Viaggi. Da Palermo a Messina lungo le coste sud occidentale e sud orientale

Viaggi. Da Palermo a Messina lungo le coste sud occidentale e sud orientale
Il mare d'Inverno: da Palermo a Messina lungo le coste sud occidentale e sud orientale. Un migliaio di km da fare con comodo in 4 o 5 giorni in terra di Sicilia
10 aprile 2012


30 Dicembre


Il gelo delle scorse settimane non si è attenuato, ma almeno c’è il sole, perché per arrivare all’imbarco di Napoli, noi che partiamo dalla costa adriatica, in un modo o nell’altro, l’appennino lo dovevamo attraversare. Appena si comincia a salire, dopo Sulmona, il termometro del cruscotto della moto lampeggia costante tra -4 e 0 gradi. C’è parecchia neve a bordo strada, percorrendo l’altipiano delle 5 miglia, subito prima di Roccaraso e dei suoi campi da sci. Il freddo è intenso. L’aria gelata che ci avvolge ci fa godere ancor di più del caldo tepore trasmesso dalle imbottiture termiche dell’abbigliamento tecnico. Siamo partiti. Non sarà l’Elefantentreffen, ma è pur sempre il 30 di dicembre e gli sguardi da dietro i finestrini delle auto che, con gli sci sul tetto, ci sorpassano, sono indecifrabili. Un misto di stupore ed ammirazione. Avevamo programmato un tour della Sicilia per il finire dell’estate, ma una serie di contrattempi ci avevano costretto a rinunciare. Gli itinerari erano stilati, le tappe definite, è bastato accorciarlo un po’ e qualche piccola modifica per decidere di partire ugualmente in questi giorni di vacanze natalizie, quando la maggior parte delle persone trascorre le giornate in casa, accanto all’albero adorno di luci multicolori, scartando regali, mangiando frutta secca e panettone.

Passiamo rapidamente dall’Adriatico al Tirreno. Napoli è caotica. In queste ore che precedono il capodanno probabilmente ancor di più del solito. Il traghetto invece, come una balena appisolata, ci aspetta in banchina, placido, con la bocca aperta. Entriamo, il ponte di carico è deserto, certo non mi aspettavo di trovare la folla, ma che la nostra sia l’unica moto, in qualche modo mi sorprende. Il personale ci consegna delle cime sudice per legare la moto, in cambio di un paio di euro per ‘o café. Scarico i bagagli. Pochi minuti dopo le 20 lasciamo il porto, il Vesuvio appena spolverato di neve e le luci della città si allontanano velocemente, il mare e la notte si fondono nello stesso colore plumbeo, avvolgendoci. Il golfo di Napoli, visto dal mare, ha sempre un fascino particolare, ma in coperta fa proprio un bel freddo, meglio rientrare. Ceniamo, ci ficchiamo in cabina e buonanotte al secchio.

31 Dicembre


E’ l’alba del giorno di capodanno che sbarchiamo a Palermo. Alle 7 di mattina l’aria è frizzante, ma siamo coperti a dovere. La giornata sarà lunga, il programma che abbiamo previsto, intenso. Sul road book sono segnati musei, monumenti e mercati. Per strada non c’è quasi nessuno. Decidiamo di salire a Monte Pellegrino da cui si domina tutta la Conca d’Oro e a seguire visitiamo Monreale e lo splendido duomo in cui gli stili normanno, arabo e cristiano si fondono in un unico insieme. Intanto è uscito un bel sole. Torniamo a Palermo che finalmente comincia ad animarsi.
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Lasciamo la moto nel garage dell’albergo e trascorriamo il resto della giornata in giro a piedi per la città. Non c’è il problema di dover scegliere da che parte cominciare la visita perché i mercati: Ballarò, Vucciria, Capo e Borgo Vecchio si trovano tutti più o meno in centro città accanto alle vie ed alle piazze più belle della Palermo storica. E’ cosi che palazzi maestosi e piazze monumentali si mescolano a vicoli sporchi e case quasi diroccate. Basta girare l’angolo di un vicolo di una qualsiasi strada piena di negozi alla moda che ti ritrovi catapultato in un’altra dimensione. Contrasti fortissimi. Manichini nelle vetrine che indossano gli abiti da sera per il veglione imminente. Nei mercati grida caratteristiche e confusione, merce varia ma soprattutto frutta e verdura dai colori brillanti. Ogni banchetto potrebbe essere il quadro di un pittore impressionista. Pranziamo con mandarini, arance vaniglia, cazzilli e panelle. La frutta comprata al Ballarò, il resto in un panificio nei paraggi del mercato, tenuto con un concetto di pulizia abbastanza approssimativo, ma il buon odore di forno, ed il fatto che ci fosse la fila di donne e ragazzini fin fuori la porta, sono un buon segno. Un salto in albergo per una doccia e poi di nuovo in strada. Le saracinesche dei negozi cominciano ad abbassarsi, si intravedono le commesse che di fretta riordinano gli spazi espositivi, ritoccano il rossetto alle labbra sfruttando gli specchi riservati di solito alla clientela. Alcune indossano già le scarpe lucide col tacco a spillo, dirette, senza nemmeno passare da casa, a chissà quale veglione. Passeggiamo senza meta con l’intento di aspettare il capodanno per strada, festeggiare, il nuovo anno in qualche piazza, ma è tutto il giorno che camminiamo, e siamo così stanchi che ceniamo in un bar all’aperto con arancini di riso, dolci alle mandorle ed un bicchiere di prosecco. Non sono ancora le 11 che siamo già a dormire. Buon Anno.

