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Questa estate luciferina non lascia molti spazi all’immaginazione. Noi, che abbiamo in programma la visita ai Castelli Romani, partiamo appena dopo colazione: ci attendono un’ottantina di chilometri di autostrada ai quali ha dovuto dare il suo assenso pure Giacomo. Se vogliamo raggiungerli bisogna fare necessità deve fare virtù. Anche perché lui e Anna non saprebbero come giustificare la loro vacanza agli amici di Brisighella e Faenza cui avevano annunciato che “li castelli” era l’obiettivo di questo viaggio a sud. Lungo la strada il caldo stronca anche il mio navigatore, ma fortunatamente Babette ha preso in mano il controllo delle operazioni e con il suo smartphone ci guida agilmente verso Castelgandolfo, Città del Vaticano, già residenza papale che Francesco ha aperto al pubblico. La visita comprende palazzo, che evitiamo, e giardini, che ci sorprendono: 20 euro per un tour guidato a bordo di una caddyauto elettrica più adatta a trasferimenti sui campi da golf ma che si adatta perfettamente alla visita di questa appendice verde di 55 ettari a sud di Roma che lo Stato della Città del Vaticano ha ricevuto in dono dall’Italia con l’accordo dei Patti Lateranensi poi ratificati anche dal Concordato che regola i fluidi rapporti tra i due Stati.
L’audioguida e il nostro chaperon ci illustrano con dovizia di particolari tutte le zone del parco: origine e destinazione d’uso con tanto di aneddoti relativi a questo o quel pontefice. Tenerli a mente è difficile anche perché l’incanto della vegetazione e del panorama hanno immediatamente il sopravvento. Per me che faccio fatica a distinguere un geranio da una primula è come varcare i bastioni di Orione.
A curare il parco ci sono 20 giardinieri che coordinano squadre di addetti non solo alla potatura, ma anche alla coltivazione dell’orto e alla cura degli animali che vengono allevati nel parco. Inaspettato quanto straordinario. Esattamente come il matrimonio che si sta celebrando nella chiesa e non solo di Castelgandolfo: l’intera piazza è il teatro di questa cerimonia. Le mise maschili sembrano non tenere conto dei 40 gradi all’ombra di questo mezzogiorno di fuoco, mentre le vertiginose minigonne e le stole da matrona romana delle signore mettono a dura prova il buon gusto con colori sgargianti spesso incuranti dell’anagrafe e del rito che si sta officiando. Noi maschietti guardiamo da lontano, ma per le ragazze questa piazza sgargiante è una miniera per lanciare veri e propri anatemi su abiti, cappelli e acconciature che sfidano la legge di gravità. Ma basta allargare lo sguardo per capire che i marziani siamo noi: tutto il paese sembra abituato a kermesse di questo genere. Anche i due anziani in canotta traforata, braghette e pianelle di ordinanza che, noncuranti, gettano lo sguardo al sagrato e sorridono. Sanno che tutto questo è parte di un gioco che alimenta il business di tutte le attività commerciali sulla piazza e nelle vie limitrofe. Castelgandolfo è anche questo.
Non è affatto semplice fare il bagno nel lago di Nemi. Ma ne vale la pena. Questo specchio d’acqua tra le verdi colline dei Castelli Romani è praticamente proprietà privata di una facoltosa comunità di happy few che da queste parti abita dimore patrizie con affaccio e spiaggia privata sul lago. Me lo conferma pure un agente immobiliare di Frascati che viene a farsi un bagno nell’intervallo di pranzo in una delle pochissime e minuscole spiaggette pubbliche di Nemi.
