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Questa è una storia di ponti e alcuni hanno fatto la storia. In Bosnia, per esempio ce ne sono tre: belli, imponenti, crocevia imprescindibili per capire le vicende di questa terra. A Sarajevo, ne hanno costruiti 22 per collegare le due metà della città separate dalla Miljacka, ma quello Latino, o ponte di Princip (come veniva chiamato ai tempi di Tito) è speciale, non solo per essere il più imponente e visibile di tutta la città. In effetti con quattro arcate e tre pilastri di pietra e gesso è anche il più antico di Sarajevo dato che della sua esistenza si trovano tracce fin dal 1541.
Era originariamente in legno, solo successivamente venne rifatto in pietra. Venne pure distrutto da un’alluvione e ricostruito solo diversi anni dopo. Dettagli da enciclopedia: questo ponte è stato teatro di un attentato, a sua volta pretesto per scatenare una guerra, la prima a essere definita mondiale. E tutto questo avvenne in modo piuttosto casuale: è infatti vero che il 28 giugno 1914 il giovane serbo bosniaco Gavrilo Princip in un impeto di nazionalismo colpì a morte l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austroungarico, e sua moglie Sofia proprio mentre attraversavano il ponte tra due ali di folla, ma pare che solo pochi minuti prima arciduca e consorte scamparono a un primo attentato dinamitardo compiuto da alcuni complici di Princip mentre risalivano la via che corre lungo la Miljacka: gli attentatori mancarono il bersaglio e ferirono due ufficiali a bordo della macchina al seguito dell’arciduca che proseguì la sua visita fino all’incontro con il destino e con Gavrilo Princip sul ponte ottomano. Poi è storia. E guerra.
Su quello di Mostar sono state versati ettolitri di lacrime amare, ma anche ipocrite, che non sono stati comunque sufficienti a salvarlo dalla follia di una guerra fratricida di cui ancora oggi in Bosnia, ma anche in Serbia, si riconoscono le cicatrici.
Il Ponte Vecchio di Mostar costruito a metà del Cinquecento con 456 blocchi di pietra bianca dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar era un simbolo, più che un collegamento e un obiettivo militare. E in quanto ponte tra culture è stato distrutto con la pervicacia di un’azione devastante di bombardamenti quotidiani. Alla fine la struttura medievale ha ceduto e anche la città contesa tra croati cattolici e bosniaci musulmani. Ora pace è stata fatta, Mostar è in Bosnia e il ponte, grazie ai norvegesi, è stato ricostruito con quel che rimaneva dell’antica struttura, rispettando i canoni dell’antica bellezza. Le acque della Neretva scorrono sotto l’arcata fredde come vodka e ai suoi lati ristoranti e negozietti raccontano di una città che attorno a quel simbolo sta cercando e ritrovando una normalità che nessun trattato di pace potrà mai garantire. E che suona un po’ artificiale se non falsa come le bancarelle di souvenir che assediano il ponte: un bazar troppo consumista per rispettare i ritmi di una religione che non sembra troppo condivisa in città.
E poi c’è il ponte sulla Drina a Visegrad, raccontato da Ivo Andric, a sua volta crocevia letterario per comprendere l’anima di questa regione, quella che ancora oggi viene definita con un neologismo balcanizzazione e le tensioni che innervano questa terra di confine fino a scatenare i terremoti di guerre tanto etniche quanto crudeli.
Sotto il ponte di Visegrad scorre un fiume, la Drina, che si è colorata di rosso. Di sangue musulmano sacrificato a Visegrad e di vergogna serba. Che in territorio ancora etnicamente a macchia di leopardo si dipinge sui volti di chi arriva a Sarajevo dopo essere stato testimone dei massacri di Visegrad. Pare che da quelle parti, terre di confine tra Serbia e Bosnia, la violenza cetnica abbia raggiunto vette (meglio abissi) paragonabili a Srebrenica, dove oltre 8 mila uomini, in età compresa tra i 12 e 70 anni, sono stati giustiziati in nome di un dio ortodosso perché testimoni di un’etnia musulmana con una ferocia e sistematicità che andava oltre ogni ragione. Anche quella, aberrante, della guerra. Ora gli odi sembrano sopiti, il colore della Drina è quello non troppo affascinante dei fiumi che corrono in città, a Visegrad come a Sarajevo e a Mostar, dove le preghiere del muezzin che avvolgono il ponte sulla Neretva parlano di speranza e di un futuro ancora troppo incerto.
Sarà che per anni ho lavorato in un’agenzia di viaggi, sarà perché detesto i luoghi comuni e le definizioni facili, sarà quel che volete voi ma l’espressione perla del Mediterraneo mi fa venire l’orticaria. Soprattutto quando viene usato per definire una città come Dubrovnik. Che ha tanti pregi ma non quello di brillare come una Porto Rotondo qualsiasi. Dubrovnik è la storia della costa dalmata. Dei passaggi veneziani, ungheresi, ottomani, austriaci. Passaggi che comunque, dopo la cacciata dei veneziani nel 1358, non scalfirono mai la sua indipendenza. Di mura fortificate e posizioni strategiche per il dominio di un mare.