1 gennaio


Non possiedo un navigatore, e al momento, non credo lo comprerò mai. Ho sempre con me delle carte stradali che, consulto all’occorrenza. In tanti anni di viaggi ho acquisito un discreto senso dell’orientamento, e poi mi piace, se occorre, fermarmi e chiedere alla gente del posto le indicazioni necessarie. Questa delle informazioni sarà una simpatica costante del viaggio.
Usciamo da Palermo direzione la costa di Sud/Ovest. Inattesa una forte emozione ci prende, nei pressi di Capaci, trovandoci a passare in mezzo a due grandi colonne piramidali, alte una decina di metri, con in cima lo stemma della repubblica Italiana e segnati a rilievo i nomi di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. In un lampo nella mente riaffiora il dolore del dramma. Ricordo che piansi quel 23 maggio del 1992, ed anche ora un nodo alla gola preme sul cinghino del casco.
Proseguiamo lungo la costa, fino alla deviazione per Alcamo e Calatafimi/Segesta, prima tappa di giornata. Visita al tempio greco.

Poi via verso Trapani. La parte più vecchia della città è costruita su di un lembo di terra che si incunea nel mediterraneo, così che alcuni palazzi si affacciano sul mare sia da un lato che dall’altro. Saliamo ad Erice, la strada è bellissima e il panorama su Trapani emozionante, il sole va e viene e questo da alla luce un tocco di magia, con i raggi luminosi che filtrano tra le nubi, illuminando a macchie il panorama. Scendiamo di nuovo verso il mare e ci perdiamo affascinati a percorrere le decine di lembi di terra che dividono le vasche naturali delle Saline e della Riserva dello Stagnone. Davanti a noi Mozia, città fortificata di origine fenicia, raggiungibile e visitabile, grazie ad un servizio di piccole barche che fanno da spola con la terraferma, seguendo il tragitto della vecchia strada che la univa alla costa; strada in pietra, risalente al VI secolo a.C, ora completamente sommersa.

Lo scenario è difficile da poter descrivere. Il piccolo porticciolo è deserto. Mucchi di sale, protetti da coperture di tegole, attendono il calore del sole estivo. Le nuvole sono scure e la luce radente colora il mare d’oro e d’argento. E’ il primo dell’anno, sembra che tutta l’isola stia ancora dormendo e, a parte un camper di turisti olandesi con cui scambio poche parole, non c’è assolutamente nessuno, solo uccelli, grandi e piccoli, che si alzano in volo al rumore del nostro passaggio. Poco lontano un piccolo stormo di fenicotteri. Il sole comincia a calare tra le nuvole; ripartiamo.