“Con il lockdown questa zona si è rivalutata in modo impressionante. Molti romani hanno deciso di prendere casa qui, alcuni mollando addirittura Roma”. C’è da credergli. E non solo perché è del mestiere e snocciola quotazioni come un agente di Borsa. Il lago di Nemi è magnifico: una perla azzurra immersa nel verde di queste colline apprezzate dall’aristocrazia ecclesiastica che qui ha costruito dimore fin dal ‘500. Caligola, invece, sul lago fece costruire due navi: una per pregare e ingraziarsi gli dei, l’altra per le feste, dove ovviamente le grazie erano di tutt’altro genere. Quel che resta dei due vascelli si può vedere nel Museo delle navi romane di Nemi che fu costruito per ospitarle dopo il recupero sul fondo del lago ma che purtroppo venne danneggiato assieme al suo contenuto da un incendio nel 1944. Peccato, ma anche l’agente immobiliare dice che non ne vale la pena. Meglio stare a bagno. E noi non ce lo facciamo ripetere. Oltre a rinfrescare, la nuotata nel lago ha messo fame all’intera truppa e tutte le strade gastronomiche portano a Genzano: “Dove cascate, cascate bene” ci assicurano.
La trattoria dei Cacciatori sembra proprio fare al caso nostro anche se non è un indirizzo per un semplice spuntino: fettuccine fatta in casa, cacciagione, quaglie, pernici e vino dei Castelli vengono da noi celebrati con un pranzo che contempla pure dolce, caffè e ammazzacaffè. Mandiamo foto dell’attovagliamento a Cesare che ci risponde con un paio di corna e due faccine rosse di rabbia e verdi di invidia mentre Marco prova a inaugurare, almeno per questo viaggio, la sua carta di credito e ad accorciare la linea rossa che si allunga sotto il suo nome nella app dei conti. Si illude di scavallare e di passare nella più tranquillizzante fascia dei creditori ma Anna scuote la testa. Solo il ricordo della pernice appena mangiata lo ripaga della delusione. A tavola non si invecchia ma l’orologio segna le tre passate ed è ora di tornare a casa sebbene il tragitto in autostrada non prometta grandi emozioni. Stasera cena frugale e poi, appena fa buio, naso all’insù alla ricerca delle stelle cadenti. Tonight’s the night, per dirla con Rod Stewart.
I 90 chilometri che ci separano da casa mettono a dura prova la nostra concentrazione e anche la nostra idratazione. Ci fermiamo lungo la strada per acquistare un po’ di frutta e ne approfittiamo per toglierci le giacche: una manciata di chilometri ci separa da casa e dalla doccia che alcuni di noi, una volta arrivati a casa, fanno con la manichetta en plein air. Gelata come un IceBucket.
Il bello di questi casali di campagna sono anche i vicini di casa. O meglio di terra. Forse attratto dalle signore ancora in accappatoio e con l’asciugamano a mo’ di turbante per contenere i capelli bagnati, il pastore del campo sotto il Pozzillo, alle prese con il gregge e i cani, si avvicina alla staccionata che separa le due proprietà ma anche due mondi che più lontani non potrebbero essere. Quasi a fare gli onori di casa, il simpatico pastore racconta la sua giornata, i problemi con le pecore, l’importanza del cane per tenerle tutte insieme e soprattutto per proteggerle dai cinghiali che oramai sono una minaccia per mezza Italia e non solo per le povere pecore. Potrebbe anche bastare, ma il buon uomo, solleticato anche dall’attenzione con cui Paola e Babette lo ascoltano, si avventura in una spericolata quanto improvvida lectio moralis che dal gregge, ai cani passa all’universo femminile. Le ragazze non apprezzano affatto l’azzardata iperbole del pastore che le invita anche alla festa danzante giù in paese e si sganciano con grande garbo e senza mettere in imbarazzo il galante filosofo. Cala la sera, cadono finalmente anche le stelle e nella notte cadono anche un paio di cinghiali, seccati da due colpi di schioppo che ci svegliano tra i latrati dei cani messi in allarme dalla presenza dei predatori.
