere altrimenti: arrivando da sud, da Manciano e Corano, le arcate dell’acquedotto che delimitano il centro storico sono una cartolina che con la luce del tramonto diventa un quadro.
Noi arriviamo da nord, sono più o meno le 11 del mattino e ci accontentiamo di quel che riusciamo a immaginare, anche ascoltando i racconti di Marco e Cesare che vennero qui in vacanza ai tempi dell’università. Stiamo parlando del secolo scorso ma sia l’acquedotto sia Pitigliano erano lì già da secoli a dare spettacolo. Decidiamo che comunque non possiamo fermarci alla cartolina: parcheggiamo le moto, impresa non facilissima perché la Ztl che delimita il centro storico impone di lasciare le moto lungo la strada provinciale e ci addentriamo nel borgo. Purtroppo non basta nemmeno stare all’ombra: il caldo è insopportabile, almeno per me. E decidiamo di dividerci: per me e Cesare niente tombe etrusche, quelle di Sovana, rientriamo a casa. Cesare ha già visitato gli scavi nel Parco Archeologico e a me tornano alla memoria le tombe licie che in Turchia fui praticamente costretto a visitare per non essere additato al pubblico ludibtio dall’equipaggio della barca: quattro ore nella baia di Kekova a bordo di una lancia sotto un sole infuocato e una guida turca che in un inglese più che improbabile provava invano a generare interesse. Troppe necroassonanze, passo la mano. Gli altri quattro sull’onda dell’entusiasmo decidono di proseguire per Sovana e per la necropoli etrusca all’interno del Parco Archeologico delle Città del Tufo.
Per la sua ultima sera con noi Cesare ha chiesto e ottenuto di andare fuori a cena. Ha chiesto al vulcanico e iperattivo padrone di casa che, tra il racconto della impari lotta a cinghiali e caprioli che gli stanno devastando il frutteto, la sua attività in Comune e alcune nuove iniziative per accogliere più turisti dopo le defezioni, soprattutto americane causa Covid, lo indirizza a La Dogana, trattoria non impegnativa a qualche chilometro da casa, praticamente al confine tra Lazio e Toscana. Loquace e prodigo di consigli ci indica anche i piatti da ordinare sottolineando che se i pici all’aglione sono la specialità della zona (sebbene lì non li facciano proprio come dio comanda) e che è inutile chiedere una fiorentina perché sotto Siena si mangia la tagliata accompagnata da patate al forno o dalla cicoria ripassata. È la tradizione.
Come quella dei sardi che anche qui nella Tuscia ammazzano i maialini quando pesano ancora 11 chili. Non si capacita di tanta crudeltà: noi aspettiamo che arrivino almeno a 18 chili, ci dice chiedendo conferma alla madre che lo aiuta nella gestione dei casali. Mamma annuisce e Cesare, districandosi in questo profluvio di parole senza un apparente nesso comune, prende scrupolosamente nota del menu per poi riferire ai compagni di viaggio. Ma è solo una formalità, ha già riservato un tavolo per sei sicuro di fare cosa gradita. E così è: quando la banda dei quattro arriva non proprio appagata dalla necroescursione, apprezza l’iniziativa confidando anche nel pagamento del conto.
A La Dogana ci aspettano per le 20, non c’è troppo tempo da perdere. Puntuali ci presentiamo al tavolo e come soldati rispettiamo le raccomandazioni del nostro agente locale: pici all’aglione e tagliata con cicoria ripassata. Ci siamo solo concessi la libertà di ordinare un dolce. Purtroppo la delusione è arrivata al momento del conto. Noi speravamo anche in un beau geste del nostro anfitrione, ma purtroppo il signorCesare ha optato per la soluzione alla romana. D’altronde siamo ancora in Lazio e le tradizioni locali, seppure in senso lato, vanno rispettate. Il sigaro acceso da Giacomo in giardino sigilla la serata assieme al bicchiere della staffa. Anche i riti vacanzieri vanno rispettati.
Oggi il signorCesare torna a casa. Come in Montenegro la licenza matrimoniale è finita. Lo attendono Pina, la moglie, e Sia, un cucciolo di labrador che dovrà accudire. Pare che sia un piccolo demonio ingestibile, almeno a sentire i bollettini di guerra che quotidianamente lo e ci aggiornano sui Siadisastri. Prima di mettersi in viaggio, diamo una controllatina all’olio e ingrassiamo le catene delle moto: il contachilometri dice che abbiamo già fatto più di un migliaio di chilometri dalla partenza. Anche per noi è tempo di mettersi in sella, ma verso sud. Tivoli e poi Vico nel Lazio le tappe di giornata. Per me c’è il supplemento Frosinone, dove andrò a prendere Babette che già manda i primi messaggi da un treno che sfreccia verso Roma. Tivoli per me è un classico: negli ultimi 3 anni ci sono passato 4 volte. E sempre in moto: ne è sempre valsa la pena.
