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La dogana non si presenta per niente accogliente, è difficile capire a chi dobbiamo rivolgerci e dove metterci in coda, agli sportelli nessuna scritta in inglese, la sporcizia e gli odori pesanti sono comuni quanto gli innumerevoli sguardi esaminatori che ci circondano. Timidamente indosso il mio copricapo, cercando invano di confondermi tra i numerosi volti femminili che si aggirano spaventati nei corridoi dell’edificio. Infinite file di passanti si spingono disordinate verso l’uscita, nei loro occhi si legge tutta la speranza di riuscire a portare con sè quei pochi effetti personali avvolti nei sacchi di plastica che si trascinano gelosamente dietro, e che gli ufficiali esaminano con estremo disprezzo. Improvvisamente, ci comunicano che il nostro carnet de passage non risulta valido a causa la data di scadenza scritta a penna, e che di conseguenza non ci è permesso di entrare nel Paese. Fortunatamente riusciamo a risolvere l’equivoco, ma solo dopo sei interminabili ore d’attesa trascorse col fiato sospeso, col destino in bilico tra l’est e la strada di ritorno verso casa.
Siamo finalmente dentro! Ci vuole poco a rendersi conto del mondo quasi utopico in cui siamo appena approdati, dove i contadini guidano i trattori in giacche eleganti e l’ospitalità regna sovrana. Niente sembra avere a che fare con lo squallore riscontrato poco prima in dogana, ma, al contrario, il Paese adesso si rivela sorprendentemente ciò che chiunque da sempre descrive come la patria della gentilezza e della cordialità, dalla quale molti Paesi dovrebbero prendere esempio.
Lungo la strada i veicoli si affiancano accaniti, estremamente desiderosi di fotografarci, di filmarci come celebri pop star, mentre il suono assordante dei clacson continua imperterrito, deciso a catturare la nostra attenzione: dai finestrini delle auto chiunque è pronto a tendere le mani per regalare caramelle, frutta o anche un semplice saluto.
Il traffico senza regole ci porta con fatica nel cuore delle animate città iraniane: Tabriz, Qazvin, Esfahan, Shiraz, Kerman, qui l’azzurro pulito del cielo si confonde sempre con quello brillante delle cupole delle moschee, ornate di fiori e di tappeti, mentre l’intenso odore di spezie invade i vicoli affollati dei bazaar.
Alla frenesia cittadina affianchiamo piacevolmente qualche tappa nel deserto, immersi nel silenzio incontaminato della natura, invasi dalla sabbia e dal calore. Garmeh è una piccola oasi paradisiaca fatta di palme da dattero, e tetti di fango, i Kalout, prossimi al villaggio di Shafig Abad, ci regalano un tramonto senza eguali. Ma ciò che riesce a sorprenderci totalmente è l’originalità di Yazd, un paese fatto di fango e badgir.
Rendersi conto di quanto l’intero popolo iraniano sia totalmente condizionato dal libro sacro a cui esso è fedelmente devoto, non è difficile. La religione è la vera protagonista della vita di ogni individuo, il quale modella la propria quotidianità in funzione del sacro momento della preghiera: appena i minareti cominciano a cantare, le strade si svuotano e le moschee si riempiono di orgoglio e determinazione. Chi non riesce a raggiungere per tempo il luogo di culto, invece, non esita a stendere un tappeto lungo la strada o ad usufruire delle piccole stanze adibite perfino nelle aree di sosta, rigorosamente divise per sesso, come i servizi igienici.
Ciò che ci risulta praticamente impossibile è il rimanere indifferenti davanti alla sofferente questione femminile. Non sappiamo con esattezza quali profondi segreti si nascondano sotto i veli che diligentemente ogni donna indossa, ma quel che è certo è che la conoscenza e la libertà di cui l’intero sesso viene privato, non fa altro che annullare totalmente ciò che già ingiustamente viene definito “il sesso debole”. Le regole di comportamento che l’intero genere femminile è costretto ad osservare è in realtà un’imposizione acquisita dalla nascita, non una vera e propria scelta. Ma del resto, chi sceglierebbe mai la sottomissione e l’inferiorità alla scoperta e alla libertà di opinione? Del resto l’usanza di coprire il capo e il collo ogni giorno è solo un piccolo simbolo della dittatura culturale che in realtà coinvolge entrambi i sessi: se solo fosse permessa (o magari sacra) la curiosità di guardare anche al dì là dei propri confini, magari si eviterebbe di considerare strano ciò che in realtà è solo diverso.
Percorrendo la strada afosa che prima ci porta a Bam e successivamente a Zahedan, voliamo verso la dogana di uscita e con un gran sospiro di sollievo libero i capelli al vento.
L’Iran è un Paese dalla scenografia meravigliosa, ma non dimentichiamoci di guardare per un attimo dietro le quinte.
Motorbye