Con oggi inizia il viaggio di ritorno. Tre le tappe previste. Per raggiungere la prima, Spoleto, bisogna ripassare da Subiaco se vogliamo evitare l’autostrada o in alternativa sconfinare in Abruzzo e allungare il viaggio. Poco male, la Subiacense ha un tracciato piacevole ed è anche l’occasione per ripassare dall’altopiano di Arcinazzo che prende il nome da Arcinia, una delle concubine dell’imperatore Claudio. L’altopiano a 850 metri sul livello del mare era infatti già conosciuto in epoca romana, lo testimoniano anche i resti di una villa di Traiano e il relativo sito archeologico. Noi siamo per la seconda volta di passaggio e ne apprezziamo il microclima paragonabile a quello delle Dolomiti insieme a una vegetazione ricca di abeti, frutto dell’iniziativa di un biologo di Sua maestà. Sir Walter Becker nel suo testamento dispose, con un lascito, la creazione di un vivaio per gli abeti che ora fanno bella mostra di sé assieme a lecci faggi e querce che completano il quadro di questo angolo alpino nel cuore dell’Italia. Nella breve sosta ci raccontano anche della fauna che abita queste terre, ma purtroppo l’ordalia di villeggianti e di viaggiatori attratti dall’altopiano spaventa scoiattoli, tassi, volpi, istrici e anche i cinghiali, che come abbiamo capito ieri notte preferiscono palesarsi con il favore delle tenebre. Il lago del Turano, seppure artificiale, è l’altra perla di questa tappa. La diga infatti poco a nord della Riserva del Monte Navegna e del Monte Cervia è ancora immersa in un contesto naturale che riempie gli occhi e che non viene infastidito nemmeno dal turismo balneare che qui trova piccole strutture ricettive poco invasive. Non ci attardiamo, ma ammiriamo incantati il panorama dalla sella della moto. Spoleto, stiamo arrivando. Anche se il cartello Rieti sulla strada richiama la nostra attenzione.
Secondo Anna e non solo lei, Rieti non vale una messa come Parigi, ma almeno una visita la merita. Detto fatto, ci ritroviamo nel cuore della città che già in epoca romana veniva considerata il centro della penisola, non potendo allora parlare di Italia. Nel Medioevo poi questa tesi si consolidò con la misurazione di alcune distanze: si stimava che Rieti distasse in linea retta 52 miglia dall’Adriatico esattamente come dal Tirreno; sull’asse nord sud erano 620 le miglia che separavano l’antica Augusta Pretoria (ora Aosta) da Capo dell’Armi in Calabria. E al chilometro 310 sorgeva appunto Rieti. Solo successivamente, a metà del ‘600, si individuò l’Umbellicus Italiae nella piazza San Rufo dove oggi i cartelli, a uso e consumo dei turisti, indirizzano e dove è stato malamente collocato un discutibile monumento. Richiama nella forma il basamento di una colonna e nonostante riporti in caratteri solenni la scritta "Umbellicus Italiae", viene utilizzato come sedile oltre che per graffiti, qualora ci fosse ulteriore bisogno di aumentare il tasso di cattivo gusto. Arrivati a questo punto non possiamo esimerci dall’omaggiare con qualche foto la caciotta, come la chiamano da queste parti a sottolineare il sapore vagamente kitch del monumento e la evidente sproporzione rispetto alle dimensioni non esagerate della piazza.
I tavoli all’ombra di un discobar che sembra più in sintonia con la movida notturna di Rio de Janeiro che il dehor di un bar del centro Italia sembrano offrirci l’occasione di commentare piazza e monumenti. Apprezziamo il ritmo sudamericano della musica che risuona su tutta la strada e anche il succo di frutta che ci servono con ghiaccio in abbondanza. Meno apprezzabile il bagno che sembra il set di un film di Freddy Kruger e gli avvisi acustici dello sportello Bancomat alle nostre spalle. Che abbia riconosciuto Marco e la sua intenzione di fare un miniprelievo? Non è dato sapere anche perché lo stesso Marco, intimorito, non si avvicina nemmeno. E per evitare guai maggiori, invita la motobrigata ad alzare le chiappe dalle discosedie e appoggiarle sulle selle delle moto.
- continua