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Lascio Alexandroupolis dopo una bella serata in compagnia di Marco, che era lì per lavoro e ho incontrato per casa. Mi porta a cena nel suo ristorante di fiducia e ci abbuffiamo di ottimo pesce annaffiato con “raki”, una specie di grappa. L'indomani, foto di ordinanza sotto il faro e partenza verso il confine turco, sotto un pallido sole che presto mi saluta. Sorpasso una lunga coda di camion e entro in Turchia. Spariscono ovviamente all'improvviso tutti gli altarini ortodossi che mi hanno accompagnato lungo le strade greche. Sventolano grandi bandiere rosse con la mezzaluna e la stella, anche se il paesaggio non cambia quasi per niente. Solo lentamente, mentre la strada abbandona la costa e inizia lunghi e docili saliscendi – e forse è solo una mia suggestione – la terra sembra assumere un colore e una grana che la fanno sembrare sabbia...
La strada è buona, larga, con l'asfalto praticamente perfetto. Il problema è che c'è solo quella! Tutta questa zona è poco abitata, ci sono solo pascoli e campi e i rari centri abitati sono tutti collegati direttamente con la D110 che porta direttamente a Istanbul. Il fatto che il traffico aumenti mano a mano che mi spingo verso oriente è quindi normale. Il problema è che aumenta anche il vento. Dopo Tekridag si fa veramente fortissimo, da nord, e a folate mi spinge verso il bordo della strada. Sono tentato di smontare il parabrezza, per aiutare Peyton a stare dritto. Dopo un po' di chilometri così, e dopo qualche centinaio di camion che mi sorpassano, decido che ne ho abbastanza e mi fermo, a novanta chilometri da Istanbul. Tanto, anche in caso di bella giornata, avevo programmato di fermarmi prima e entrarci la mattina di buon'ora.
Mai più. Me lo dico appena parcheggio Peyton sotto la torre di Galata, nel centro di Istanbul. Entrare in città in Vespa è stata una follia. Prendete il GRA, nelle ore di punta. Aggiungeteci subito dopo il centro storico di Genova, un giorno di pioggia. Ecco: Istanbul è peggio. Potrebbe essere anche la mia percezione da abitante di un paese di 5000 anime, ma tant'è che non sono in pratica nemmeno ancora arrivato, che già mi preoccupo del momento in cui ripartirò! Non riuscirò nemmeno a godermi questi tre giorni di pausa, mi dico. Poi invece appena mi sistemo, incontro Sara in ostello, che mi dice sorridendo: ma figurati, se ci sei entrato, ne vieni anche fuori! Hai fatto più di tremila chilometri per arrivare fino a qui, non sarà certo il traffico a fermarti... Lei l'indomani riparte, ma le sue parole fanno effetto e nei giorni successivi mi godo la città, perdendomi tra le bancarelle del Gran Bazar e passeggiando avanti e indietro dalla torre a Piazza Taksim. Nel frattempo, ho studiato la strada. Devo solo passare il ponte e tenermi sempre attaccato al mare, fino a quando non sarò fuori. Dedico un intero pomeriggio anche a Peyton, custodito in un garage dal simpatico Tarik. Gli do una pulita, controllo i filtri e cambio la prima gloriosa candela, che ho chimato “Camilla”, dopo 3200 chilometri senza nemmeno un colpo di tosse. Gli regalo anche un adesivo nuovo, con il logo di Facebook e la scritta “Eurovespa”, così tutti quelli che mi guardano incuriositi dai lati della strada mentre passo potranno andare, volendo, a vedere chi sono e da dove arrivano questo strano destriero rosso e il suo buffo cavaliere.
L'uscita dalla città in effetti non sarà così terribile come temevo. Alle nove del mattino sono fuori e mi fermo per fare colazione e mi dico che Sara ci aveva visto giusto. Mentalmente, la ringrazio. Un viaggio è fatto molto spesso anche di questo: la persona giusta, con la parola giusta, al momento giusto. Faccio colazione, ma non molto abbondante, quasi più per abitudine che per fame; perchè, tra le altre cose, la sera prima ho salutato Istanbul cenando con un vecchio amico che era lì per lavoro ed un suo collega. Non ci sarebbe stato modo migliore. L'ultimo sguardo alla città, dall'alto di una terrazza che domina il Corno d'Oro e il Mar di Marmara è un immagine indimenticabile. Peccato che invece il tragitto fino a Edirne sia uno dei più insignificanti di questo viaggio, almeno finora. Appena uscito dalla zona urbana e arrivato nei pressi di Corlu, mi immergo in una brutta e grigia zona industriale, quasi ininterrotta, fino alla città vicina al confine dove, esausto e un po' infreddolito, mi fermo per la notte. Anche la schiena e le gambe hanno patito la giornata, forse perchè dopo tre giorni avevano perso l'abitudine allo stare in sella. Mi dico che probabilmente c'è una sorta di equilibro in questo viaggio: quando una giornata va troppo bene, quella dopo mi presenta – anche se in misura ridotta – il conto. Questa volta, come dopo Alexandroupolis.