Evito volutamente la superstrada e ci infiliamo su di una provinciale malmessa. Da Marsala a Sciacca, dove ci aspettano per la notte, attraversiamo, ormai col buio, una campagna aspra e isolata. Apparentemente senza segni di vita. Senza una luce, un lampione. Senza un casolare illuminato. Senza un rumore. Niente, il buio più totale e nessuna, ma proprio nessuna indicazione. In una settantina di chilometri non incrociamo più di tre, quattro auto. Il pensiero di doversi fermare per un qualsiasi inconveniente mi mette un po’ d’ansia. Guido con prudenza, non so nemmeno se stiamo andando nella direzione giusta, fino a che non scorgo un segnale talmente vecchio e scolorito da essere praticamente invisibile che indica la Palermo/Sciacca, siamo lontani da dove pensavo di essere, ma seguiamo quell’unica indicazione per arrivare ad una specie di quadrivio con le strade che si perdono nell’oscurità. Ci fermiamo. Non si scorge niente e nessuno fin dove si vede. Per tentativi imbocchiamo per qualche chilometro le strade che partono dall’incrocio in cerca qualche indicazione, tornando ogni volta al quadrivio, unico punto di riferimento nella sera che ci pare, ad ogni minuto che passa, sempre più scura. Il metodo viene premiato, perché alla fine troviamo finalmente la via giusta fino ad intravvedere, in lontananza, le luci della costa e di Sciacca. All'ingresso della cittadina, ci fermiamo in una piazzetta e chiediamo indicazioni della nostra locanda.

In prima battuta, le persone incontrate, mi sono parse molto riservate, avevo notato che al nostro passaggio ci osservavano tutti, ma con discrezione, ad occhi bassi, quasi di nascosto, se però ti fermi e gli dai a parlare diventano dei simpaticissimi chiacchieroni senza freno. Ogni volta che abbiamo chiesto informazioni è stata una sceneggiata, ogni volta andrebbe raccontata per filo e per segno, perché se il primo non sa rispondere, chiede ad un secondo che passa, poi ad un terzo, insomma dopo poco c’è attorno a noi un capannello di persone che discute. Questo episodio vale per tutti: in una occasione, mentre siamo fermi circondati già da quattro, cinque uomini che cercano di mettersi d’accordo LORO, su quale strada sia meglio per NOI, un altro, da lontano, che non era ancora stato interpellato, e senza nemmeno alzarsi dalla sedia su cui era seduto, vicino alla porta di casa, grida : “cu vann cercann cui cu motore” . Troviamo la locanda, parcheggio la moto in un cortile e ce ne andiamo a dormire.

2 gennaio


Siamo diretti, prima di arrivare a Modica, tappa e pernottamento successivo, a Porto Palo di Capo Passero, il punto più meridionale d’Italia, persino più a sud del parallelo di Tunisi, i chilometri non sono tanti, pensiamo di esserci per mezzogiorno. Sulla strada visitiamo i resti dell’anfiteatro greco di Eraclea Minoa; purtroppo non molto è rimasto e la visita non varrebbe la pena se non fosse che la strada per arrivarci è un incanto, scavata nella pietra di tufo bianco e a picco sul mare. Ho pensato, mentre la percorrevo, agli amici motociclisti, compagni di scorribande, e a come si sarebbero divertiti con quelle scatolette di moto che si ritrovano a saltare su e giù, come dei grilli, su quel terreno compatto e soffice allo stesso tempo. Come sempre nessuno intorno, solo noi e la moto. Il mare di fronte ed un silenzio quasi irreale.


Si continua. Attraversiamo un altro mare, ma di aranceti questa volta. A perdita d’occhio alberi verdissimi stracolmi di frutti arancioni. Un grande cartello, a bordo strada, spiega: “state attraversando Ribera, la città delle arance”. Il profumo intenso degli agrumeti entra prepotente nel casco ad invadere tutti i sensi. Proseguendo, poco prima di Agrigento, sono invece i fichi d’india a farla da padroni. Distese immense di cactus, grandi come alberi, carichi di frutti gialli, porpora e verde chiaro.

Lasciamo la costa puntando Piazza Armerina, sulla carta avevo visto una strada interna, da imboccare subito prima di Caltanissetta, indicata dalla mappa come panoramica, che passando per Pietraperzia (si pronuncia come farmacia) e Barrafranca ci avrebbe condotti a Piazza Armerina. Indovinate: cartelli stradali zero. Abbiamo chiesto e richiesto. Abbiamo girato intorno a Caltanissetta per diverse volte ed alla fine abbiamo rinunciato. Pietraperzia non siamo riusciti a trovarla. Siamo però passati per Enna, splendida nel cielo d’inverno dall’alto dei suoi 930 metri s.l.m. e dove non ci siamo fermati che pochi minuti, giusto il tempo di un giro veloce, primo: perché faceva davvero molto freddo, secondo: perché per cercare la strada che avevo in mente di fare stavamo sballando con la tabella di marcia. Una sosta veloce a Piazza Armerina ed ai mosaici di Villa Romana del Casale, che avrebbero meritato più tempo, quindi giù di nuovo verso Gela e la costa. Vittoria, Comiso, Ragusa, Scicli, Ispica, Pachino, la città del pomodoro omonimo, e finalmente, anche se in ritardo: Capo Passero.