Dubrovnik merita rispetto, non dileggio da attrazione turistica per crocieristi a caccia di emozioni formato cartolina. Anzi, se vogliamo stare ai tempi, formato selfie. E anche per questo noi ci avviciniamo alla città con il rispetto che meritano le storie di queste mura imponenti su cui l’impronta della Serenissima è evidente nonostante due terremoti e una guerra l’abbiano distrutta. Fin qui la storia di Dubrovnik che ora può fregiarsi della coccarda di città protetta come patrimonio dell’Unesco ed è diventata lo scalo con escursione imprescindibile di ogni crociera che navighi nel Mediterraneo orientale. Ometterla sarebbe sacrilegio. Dubrovnik offre un patrimonio architettonico notevole tutto affacciato sullo Stradun che, con il calare del sole, diventa the place-to-be per chiunque transiti da queste parti, con una movida che fino a tarda notte scandisce il ritmo della città vecchia e unisce turisti, comitive di crocieristi, viaggiatori occasionali, globetrotter e popolazione residente in un melting pot che coinvolge tutto il centro storico rigorosamente protetto dal traffico delle auto.
Complice la stagione (estiva) e il caldo terrificante che sta soffocando mezzo Mediterraneo, Dubrovnik la sera offre il meglio di sé. Ma se le temperature torride e le inevitabili code alla biglietteria davanti alla grande fontana di Onofrio non vi scoraggiano, non rinunciate al giro diurno sulle mura. Armatevi di scarpe comode, cappellino per proteggervi dal sole, regolamentare bottiglietta di acqua (per evitare di farvi spennare dai rivenditori strategicamente piazzati lungo il camminamento sulle mura) e di una buona dose di pazienza: lo spettacolo della cittadella e del porto dall’alto e il colpo d’occhio sull’isola di Lacroma al largo valgono il prezzo del biglietto. E anche la fatica
Quando meno te lo aspetti, quando tutto sta filando via liscio come l’olio e nulla, ma proprio nulla, sembra poter spezzare l’armonia di un viaggio, arriva la magagna! Sotto forma di moto che non riparte. Tutto questo non succede in un posto qualsiasi. La dea bendata lo farebbe accadere davanti all’officina di un meccanico di motociclette, l’umana speranza immagina che possa arrivare nelle vicinanze di un centro abitato, la dannazione impone che intralci un passaggio di frontiera, incolonnati tra auto di turisti accaldati, con il dubbio se rimanere in Croazia oppure gettare il cuore oltre l’ostacolo, le ruote della moto oltre il confine e sperare che la prima stazione di servizio montenegrina possa assistere adeguatamente il mezzo meccanico acciaccato.
Tutto questo va deciso in pochi attimi, mentre i tuoi compagni di viaggio pongono domande alle quali tu non sai rispondere. Dall’entità del guasto al proseguimento delle loro (e tue vacanze). Non c’è manuale che tenga, nemmeno Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta è di conforto. Qualche ferro e pezzo di ricambio l’ho messo in borsa, ma qui tra gli sguardi inquisitori dei miei compagni di viaggio e quelli, basiti, dei poliziotti montenegrini che non si capacitano di come un povero diavolo sotto un sole a 40 gradi si metta a smontare mezza moto per cercare un guasto che nemmeno lui sa dove si trovi, non mi resta che la resa. Perché la moto non parta è un mistero che nemmeno due biker veneti di sicura esperienza meccanica sono in grado di svelare. Non avendo il supporto della fede, né riconoscendone i poteri ultraterreni, mi affido ai principi dell’illuminismo volteriano. Pochi chilometri dopo il confine c’è un’area di servizio, facilmente raggiungibile perché la strada scende e spingere il mezzo è meno faticoso.
La mia moto ha una meccanica e un impianto elettrico di una semplicità imbarazzante (per la verità è conosciuta anche per un’affidabilità proverbiale, ma evidentemente sono l’eccezione che conferma la regola), vuoi che in Montenegro non ci sia uno straccio di meccanico in grado di scoprire e aggiustare la magagna. Ah, saperlo… Sono piuttosto sicuro che riguarda l’impianto elettrico (potrebbe essere anche un banale fusibile saltato) e basterebbe un semplice elettrauto disponibile. Ah, trovarlo…
«Katastropha! Katastropha!» si dispererebbe il mio amico lettone. Ma noi siamo compaesani di Tonino Guerra e dell’ottimismo facciamo il sale della vita: non ci perdiamo d’animo. E abbiamo ragione perché, così come le cose a un certo punto si ingarbugliano e si infilano in quel tunnel di guai dal quale sembra impossibile uscire, allo stesso modo in fondo a quello stesso tunnel, come per incanto, intravvediamo la luce. Dalla possibile katastropha si inizia a immaginare una via d’uscita. Nel nostro caso la luce è quella di un sorriso: quello del barista dell’autogrill che ha contattato l’elettrauto del vicino paese. «Ten minutes», mi conferma in un inglese improbabile ma comprensibile. Musica per le mie orecchie.
I dieci minuti diventano venti, ma quando Damir scende dall’auto accompagnato dal figlioletto novenne facente funzioni di aiuto meccanico, sento che siamo già sulla buona strada. Ci vorranno due ore e una pazienza da certosino per riparare il guasto: un accrocchio Montenegro style per ripristinare un contatto della centralina che comunque dovrebbe reggere lo stress dei prossimi 2 mila chilometri fuori dai confini patri. Ce la caviamo egregiamente: 50 euro e un paio di gelati per il piccolo Nemanja sono il prezzo del sorriso ritrovato (anche dai miei compagni di viaggio) e del benvenuto del Montenegro.