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Occorre fare una premessa: io non ho particolari simpatie per i preti, di qualsiasi religione siano, quale che sia il credo che loro professano. È più forte di me: vedo una tunica e mi metto subito in guardia. Saranno stati gli otto anni di scuola dai gesuiti, il prete della parrocchia di fronte a casa mia che a 7 (sette!) anni mi ha espulso dall’oratorio perché «sei troppo vivace», la paura che mi incutono quelle sottane nere e i visi delle suore costretti dentro quelle cuffie monacali.
Non lo so con esattezza, ma non mi piacciono granché, anzi mi fanno un po’ paura ancora adesso che ho passato da qualche anno il mezzo secolo e anche fisicamente non posso essere definito una persona esile (tutt’altro). Comunque quando a una fontanella lungo la strada, dove stavo riempiendo d’acqua il mio piccolo thermos da viaggio, si è avvicinata la sagoma nera di un pope ortodosso, non me la sono sentita di evitarlo.
Un sorriso gentile che gli sagomava una barba tanto bianca quanto ispida, i suoi modi garbati ma non melliflui e il suo inglese fluido hanno fatto il resto: era un monaco di Sopocani, sceso a valle per ritirare la posta in arrivo con la corriera. Ci ha raccontato la storia del monastero costruito a metà del Duecento, gli affreschi bizantini e la bellezza della valle della Raska, il nome del corso d’acqua vicino al quale venivano costruiti tutti i monasteri, il battesimo del figlio dell’imperatore serbo. E poi l’invito a vistare non un posto qualsiasi, ove lui avrebbe voluto farci gli onori di casa davanti a una tazza di caffè.
Nella nostra road map flessibile la tappa al monastero di Sopocani era prevista, la tazza di caffè che poi è diventata un bicchiere di vino rosso è stata invece inserita ex post. Pope Bogdan ci ha fatto da Virgilio e ci ha raccontato la sua versione dei Balcani. Da buon serbo non ci sta a passare per cattivo e vuole porre un freno alle generalizzazioni dettate dai luoghi comuni. «Nemmeno ai tedeschi è stato riservato un giudizio così terribile». E ricorda che nei secoli i serbi hanno sempre difeso l’occidente cristiano di fronte alle spade di Maometto. Ma nelle sue parole non c’è solo la storia: ci racconta dell’infanzia a Belgrado, delle letture giovanili, delle scelte di rottura tipiche di una generazione.
Nel suo personale pantheon non mancano Ivo Andric, l’immaginifico cinema di Emir Kusturica e l’orgoglio per le sue Palme d’Oro, la musica di Goran Bregovic che dal vivo dà il suo meglio. E poi il calcio: snocciola nomi, date, partite che gli sono rimaste nel cuore. Riferimenti comuni che ci avvicinano in modo inaspettato. Il ricordo delle bombe su Belgrado lo riporta indietro a un inferno che non vuole rivedere. La sua sofferenza è quella di coloro che accusano la sua gente di ben altre nefandezze.
Non si può fare una graduatoria della crudeltà ma per i serbi c’è pure l’onta di essere dalla parte sbagliata della storia e Bogdan non ci sta: «Noi serbi siamo molto più occidentali di come ci pensate». E anche quando parla della scoperta della fede il suo dio assomiglia talmente al nostro che per capirne le differenze dovremmo onestamente ordinare un altro calice. Ma non c’è più tempo, dobbiamo ripartire e anche l’amico immaginario, come direbbe il Dr. House, potrebbe richiamare pope Bogdan a ben più alti doveri. E in quel caso è meglio farsi trovare pronti. Non conviene mai urtare la sensibilità di un amico.
C’è poco da fare, venire in vacanza nei Balcani è fare i conti anche con quella guerra combattuta a poche centinaia di chilometri dalle nostre confortevoli abitazioni, e che con un meccanismo che psicoanaliticamente andrebbe approfondito abbiamo bellamente ignorato come se non ci riguardasse. Come se tutto questo avvenisse a migliaia di chilometri da noi. Questi sono i nostri vicini di casa, dalle nostre basi di Aviano partivano aerei che avrebbero bombardato Belgrado. Noi europei non solo abbiamo guardato dall’altra parte, ma quando siamo intervenuti sul campo con le nostre forze di pace (scusate il termine pace) abbiamo fatto guai. Per non dire di peggio.