Il buio a gennaio purtroppo arriva in fretta e in fretta ripartiamo dopo aver fatto qualche foto. Il mare è di un blu brillante e profondo. Il paese, poche case ed una piazza che si affaccia sul mare sembra deserto. Come fosse in letargo in attesa della resurrezione estiva, in uno stato di apparente abbandono che non mi so spiegare. Il contrasto tra la natura bella e selvaggia e gli insediamenti civili, malmessi e disordinati fino a pochi metri dal mare, stupisce e disorienta.
La delusione è forte, ma sparisce in un attimo perché arrivare a Modica all’imbrunire è invece uno spettacolo emozionante.

Siamo nella Val di Noto, e tutta la zona è stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Modica, oltre ad essere conosciuta per la cioccolata lavorata a freddo, ancora con lo stesso metodo utilizzato dagli Atzechi, è davvero una pietra preziosa incastonata tra due pareti di roccia che sembrano verticali, con le case appiccicate al monte e le viuzze strette che salgono e scendono collegate tra un livello e l’altro da scalette di pietra talmente ripide che a farle ti viene il fiatone. Modica mi ha affascinato e conquistato, se potessi ci tornerei domani. Scoprirla e visitarla, da sola, è valsa tutta la strada che abbiamo fatto. Estasiati ci regaliamo una cena coi fiocchi in un osteria indicata dalla gentilissima ragazza al ricevimento dell’albergo. Antipasti di arancini, ricotta, olive condite, melanzane, pomodori, panelle. Poi zuppa di patate e zuppa di fave; bollito alle erbe e coniglio con le verdure (che erbe! che verdure!) Tutto allungato con una bella bottiglia di Frappato* di Vittoria. E’ l’ultima notte che dormiremo in terra di Sicilia. Ce lo siamo meritati. Tutto è stato perfetto.

*FRAPPATO
Vino dalle origini incerte, viene descritto da Sestini (1760) nelle sue memorie sui vini di Vittoria, luogo in cui ancora oggi è coltivato. Presente soprattutto nella provincia di Ragusa e di Siracusa generalmente in consociazione con il Nero d'Avola, risulta poco diffuso nelle altre province siciliane. Le uve vinificate in purezza danno un ottimo vino di colore rosso rubino poco carico e brillante, elevati sentori vinosi, fruttati e floreali, mediamente corposo, tannino equilibrato, al gusto fresco e morbido, molto armonico.

3 gennaio


D’abitudine, quando organizzo un viaggio, il programma dell’ultimo giorno lo tengo molto leggero, le ragioni sono diverse. Un giorno quasi libero ti consente di recuperare eventuali ritardi accumulati, per qualsiasi motivo, nelle tappe precedenti. Non hai la fretta di dover arrivare a tutti i costi ad un eventuale appuntamento (in questo caso col traghetto che ci riporterà sul continente). Dopo tanto girare fuori casa si è più stanchi, meglio non essere pressati, si riducono possibili rischi.

Così il programma prevede la rinomata Noto e la costa in tutta tranquillità, da Avola fino a Messina, porto d’imbarco per il ritorno via nave su Salerno. Circa a metà percorso passeremo sotto l’Etna. Di noi due, uno voleva assolutamente salirci, l’altro, manco morto, ma eravamo d’accordo che una volta lì sotto, viste le condizioni meteo, visto l’orario, vista la situazione generale, avremo deciso sul da farsi.
Noto, è solo una opinione personale, merita sicuramente la fama che ha, ma non mi ha colpito più di tanto; troppo perfetta, troppo pulita, troppo tutta uguale a se stessa. E’ la massima espressione del barocco siciliano ma suona come una moneta di latta. Mi sono piaciute molto di più Modica, sopra tutte, ma anche Scicli, Ispica, Piazza Armerina e tanti altri piccoli centri, anch’essi tutti ricostruiti in modo simile dopo il terremoto disastroso del 1693 che rase al suolo tutta questa porzione di Sicilia. Ogni centro con la sua cattedrale in pietra calcarea bianco/giallastra, la piazza, le scalinate, i vicoli; ma al contrario di Noto, vivi e vissuti, con i panni stesi alle finestre e le facciate delle case e delle chiese rigate dallo scorrere della pioggia.