A Istanbul è finita la prima parte del viaggio, quella che, parlando fra me e me nelle lunghe ore di guida, ho chiamato “Verso Oriente”. Da adesso in poi comincia la seconda; quella che, sempre nei miei lunghi soliloqui, ho chiamato “Il Grande Freddo”. Così faccio qualche bilancio; mi dico che se riuscissi a mantenere questo ritmo – che mi ha anche permesso di fare qualche tappa e di godermi le giuste pause – potrei finire il viaggio con altri tre mesi e mezzo. E comincio a immaginare quando arriverò a Bruxelles, quando a Parigi, quando a Londra, quando a Lisbona, quando a Barcellona... Mi dico anche che i prossimi chilometri saranno i più complicati, perchè il tempo peggiora, si avvicina l'inverno vero e io sto andando verso nord. E ho ancora qualche chilometro di montagna, prima di ritrovarmi sì in mezzo al gelo dell'Europa continentale, ma almeno in pianura, fino a Tallin. Mi dico che finora è andato tutto alla grande e che posso solo sperare che continui così; poi scaccio le immagini “trionfali” che cominciano a visitarmi e mi concentro sui prossimi chilometri, quelli che mi porteranno in Bulgaria.
Svilengrad, benvenuti negli anni '80. Questa volta il paesaggio cambia in modo brusco. La strada statale si fa subito più accidentata e le cittadine che attraverso sembrano ancora ferme al mondo sovietico di qualche decennio fa. Fabbriche ferme da chissà quanto. Caseggiati e agglomerati urbani indistintamente grigi. Prendo in giro Peyton, chiedendogli se per caso non si senta più giovane in un ambiente del genere...risponde tossendo e allora per evitare che si offenda gli ricordo che io sono comunque più vecchio – e meno in forma – di lui! Lo so: parlare con un mezzo meccanico potrebbe essere considerato uno dei primi segni di squilibrio mentale. Però, tanto per cominciare, lui è Peyton, non uno scooter qualunque! E poi...lo faccio da quando sono partito, quindi non c'è da preoccuparsi...
Per fortuna tra un centro urbano e l'altro compaiono campi verdissimi, spunta il sole e la giornata comincia a sorridermi davvero. Anche la strada migliora molto e arrivo a Plovdiv intorno alle due di pomeriggio. Mi hanno parlato bene della città, è un bel sabato pomeriggio e decido di fermarmi. Chiedo a qualche passante e mi segnalano un ostello dentro le mura della città vecchia, sulla collina che si trova proprio al centro della città. Mi ci infilo e capisco subito di aver valutato male! Entro di slancio su un selciato sconnesso, Peyton sobbalza come un cavallo imbizzarrito, perdo aderenza e rischio di cadere mentre i bagagli pendono pericolosamente ai lati...mi fermo in piedi per puro caso, tirando un sospiro di sollievo sotto gli occhi stupiti dei passanti. Tre ragazzi mi aiutano a spingere Peyton lungo la ripida salita, e a parcheggiarmi davanti all'ostello e poi, mentre li ringrazio, mi dicono: “E adesso sbrigati! Che oggi qui a Plovdiv c'è la festa del vino!”. Scarico i bagagli e mi lancio, assaggio dopo assaggio, tra le vie del centro storico, tra case colorate, musei, rovine romane perfettamente conservate. Plovdiv, l'antica Filippopoli, capitale della Tracia antica e poi Romana, crocevia di tutte le strade che dall'ovest e dal nord dei Balcani si dirigevano verso Costantinopoli...mi perdo pensando alle storiche regioni che ho attraversato, ai millenni di storia che sono passati sotto le ruote di Peyton...e mi sveglio solo quando, mentre mi dirigo a spendere l'ultimo tagliando degli assaggi di vino, mi sento chiamare per nome! “Ma tu...sei Simone!”. Così, per caso, incontro una mia compaesana (Celle Ligure, qualche migliaio di abitanti, mica una grande città...), nonché figlia di amici di famiglia, che non vedevo da tanti anni e che ricordavo ancora poco più che bambina e che è a Plovdiv a fare l'Erasmus. Mi invitano a uscire la sera ed io non posso certo rifiutare, devo seguire lo spirito del viaggio! Per fortuna verso le due di notte rinsavisco, mi ricordo che l'indomani ho in programma di raggiungere Sofia e rincaso, passeggiando leggero un'ultima volta sulle pietre del centro, nel silenzio sereno della notte bulgara, guardando la nuvoletta di fumo del mio respiro.
