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Quando varco il confine con il Pakistan avverto dentro di me un notevole nervosismo e, anche se non lo lascio trapelare al di fuori, questa sensazione mi accompagna per tutto il processo doganale, fra una stretta di mano ai gendarmi iraniani e la compilazione dei moduli di immigrazione al bancone della dogana di Taftan, appena entrato nel mio 66°paese: il Pakistan.
Le prime impressioni però non mi suggeriscono uno stato d’allerta straordinario, né tanto meno un pericolo imminente e la mia preoccupazione passa a qualcos’altro: ho finito i contanti e devo prelevare. Per tutta una serie di motivi, ritardi, orari di ufficio troppo brevi, ho fatto tardi sulla data di scadenza del visto iraniano e ho dovuto pagare una penale di 30 dollari, che non avevo. In Iran prelevare è impossibile e così avevo con me la quantità sufficiente di contante per i 15 giorni di visto. I due giorni extra (comprensivi di notte in hotel, pasti e multa) li ho dovuti negoziare fino all’ultimo, ritrovandomi a cedere malvolentieri la banconota da 20 dollari che avevo conservato per le emergenze in Pakistan e cedendo qualche biglietto da 100 pesos argentinos che conservo dopo ogni tour che guido in Patagonia.
Così entro in Pakistan con in tasca lo zero più assoluto, ho fame e mi si dice che il primo ATM internazionale è a Quetta, a 660 km da dove mi trovo. Ho appena fatto il pieno, ma al massimo posso coprire 430 km. Così mi reco alla banca di Taftan, ovviamente scortato da un poliziotto vestito di nero con un kalashnikov a tracolla e cerco di prelevare qualche contante in qualche modo. L’ATM è rotto, l’ufficio non ha corrente elettrica e il sistema di invio denaro non è disponibile a Pistoia, quindi sono fregato. Alla fine, vista la mia situazione, il banchiere mi invita a sedermi, mi offre il te con i biscotti e mi porge 50 dollari in contanti, di tasca sua, sulla fiducia.
– Me li restituirai quando sarà più opportuno.
Incredulo accetto, senza altra scelta e mi appunto tutti suoi dati bancari.
Rientro alla stazione di polizia dove ho parcheggiato la moto e con il pranzo nello stomaco, 8 bottiglie d’acqua e la mentre sgombra da ogni preoccupazione comincio a vedere bene dove mi trovo e ad assimilare ciò che ho intorno
La stazione di polizia di Taftan è il primo punto di partenza per chi entra in moto dall’Iran. Ogni scorta parte alle 7 di mattina e visto che sono entrato dopo quel momento, dovrò passare qui la notte. Nella stanza che mi affidano ci sono adesivi di altri motoviaggiatori internazionali e fuori dalle mura il cortile funge da spazio comune per i poliziotti e i detenuti che hanno libertà di passeggiare per qualche minuto. Durante la mia permanenza mi viene offerta la cena e la possibilità di assistere all’imprigionamento di un arrestato per uso e detenzione di hashish (forzato a parlare con tortuta ai danni dei suoi testicoli).
La mattina partiamo, ma la mia scorta è una berlina con dentro due persone. La strada è in buone condizioni e sfrecciamo per 80 chilometri fino al punto in cui vengo fatto sedere accanto alla moto, compilare un quaderno con i miei dati e attendere un altro veicolo. Questo procedimento sarà il medesimo che mi accompagna ogni giorno per tutta la durata della scorta armata, che copre il territorio della regione del Balochistan, regione al confine con l’Afganistan e nota per i numerosi atti terroristici da parte dei talebani e gli indipendentisti. A volte una pattuglia copre con me 80 km, altri solo 8. La velocità del mezzo o la durata della pausa durante la quale vengo affidato a quello successivo variamo, facendo diventare la mia traversata lenta e faticosa (le temperature sono ancora sopra i 40°C. La sera vengo portato nel primo hotel della città in cui arriviamo e sono invitato a pagare la mia quota per la notte e la cena ai poliziotti di turno che vegliano su di me. Dove non c’è l’aria condizionata, si dorme sul tetto dell’albergo, come ho dovuto fare a Dalbandin.
La media giornaliera di chilometri che riesco a percorrere con la scorta è di 300 chilometri, partendo alle 8 e arrivando alle 17. Le soste per registrare i miei dati sui quaderni sono tantissime e ogni volta mi viene offerto te bollente e una sedia davanti al ventilatore. Al terzo giorno sono così accaldato che perdo sangue dal naso, ma la cortesia e disponibilità dei pakistani è talmente tanta che vanno subito a cercare del ghiaccio, che rifiuto per accelerare la ripartenza. Tamponi di carta assorbente nelle narici e via, senza tante lamentele!