Di nuovo sulla costa superiamo Avola, Siracusa, Augusta ed arriviamo nei pressi di Catania, ai piedi dell’Etna. Ci fermiamo ad una area di servizio e chiedo ad una guardia privata quanto tempo occorra per salire la Montagna.
La cima è parzialmente coperta di nuvole, si intravede la neve ed un pennacchio di vapore che sale da uno dei crateri sempre attivi. Che spettacolo! Un diametro di 45 chilometri ed una altezza di 3400 metri sono solo numeri che non rendono bene l’idea della maestosità di Mongibeddu, come lo chiamano da queste parti.
Se invece di seguire le indicazioni turistiche, vai per Nicolosi, in un’ora e mezza sali e scendi comodo, mi risponde il ragazzo della Mondialpol, che per tutto il tempo non ha mai tolto la mano dal pistolone che teneva alla cintura.

La temperatura è mite, siamo in anticipo sugli orari previsti, dopo qualche vai tu, io ti aspetto qua, saliamo. Trovare le indicazioni per Nicolosi, tra decine di vicoletti che si intersecano l’un l’altro, sembrava facile, ma come ormai abbiamo imparato, facile non lo è per niente, comunque saliamo e di parecchio anche, finchè troviamo e superiamo Nicolosi. Fa proprio freddo e sulla strada non c’è un’anima, nessuna indicazione di quota o di quanto manchi al rifugio Sapienza. Non piove, ma indossiamo, sopra la giacca imbottita, anche la cerata per proteggerci ancora un poco di più dal freddo che punge maligno, ma quando la strada scompare tra le nuvole, ed il nevischio portato dal vento ci avvolge, decidiamo di non andare oltre. Fermo la moto, scatto tre foto, due per noi, una per ‘u motore e ce ne torniamo a livello del mare.


Tutto il resto è normale cronaca di un rientro previsto. Da Giardini Naxos saliamo a Taormina. Rapido pit-stop in un locale caratteristico per un the caldo ed un vassoietto di dolcetti tipici, dopodiché a passo più che turistico percorriamo tutta la nazionale, che costeggia il mare, fino a Messina. In una pizzetteria affollata di giovinastri che ci guardano come se fossimo degli astronauti, facciamo passare un po’ di tempo in attesa dell’imbarco. Mentre siamo dentro un piccolo scroscio bagna le strade e la moto, uniche gocce di pioggia di tutto il viaggio. Alle 23 siamo al porto, tecnici in tuta bianca stanno lavorando al portellone del traghetto. Dovranno sostituire un cavo d’acciaio. Partiremo alle 2e30 con oltre due ore di ritardo. Ci svegliamo a Salerno. Scegliamo di tornare percorrendo tutta la Costiera Amalfitana, da Vietri a Positano. Troviamo di nuovo molto freddo valicando l’appennino, ma in serata siamo a casa.

Avevo già visitato la Sicilia, diversi anni fa, ma era estate, e sono sincero, non mi aveva entusiasmato. Caldo, confusione, traffico, pullman di turisti ovunque ad intasare la viabilità. Questo viaggio invece è stato una scoperta, una piccola avventura. L’interno della Sicilia in questo periodo, mi è parso straordinario. La sensazione è di avere visitato un paese completamente diverso da quello che ricordavo. Diversi i colori dell’inverno. Intensi gli odori di frutta, di spezie e di mare. Indescrivibile il silenzio e la vastità di zone attraversate apparentemente deserte. Magari gennaio non è il mese migliore per visitare la Sicilia in moto, ma certo ci ha permesso di assaporare e godere di atmosfere uniche, lontani dal clamore dei flussi turistici e forse scoprire l’isola per quello che è veramente, coglierne l’essenza, viverne, per certi aspetti, la difficile realtà.


Enrico B.

 

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