L'indomani, ovviamente, pago dazio. E la strada per Sofia mi sembra non finire mai. Quando finalmente arrivo, ormai rilassato nonostante il traffico grazie all'esperienza di Istanbul, scrivo un messaggio ai ragazzi del Vespa Club Bulgaria, che mi vengono a trovare in ostello, mi fanno da guida per il centro città e mi onorano regalandomi adesivi e una maglietta...che decisamente mi serviva, visto che a Istanbul ho dimenticato di fare il bucato! Comincio a scoprire quanto sia grande e ospitale la famiglia dei Vespisti. Passo ore a studiare la mappa. Sono preoccupato. Le previsioni del tempo non sono buone, il rientro in ostello è stato accompagnato dal nevischio e l'aria odora di nevicata. Dovrei andare verso Vidin, per poi varcare il confine con la Romania. Scarto subito una strada di montagna e opto per un giro più la largo, ma più sicuro. Poi, proprio mentre sto andando a dormire, un altro ragazzo del Vespa Club mi scrive da Varna e mi mette in guardia. “Vai verso la Serbia, che troverai sicuramente strade più pulite. La zona verso il confine rumeno è a rischio neve e ghiaccio. E poi puoi passare da Nis e fermarti al Vespa Bar!”. Decido di fidarmi. Questo viaggio – e anche gli anni che passano! – mi sta insegnando molto da questo punto di vista. Prepararmi bene, studiare le cose da fare, non sottovalutare nessun fattore, dare sempre e comunque un orecchio all'istinto e alle sensazioni e, soprattutto, cercare di raccogliere i suggerimenti di chi ne sa più di me su queste strade.
Entro in Serbia – paese numero undici da quando ho lasciato l'Italia – sferzato da un vento gelido che mi fa fermare per una zuppa al primo ristorante lungo la strada. Mi parcheggio attaccato alla stufa e mi godo il pranzo. Devo dire che però finora è andata più che bene: la giacca si è dimostrata finora a prova di tutto, sotto il diluvio, contro il vento. Non ho nemmeno ancora avuto bisogno di indossare il passamontagna. La termocoperta ha fatto il suo dovere. E ho ancora parecchie armi per combattere il freddo. Le sto “razionando” per aiutarmi a capire dove posso arrivare. Solo le mani, nonostante i coprimanopole comprati a Istanbul, mi danno qualche brivido. Dovrò procurarmi al più presto dei guanti migliori.
Il consiglio di Svetovar si rivela azzeccato, comunque. La strada è pulita e in certi punti anche molto spettacolare, mentre fa slalom tra pareti di roccia quasi verticali, poco prima di arrivare in città. E quando arrivo a Nis, l'accoglienza di Nikolas e di suo papà Dejan è incredibile. Il Vespa Bar è un piccolo capolavoro, uno di quei bar in cui passeresti la maggior parte delle tue ore libere, quasi come se fosse il tuo salotto. Mi ospitano anche a casa per la notte. La mamma di Nikolas è un'ottima cuoca e la casa sembra quasi un museo della Vespa; una “Faro Basso” perfettamente restaurata fa bella mostra di sé in una camera adiacente al salotto. L'hanno restaurata tutta loro, pezzo per pezzo, e hanno fatto un lavoro grandioso. Ce ne sono almeno altre quattro, oltre alle tre che usano Nikolas, suo fratello e suo papà, che aspettano di essere coccolate nello stesso modo. Trascorriamo la serata in compagnia del “Professore”, il membro onorevole del Vespa Club Naissus, nonché pittore e autore dei dipinti, ovviamente a tema, che fanno mostra di sé alle pareti del Vespa Bar. Mentre poi, prima di andare a dormire, sorseggio l'ennesimo tè, sprofondato nel divano in salotto, in compagnia di Nikolas e del cane Simba, mi sento a casa. E sentirsi a casa, quando stai affrontando un lungo viaggio e sai che ancora te ne manca molto, è una sensazione che non ha prezzo.
Stasera scrivo invece dalla piccola camera di un Hotel a Paracin, nel bel mezzo dei Balcani serbi, dopo quella che non ci metto molto a definire come giornata peggiore del viaggio, fino ad ora. La miseria di 84 chilometri percorsi, tra vento, pioggia e freddo e la prima foratura del viaggio. Che poi: sono anche stato fortunato; perchè il benzinaio da cui mi sono fermato per adagiare Peyton sul fianco e cambiare la gomma, prima mi ha offerto il caffè e poi, quando ha visto che mi ero deciso a cambiare la camera d'aria, ha chiesto a un amico poliziotto che passava di lì di accompagnarmi – ovviamente sulla macchina di ordinanza, che tanto comincio ad avere la faccia di uno che è appena stato arrestato! – dal gommista, il quale, sorridendo mentre mi riconsegnava la ruota guarita, mi ha detto “gratis”. E così, mentre scrivo e mi dico che dopo un mese un piccolo intoppa poteva anche capitare, mi rendo conto, guardando qualche scheggia di ghiaccio scintillare sui tetti qui attorno, che anche stavolta non mi è andata poi così male. D'altra parte, dico sempre che, in un viaggio, se tutto è andato bene, allora tutto è andato storto. Che viaggio sarebbe senza imprevisti? Se non fosse stato per le previsioni del tempo nefaste, per esempio, avrei perso la giornata a Nis, e con essa amici e ricordi. Quindi, chissà, anche questo intoppo avrà il suo piccolo peso positivo nell'economia del viaggio. Chilometro dopo chilometro, lo capirò. Intanto studio la strada per domani, direzione Belgrado. Lì, se tutto andrà bene, dopo tanti chilometri e tante immagini splendide, saluterò definitivamente i Balcani e incontrerò un nuovo amico, il Danubio.