Dopo avere visitato Villa Adriana e il vecchio borgo, quest’anno è la volta di Villa d’Este, che nei miei precedenti passaggi non sono mai riuscito a vedere. Il timore questa volta è quello di non riuscire ad apprezzarne la meraviglia: oggi siamo vestiti da lunga percorrenza e a Tivoli, come in mezza Europa (mal comune non significa affatto mezzo gaudio) fa un caldo soffocante. Perciò oltre a posteggiare le moto, provvediamo a un rapido cambio di abiti. Via stivali e giacche da moto e, gipsy style, proviamo a indossare bermuda e sneaker per aumentare il comfort durante la visita. Stiviamo e lucchettiamo alla meno peggio caschi e bagaglio e, mascherati, ci mettiamo in coda alla biglietteria. Non mi dilungo nella descrizione dei tesori della villa che comunque racconta ogni guida, compresa quella che Anna compulsa davanti a ogni singolo zampillo d’acqua. Nel parco ce ne sono a migliaia ma Anna ci ragguaglia su autore, epoca e significato di ognuno. Noi ascoltiamo ma sono la visione d’insieme e alcune prospettive a lasciarci letteralmente a bocca aperta. Gli oltre 4 ettari di parco ci tranquillizzano anche rispetto al numero di passi che ogni giorno, sebbene per molto tempo in moto, vogliamo fare: anche oggi i 10 mila passi sono garantiti. Esattamente come i 2-3 litri d’acqua che beviamo, e immediatamente sudiamo, per far fronte alla calura che anche nell’ombreggiato parco della villa non ci abbandona.
Purtroppo anche l’orologio sulle 12 non ci conforta. Se vogliamo arrivare per tempo a Vico e soprattutto a Frosinone è meglio non cincischiare. Conviene riguadagnare il posteggio, rimettersi in modalità viaggiatori a due ruote su lunghe percorrenze e avventurarsi nella campagna Ciociara. <No autobahn> è il mantra anche di questo trasferimento, ma la velocità media inevitabilmente si abbassa, ca va sans dire. Una sosta attorno alle due in un anonimo barpasticceria lungo la strada è anche l’occasione per fare il punto della situazione, capire dove è al momento Babette e fare un mini piano operativo che comprenda, oltre alla presa di possesso della nuova casa, anche una spesa per l’attovagliamento serale e prima colazione del giorno dopo.
Innanzitutto occorre avvisare il nostro nuovo padrone di casa dell’ora del nostro arrivo, capire bene dove si trova e come si raggiunge il Casale Pozzillo, nostra nuova dimora per un paio di giorni. Poi bisogna capire dove e come fare la spesa e coordinarsi con Babette in arrivo a Frosinone che, carta e navigatore alla mano, abbiamo capito distare una trentina di chilometri da Vico. Confortati anche dalla fragranza della sfogliatina alla ricotta che ci viene servita dopo un ricco panino, e dalla rassicurante telefonata con Simone che ci aspetta, ci rimettiamo in moto. Dovremmo arrivare a Vico per le 5 e anch’io, che sono l’unico con borse adatte per trasportare vettovaglie e soprattutto bottiglie, avrò il tempo per fare la spesa nel supermercato a qualche chilometro dal casale di Simone prima di ripartire alla volta di Frosinone. Agli altri il non meno impegnativo compito di prendere possesso della casa, stivare la spesa e preparare il comitato di accoglienza per la nuova arrivata che speriamo abbia fatto un viaggio sufficientemente dignitoso da non intaccare il suo proverbiale buon umore.
Simone invece è stato un po’ troppo ottimista con le nostre capacità di individuare il casale e soprattutto la strada per raggiungerlo. Il navigatore in questi casi serve a poco, spesso queste antiche case contadine sono su strade sterrate e in zone non mappate: il nostro caso. Simone ci ha dato latitudine e longitudine del casale ma nessuno di noi ha idea di come trasferire le coordinate della posizione su Google Maps. Non siamo nativi digitali, è già un miracolo se usiamo lo smartphone non solo per telefonare. Pertanto andiamo a tentoni, indecisi se seguire la segnaletica stradale che indica la frazione Pozzillo oppure i suggerimenti di Google Maps che però portano verso una strada sempre più stretta e sempre meno asfaltata. Prima di infilarsi in un cul de sac sterrato con le moto cariche, faccio un ultimo tentativo: telefono a Simone, di cui sento la suoneria del telefono e poi la voce di un rassicurante “Pronto, dove siete?”. Non molto lontani, evidentemente. In linea d’aria eravamo a meno di 100 metri e dalla nostra posizione era sufficiente percorrere la strada sterrata sulla quale già eravamo senza fare inversioni a U oppure azzardate manovre. Semplicemente proseguendo avremmo incontrato sulla destra un’apertura nella staccionata e l’accesso al Pozzillo. Rassicurati che il fondo della mulattiera non sarebbe peggiorato e anche la pesante Bmw stradale di Marco non avrebbe avuto problemi, abbiamo percorso anche il simbolico ultimo miglio.
Simone ci accoglie e oltre a illustrarci la casa, ci ragguaglia sulla presenza di cinghiali nella zona, fonte di preoccupazione non solo per chi transita come noi su queste strade di campagna ma soprattutto per i pastori che temono per le pecore che pascolano nei campi adiacenti al Pozzillo. Simone stesso che ce le indica poco lontano, ci racconta come pure qui al Pozzillo il nonno allevava pecore. Ora il casale è un’accogliente dimora con tanto di forno esterno in pietra e una cucina dotata di tutto quel che serve, come nota e fa notare JackChef. Tre stanze comode e un ampio bagno completano una sistemazione assolutamente in linea con le nostre aspettative. Dopo Proceno e il solerte quanto loquace Francesco, temevamo un downgrading, abbiamo trovato la nostra luna nel Pozzillo.
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