A Srebrenica, oltre 8 mila bosniaci in età compresa tra i 12 e i 70 anni sono stati seviziati e ammazzati crudelmente dai serbi del generale Mladic con la complicità inerte dei caschi blu dei soldati in quel caso olandesi, inviati dall’Onu. Un crimine che noi europei, per la nostra storia, non avremmo dovuto consentire. Nonostante le condanne del tribunale dell’Aja, Srebrenica è ancora una ferita aperta che lacera i rapporti tra serbi e bosniaci. La ferocia gratuita di quel massacro pesa come un macigno sui cuori spezzati di migliaia di mogli, madri e sorelle che hanno visto partire i loro uomini verso un destino talmente crudele che anche ora che tutto o gran parte è stato acclarato si rimproverano di non avere compreso. Un senso di colpa devastante, che nessuna condanna può lenire. Anche per questo Srebrenica non può rimanere fuori dal nostro itinerario. Non era prevista, ma quello che abbiamo visto, ascoltato e discusso (con Pope Bogdan soprattutto) non può scivolare su di noi come la pioggia su questo asfalto serbo.
Il nostro road book è per definizione flessibile, ed è stato sufficiente fermarsi a fare rifornimento di benzina per studiare sulla carta una deviazione di pochi chilometri. Prima di arrivare a Sarajevo, Srebrenica va vista. Purtroppo non abbiamo fatto i conti con il destino e con la debolezza della meccanica. Che seppure di marca tedesca a volte ti lascia per strada: a pochi chilometri dalla meta proprio mentre stavamo per varcare il confine ed entrare in Bosnia. Frizione kaputt è la sentenza di un meccanico che ha provato a rimetterci in strada. Non c’è nulla da fare: la moto non va e bisogna arrivare prima possibile a Sarajevo, prima città con un’officina in grado di prendere in considerazione il guasto. Nella speranza che abbiano i ricambi alla bisogna.
Srebrenica rimane sulla cartina e la deviazione imposta dalla frizione passa per Visegrad e il suo ponte sulla Drina fino a Sarajevo. La Bosnia ci accoglie nel peggiore dei modi: un cielo che minaccia pioggia, la preoccupazione di una moto malfunzionante, la sensazione di impotenza abbinata a quella che nemmeno a Sarajevo si riesca a porre un rimedio e la desolazione di Paola e Marco che viaggiano a cavallo della malata con gli occhi sul contachilometri (per vedere quanto manca all’arrivo) e un orecchio attento a ogni nuovo rumore della moto. Noi, come Chips sulle highway della California, scortiamo la grande malata verso Sarajevo. Ce la faranno i nostri eroi? Purtroppo questo non è un film, è un racconto in presa diretta e la moto si ferma definitivamente a Visegrad: solo l’intraprendenza di un tassista che ce la rimorchia su un carretto normalmente riservato al trasporto bestiame ci permette di raggiungere Sarajevo prima che faccia buio. Per oggi può bastare così. Domani è un altro giorno e si vedrà (cosa si può fare), direbbe Rossella in Via col vento.
«Abbiamo una casa». Dopo un rapido giro di consultazioni di app (e internet) Anna esulta. Ha trovato una casa per un paio di giorni (e notti) a Sarajevo, a poche centinaia di metri da Bascarsija, il vecchio quartiere musulmano, cuore multiculti della città. Posizione strategica: possiamo raggiungere il centro a piedi e domani ci potremo occupare anche della moto. La speranza è che qualcuno sappia mettere le mani su questa frizione che da due giorni ci sta facendo dannare. Va però detto che il buon umore della truppa non è stato intaccato, se non in minima parte, da questo guasto. Tant’è che una volta sistemati i bagagli e assegnati i letti in casa, ci avventuriamo immediatamente in città.
Grazie anche ai consigli di Mensura, creativa artista e padrona di casa che nella abitazione di famiglia si è riservata un paio di appartamenti, per sé e per il figlio, mentre gli altri, dopo una ristrutturazione alquanto ricreativa (nel senso di divertente), li ha fatti diventare miniappartamenti a uso airbnb. Mensura è pure prodiga di consigli e di raccomandazioni. Lei ha vissuto la guerra e ha visto la Miljacka, il fiume che bagna Sarajevo, tingersi di rosso. Conosce e si districa abbastanza bene nelle divisioni etniche che hanno devastato la sua città e anche il suo cuore. Non fa riferimenti troppo personali, ma il dolore traspare anche nella glaciale freddezza dei suoi quadri appesi alle pareti.
