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Ci siamo divertiti a coprire uno splendido itinerario motociclistico; tre giorni per viaggiare nelle strade che uniscono gli otto centri capolavori del barocco e patrimonio Unesco: Caltagirone, Militello in Val di Catania, Modica, Scicli, Ragusa, Palazzolo Acreide, Noto e, infine, Catania per un tour lungo circa 600 chilometri senza alcuna pretesa di esaustività; ci sarebbero volute due settimane, noi ci siamo limitati a tracciare un solco, un solco molto emozionante. L'abbiamo gustato guidando una Triumph Tiger Explorer XC 1200 SE e beneficiando dell'ospitalità di Antica Badia Relais Hotel a Ragusa.
Immaginate se per andare al lago la domenica ci volesse un giorno intero. Ecco, un tempo era così: le distanze erano dilatate perché si viaggiava a dorso di mulo, a cavallo o, i meno fortunati, a piedi. Chissà le vesciche.
Eppure città tra loro lontane potevano essere raggruppate sotto una circoscrizione amministrativa unica, spesso obtorto collo. In Sicilia già prima dall’anno 1000, la cultura araba impose la suddivisione dell’isola in tre zone o “Valli”: il Vallo di Mazara, quello di Demone e quello di Noto (quest’ultimo andava da Catania fino alla punta sud dell’Isola), marcando un assetto politico e amministrativo che resse benissimo per circa 900 anni, altro che larghe intese…
Nel 1693 una serie di violentissimi terremoti traditori della buona fede della popolazione rase al suolo tutta l’area orientale dell’Isola e con essa buona parte del Vallo di Noto. Per finire l’opera, un maremoto ci calò il carico da undici e le vittime furono sessantamila
Ma le cose non vanno sempre per il verso giusto e nel 1693, in due giorni, una serie di violentissimi terremoti traditori della buona fede della popolazione rase al suolo tutta l’area orientale dell’Isola e con essa buona parte del Vallo di Noto. Per finire l’opera, un maremoto ci calò il carico da undici e le vittime furono sessantamila. Il tempo di leccarsi le ferite e l’intero Vallo di Noto risorse per diventare una perla del Barocco, con un’evidente omogeneità architettonica anche tra città lontane tra loro ma accomunate da una ricostruzione post sisma fatta sotto le insegne dell’architettura barocca dei primi del Settecento. Architettura che lasciò il segno, tanto che nel 2002 l’Unesco dichiara le otto città tardo barocche del Val di Noto Patrimonio dell’Umanità per il loro valore artistico e anche perché… teme che l’Etna ci metta del suo e replichi i tellurici fattacci del 1693. Ma anche no.
C’era un’euforica aria di attesa, quando siamo partiti dalla Concessionaria Triumph Sicilia di Catania; un misto di eccitazione e immotivato timore. Nemmeno il tempo, piuttosto incerto e nuvoloso, riusciva a ingrigire l’entusiasmo del momento e a smontare quella sensazione che qualcosa di magnifico stesse per accadere, quella sensazione che può capire solo chi parte in motocicletta, anche solo per un giretto fuori porta di tre giorni.
Lasciata Catania ci siamo diretti, percorrendo le statali 385 e 28, verso Militello il cui dedalo di stradine nasconde insospettabili piazze, palazzi barocchi e chiese: troviamo in fondo ad un arco la suggestiva fontana della Ninfa Zizza, una signorina di 400 anni che sprizza acqua dai capezzoli per festeggiare l’avvento della fornitura di acqua potabile alla città; prime gocce di pioggia leggera ma ce ne freghiamo e proseguiamo lentamente verso Caltagirone scegliendo la SP28 (invece della 385, più veloce ma meno panoramica) che respira in mezzo alle colline e rende gradevolissimo il trasferimento, poi la SP 124 e prima di arrivare a Caltagirone smette di piovere; alè.
Caltagirone è nota per le sue ceramiche e per la scalinata di S. Maria del Monte ma perderci per i suoi acciottolati stretti e contorti per assaporarne la posizione collinare ,sulla quale svetta la parte storica e barocca, è il vero piacere che ci concediamo. Salire in cima alla scalinata è una specie di faticoso rito al quale sottoporsi dopo un paio di cannoli alla ricotta. Torna a trovarci una leggera pioggerellina a rinfrescare questi primi giorni di ottobre caldi e umidi.