In ogni quaderno e a ogni posto di controllo noto la presenza di un certo Giovanni che mi precede di un giorno. Riesco a farmi dire su che moto viaggia e mostrare delle foto che i soldati hanno scattato assieme a lui. Se non avessi fatto tardi adesso viaggeremmo assieme, peccato. A Quetta i controlli, le pattuglie e i militari si intensificano di 100 volte, il mezzo che mi scorta in albergo è blindato e quando chiedo di andare a prelevare all’ATM vengo accompagnato da due militari armati, notando come la città sia in preda al disordine, la sporcizia e le forze armate. Non avverto alcuna paura grazie alla protezione di chi mi accompagna, ma sono certo di trovarmi nel punto più pericoloso della regione e le notizie dei giorni successivi ne saranno la conferma: sparatorie, esplosioni di bombe, attentati.
Nel parcheggio dell’hotel scorgo la F800Gs dell’altro italiano, ci conosciamo e sembra che dall’indomani continueremo assieme. La polizia ci porterà nella stazione di polizia per richiedere il nulla aosta dopodiché saremo scortati per un numero non chiaro di giorni fino a Jacobabad e poi Multan, dove sembra che la scorta ci lascerà finalmente liberi.
Lui si chiama Giovanni ed è in viaggio per un numero indefinito di mesi, parte del suo itinerario è identico al mio e decidiamo di affiancarci almeno fino a Islamabad, città dalla quale proseguiremo verso le vette della Karakoram Highway e poi India. E così due giorni dopo, con il nulla aosta in mano e le moto che scalpitano, ripartiamo. La tratta che ci porta lontani da Quetta è montuosa per qualche km, la temperatura oscilla ancora fra i 35 e i 40°C e l’umidità aumenta. A tarda serata arriviamo a Jacobabad e l’unico hotel di zona ci informa di avere solo una stanza singola per cui decidiamo di arrangiarci condividendola e chiedendo al gestore una branda o un divano su cui dormire. Durante la cena riusciamo anche a farci servire una birra, prelibatezza vietatissima in uno stato musulmano come questo.
L’indomani aleggia nell’aria quella piacevole brezza di speranza chiamata “speriamo la scorta ci lasci liberi di viaggiare”, ma contrariamente alle nostre speranze, la scorta è sempre lì. Notiamo però che la credibilità dei mezzi si sta piano piano affievolendo, segno che non ci troviamo più nella zona pericolosa e mentre seguiamo l’ennesimo motorino guidato da un militare armato (che, notate bene, prosegue a 50 km/h) decidiamo di tentare il sorpasso a velocità moderata e vedere cosa succede. Proprio in quel momento però c’è l’ennesimo cambio scorta, ma decidiamo che sarà l’ultimo. Superiamo subito il pick-up scappottato e rimaniamo davanti per un po’, in vista. Il veicolo non sembra voler riconquistare la sua posizione frontale e così spalanchiamo il gas. Passano 5, 10, 15 minuti e come per magia siamo soli. Ci fermiamo per decidere che strada seguire verso Multan e poi ripartiamo, Giovanni in testa con il suo gps e io dietro.
Ma a un certo punto il cielo preannuncia tutta la pioggia che non ho preso in 30 giorni filati di viaggio, esattamente quando in Tajikistan mi è franata la strada davanti alle ruote della moto. Da quel giorno son stati giorni asciutti e climi infernali. Un po’ di pioggia adesso è come una benedizione. Purtroppo però ci troviamo davanti a una tempesta di sabbia che annuncia la pioggia monsonica e in men che non si dica ci separiamo senza accorgercene. Sono fermo sul lato della strada impegnato a indossare il mio impermeabile quando il cielo si apre e viene già il finimondo. 20 chilometri dopo il cielo si schiarisce e il caldo umido asciuga velocemente il mio impermeabile, che tolgo durante la sosta benzina. Ho perso un po’ di tempo con la scorta del mattino e con la separazione di Giovanni e adesso che sono di nuovo solo decido di raggiungere Multan entro notte e aspettarlo lì, casomai arrivassimo nello stesso momento.
Ad aspettarmi in città c’è Iqbal, un motociclista appassionato di viaggi e di viaggiatori che dal 2010 ha ospitato a casa sia 455 visitatori, fornendo un posto per il pernotto, un parcheggio per il mezzo di trasporto, consigli sulla strada da percorrere e una colazione. Ci troviamo al ristorante dove ho cenato e mi accoglie in pompa magna con una corona di fiori e del mango freschissimo che prepara sul terrazzo di casa sua, dopo che ho fatto la doccia.
Il resto del Pakistan sarà pieno di tornanti, vette altissime e soprattutto privo di scorta. Sono libero da poche ore, ma non mi ci sono abituato per cui ringrazio Iqbal per l’ospitalità, i consigli, la mappa che mi ha regalato e lo saluto diretto verso Islamabad, punto di inizio della famosa strada che mi porterà lungo la vecchia Via della Seta e il confine con la Cina a 4.733 mslm.