Sarajevo è soprattutto Bascarsija. Molto più di un quartiere musulmano, Bascarsija è il cuore e il simbolo della rinascita di questa città. Qui, ogni sera va in scena una movida in salsa balcanica alla quale partecipano tutti. Compresi i numerosi turisti e viaggiatori che vengono a omaggiare questa Guernica di fine secolo. Le tracce della guerra sono più evidenti man mano che ci si allontana dal centro. Per me non è la prima volta, venni qui nel ’98, quando l’ordine in città era ancora garantito dai caschi blu dell’Onu. Non amo il voyeurismo da tragedia ma fare raffronti, riconoscere i cambiamenti e la ritrovata vitalità di questo angolo di Balcani è inevitabile per chiunque. Venti anni dopo Bascarsija è praticamente irriconoscibile, i grattacieli dai quali i cecchini serbi terrorizzavano la popolazione civile sono ancora lì a testimonianza di quell’orrore. Ma i buchi dei proiettili e delle granate sono stati quasi tutti coperti. Anche la biblioteca è stata ricostruita, il museo di Storia ospita una mostra dedicata a Brian Eno con un titolo ridondante, 77 million paintings (quando mai avrà trovato il tempo per farli??? ci chiediamo) e anche il tunnel di 800 metri scavato sotto l’aeroporto, che durante l’assedio serviva per rifornire di viveri la popolazione e consentire ad altri la fuga, compreso l’ex presidente bosniaco Alija Izetbegovic sulla sua sedia a rotelle, è diventato parte di un museo.
Ne sono stati conservati una ventina di metri, ma sono le dimensioni irrisorie (1 metro e 60 di altezza per 80 centimetri di larghezza) che spiegano il dramma meglio di qualsiasi racconto. Il pensiero va al tunnel di Berlino scavato a mano per fuggire all’ovest, o ai tre livelli di cunicoli in cui i vietcong si rifugiarono per raggiungere e conquistare Saigon: la medesima angoscia stringe il cuore e toglie il fiato a qualsiasi parola. Sarajevo è per palati forti, non lascia (e non può lasciare) indifferenti. Nonostante i nostri sforzi per trovare un meccanico e i tentativi per rimettere in sesto la moto, dobbiamo arrenderci: bisogna trovare un carro attrezzi o qualcosa di simile, per portarla a Spalato e imbarcarla con noi fino in Italia. Purtroppo i tre giorni della Festa del Sacrificio, ricorrenza musulmana molto rispettata, non agevolano le nostre richieste. Grazie alle intercessioni di Mensura riusciamo a trovare il passaggio per moto ed equipaggio. Con i nostri due amici ci diamo appuntamento per il giorno dopo all’imbarco e, come quattro reduci da una spedizione artica, ci consoliamo con una birra per riprendere il ritmo e rientrare in sintonia con la città.
Domani sera a quest’ora saremo già sul traghetto e sebbene il gruppo si sia mano a mano assottigliato, l’ultima sera di un viaggio va omaggiata comme il faut. Per questo abbiamo deciso di sederci ai tavoli di una trattoria nel cuore di Bascarsija non prima di avere fatto visita alla moschea di Gazi Husrevbeg e alla madrasa con annessa spettacolare biblioteca. Se il cuore di Sarajevo è musulmano, l’anima è aperta alle contaminazioni di tutte le culture che piano piano rientrano in città e ne apprezzano lo spirito multiculti: una città ponte tra due culture, ma anche crocevia di scambi, in cui mercanti di ogni etnia hanno fatto tranquillamente affari in nome del dio denaro. E così anche un pullman di turisti americani con regolamentare bastone per selfie può rimanere a bocca aperta davanti alle architetture di una scuola coranica dopo avere scoperto che una madrasa non è un covo di fanatici intolleranti pronti a tutto in nome di un paradiso di vergini, bensì un polo culturale con una biblioteca che ospita qualche migliaio di volumi che raccontano una storia e una civiltà millenaria.