Nonostante la pioggia, andiamo giù per la SS 514 in direzione Ragusa dove tra l’altro è in pieno svolgimento l’annuale festival di artisti di strada “Ibla Buskers”, evento pittoresco e frequentatissimo. Ragusa è formata da due distinte entità urbane: Ragusa Ibla, la parte che dopo il terremoto fu scelta dai notabili per la ricostruzione della città distrutta, e Ragusa “moderna” dove sorgono gli edifici contemporanei e c’è poco di Barocco.
Ibla sorge su una collina, appena più in basso di Ragusa e oggi è famosa, suo malgrado, per offrire location a molte scene della fiction televisiva Commissario Montalbano: in realtà è una città dal fascino immenso fin dal percorso da compiere per arrivarci, un serpente che si snoda fino ai piedi della collina e che risale su fino ad essere inghiottito dalle case basse e dai vicoli che culminano nel campanile della Collegiata di S. Giorgio. Calcare quell’asfalto all’alba di una mattina qualunque e cogliere sul fatto il sole mentre spunta dagli Iblei è una terapia contro l’ateismo.
La sera affrontiamo la mischia dell’affollato Ibla Buskers Festival: giocolieri, maghi, cantastorie, musici, acrobati, fantasisti e saltimbanchi da tutto il mondo riempiono le stradine medievali di Ibla; il nostro premio “attrazione più affascinante” va al Juke Box di Poesie: un barbuto ragazzo vestito da menestrello recitava poesie a scelta, declamandole in un tubo collegato alle orecchie dei (max due) clienti; dopo la lirica, tuoni e fulmini ci consigliano il rientro in albergo. Piove, mannaggia.
Cioccolato o no, Modica mi ha sempre conquistato; c’è chi la ritiene la più aristocratica città della Val Noto, quella più europea e vivibile, soprattutto è a quindici chilometri da Ragusa e consigliamo a tutti di sbagliare strada apposta, infilarsi con le ruote negli sterrati per qualche foto, oppure percorrere la SS 115: ogni scusa è buona per vagare un po’ nelle campagne modicane e ragusane in cerca dell’olio buono o del panorama bucolico.
Modica ha un impianto urbanistico che ricorda da vicino, e in qualche caso sfrutta, le grotte un tempo usate come abitazioni o necropoli. Vista dalla collina o dalla scalinata della Chiesa Madre di S. Giorgio, che condivide il titolo di Duomo con l’altra chiesa barocca di S. Pietro, ricorda un fitto stratificarsi di case che si inerpicano per la collina per tratteggiare un paesaggio fiabesco dal quale si fa fatica a staccarsi, se lo facciamo è per una buona causa: la visita alla Cava d’Ispica, una città scavata nella roccia fin dal quinto secolo d.C., consigliata caldamente.
Caspita se piove. Alla fine di questi tre giorni ci cresceranno le branchie. Sembra un brutale contrappasso mentre approcciamo Scicli dalla SP 54. Definire Scicli punta di diamante del barocco Ibleo è certamente riduttivo. Si può perdere lo sguardo per ore mentre dalla collina di S. Matteo, alla base della quale sorge il Palazzo Beneventano di orgogliosa bellezza, si osserva il centro storico della città adagiato sulla valle e composto come un presepe, come un giocattolo che decine di architetti e artigiani nel ‘700 disegnarono in scala uno a uno. Scesi nelle vie del centro e sopravvissuti per meriti più della moto che miei al basolato bagnato e scivoloso come sapone, rendiamo omaggio alla via Mormino Penna che fa da palcoscenico ai molti capolavori barocchi della città: si può resistere a tanta bellezza solo se si è infelici dentro.
Il terzo giorno vede brillare il sole, caldo come ci si aspetta e luminoso come i fari aggiuntivi della Tiger: da Ragusa, dove abbiamo fatto base per le due notti, partiamo per Palazzolo Acreide con l’intenzione di fregarcene della logica. È così che puntiamo il muso della Triumph verso ogni strada che mantenga bene o male la direzione giusta, certi che potremmo poi recuperare il percorso migliore in qualsiasi momento dato che Ragusa e Palazzolo Acreide nella peggiore delle ipotesi sono separate da cinquanta chilometri. Perdersi con la certezza di poter ritrovare la strada è una delle cose da matti che mi piace fare, un po’ come fare parapendio con la rete di sicurezza. È in questo modo che, non saprei dirvi come, siamo arrivati alla SS 287 dai paesaggi lunari e alla Chiesa di S. Sebastiano di Palazzolo Acreide, per fare poi un puntata alla Akrai antica con le vestigia delle varie colonizzazioni avvicendatesi nel corso dei secoli. Improvvisare, sorprendersi: con quest’idea ci dirigiamo verso Noto prima sulla SP 24 e poi sulla SP 64, due strade godibilissime a velocità inferiori ai 70 e che regalano emozioni a chi le sa percorrere godendosi tutto, le curve, l’aria, le mucche ai lati della strada, il panorama sulla campagna, l’assenza di traffico e di autovelox.
A circa dieci chilometri da Noto deviamo per Noto antica, il sito abbandonato della città distrutta dal terremoto del 1693. Nonostante il degrado e l’abbandono, Noto Antica vale certamente una visita per il suo respiro affannoso, per l’aria di tregenda che si porta ancora dietro a oltre quattrocento anni dal suo annichilimento ad opera del sisma (il più violento nella storia d’Italia). È strano, appena arrivato al cancello delle mura di cinta un branco di pecore si ferma di fronte la moto e mi scruta, sembra che voglia dirmi qualcosa, poi forse il caldo o forse la fame le porta ad andarsene per i fatti loro lasciando a me e Laura il passo; nel silenzio, i più riflessivi tra noi potranno immaginarsi, o persino udire, le voci degli abitanti in fuga dalle macerie. Se ci pensi, se pensi che qui un’intera città è andata distrutta e quel castello del quale non rimane che un torrione e poco più oggi troneggia su un cimitero di mille anime a cielo aperto, ti viene voglia di rimetterti in moto per vedere com’è Noto adesso, per sentirti meglio, per mettere al sicuro la pace incolmabile di Noto Antica da qualsiasi pensiero brutto; eppure, dall’Africa all’orizzonte arrivano veloci le nuvole: nere e cariche.
Decidiamo che è meglio andare rapidamente verso Noto per evitare di inzupparci ancora una volta; saliamo in moto, sudati e accaldati, rientriamo nella SP64 e succede una cosa che suona come un campanello di allarme: tutte le foglie si alzano da terra come stormi di uccelli in migrazione; dieci secondi dopo la moto inizia a ondeggiare violentemente, pochi istanti ancora e il mondo attorno a noi va sotto sopra. Ho appena il tempo di avvertire Laura con un “non sarà una passeggiata…” e una bomba d’acqua ci colpisce in pieno, il vento tenta di scaraventare a terra il Tiger: non avevo mai vissuto nulla di paragonabile prima d’ora. Capisco all’istante che è necessario cercare un riparo alla svelta, qualcosa che ci dia aiuto perché questo è un finimondo e se non troviamo come proteggerci può finire male: rami e oggetti a caso volano a mezz’aria, piove fortissimo e il vento è insostenibile, faccio appello a tutta la mia residua resistenza per tenere in piedi la moto e nel frattempo vedo una casa di campagna, una qualsiasi. Lascio la moto affiancata al muro del vialetto d’accesso sperando che il vento non la tiri giù, grido a Laura “scavalchiamo!” e dopo un minuto siamo sotto un portico; inutile, nonostante il portico sia profondo almeno quattro metri la forza del vento è tale da versarci secchiate d’acqua gelida addosso, schiacciati alla parete nel tentativo di salvare lo zaino con i telefoni e la macchina fotografica. Dura dieci minuti, forse meno. Poi riprende una pioggia banale. Capisco che è tutto finito. Che il clima d’attesa che sentivamo quando siamo partiti da Catania adesso si è sciolto, che era questa la vera esperienza che dovevamo vivere; anche noi, come le popolazioni delle lontane città del Vallo di Noto del 1693, dovevamo provare panico e paura quando la natura scatena la sua irragionevole forza e poi sollievo quando realizzi che è passata. E’ andata di lusso, forse ci arresteranno per violazione di domicilio ma giuro che non abbiamo toccato niente di quella casa disabitata della quale ringraziamo di cuore l’ignoto proprietario.
In condizioni patetiche arriviamo a Noto dove la tromba d’aria ha compiuto uno scempio: molti gli ombrelloni sradicati dei locali all’aperto, i tavoli rotti e i vetri infranti non si contano
In condizioni patetiche arriviamo a Noto dove la tromba d’aria ha compiuto uno scempio: molti gli ombrelloni sradicati dei locali all’aperto, i tavoli rotti e i vetri infranti non si contano. Il “Giardino di Pietra”, la “Capitale del Barocco”, con le sue imponenti chiese e scalinate, con il suo essere barocca in modo pervasivo e non nel singolo edificio, trascina anche noi, umidi fino all’intimo, nello stupore per la sua perfetta architettura.
È a Noto, non prima né dopo, che capisco che i nostro viaggio è finito; è vero manca ancora Catania per chiudere il cerchio delle otto città barocche Patrimonio dell’Umanità, ma credo che siamo già andati abbastanza lontano: quando arriveremo a Catania tramite l’autostrada E45, ci sentiremo a casa e non rimarremo troppo stupiti dall’equilibrio barocco del Duomo guardato a vista dal Liotro, l’elefante di pietra simbolo della città del quale un giorno, a chi vorrà farmi compagnia in un giretto in moto, racconterò la leggenda incredibile di un negromante arso vivo, artefice della statua dell’elefante da lui usata per velocissimi viaggi tra Catania e Costantinopoli. Io, se voleva viaggiare, gli avrei consigliato una moto: comoda, veloce, resiste pure alle trombe d’aria.
Per questo Tour abbiamo usato una sontuosa Triumph Tiger Explorer XC 1200 SE con ABS, TCS, Cruise Control, fari fendinebbia aggiuntivi.
Grazie alla solida imbottitura della sella e alla corretta relazione tra pedane, sella (regolabile) e manubrio, la posizione di guida è comodissima. Il passeggero benedice il sellone regale, le pedane dalla posizione azzeccata e le maniglie comode: ve lo farete amico. I paramani e la mezza carenatura completano una dotazione che rende veramente difficile dire “basta” e spinge a fermarsi solo per fare il pieno. Ma anche quelle saranno soste sporadiche: nei circa 600 chilometri percorsi in condizioni molto variabili, il consumo di carburante è stato di oltre 19 km/litro e sono convinto che si possa fare meglio; per dare un’idea, a 70 km/h costanti il Tiger ha registrato un consumo di circa 27 km/litro. A 130 km/h il motore frulla a meno di 5000 giri in sesta e se lo solleticate vi spara a velocità da mascalzone in pochi secondi.
Abbiamo viaggiato in due con il bauletto ultra carico e anche con questo assetto è da rimarcare il comportamento dinamico sempre divertente, privo di reazioni spiacevoli sul manubrio in rilascio, che permette di piegare allegramente fino a strisciare le pedane. La protezione dal vento e dalla pioggia è sorprendente, come abbiamo potuto verificare nei molti chilometri percorsi in condizioni meteo da monsone; in questo caso la qualità della grossa enduro albionica che ci ha lasciato il sorriso più largo è stata l’imperturbabilità anche a velocità elevate, unita ad una sensazione di totale sicurezza che spinge a raggiungere la destinazione anche sotto l’acquazzone, e poi andare oltre.
Ovviamente la Tiger è pur sempre una 1200 con una certa massa da gestire a moto ferma e sui terreni viscidi ma grazie all’azzeccato bilanciamento non ci siamo mai trovati in difficoltà. Durante il nostro tour non abbiamo mai avvertito entrare in funzione né l’ABS, né il TCS: il primo grazie all’estrema modulabilità dell’impianto, che forse sacrifica una minima quota di potenza pura, il secondo perché il propulsore tricilindrico è fluidissimo, regolare, forte fin dai bassi senza essere caratteriale o ruvido.
Direte, tutto ok allora? Beh, non proprio: io ho trovato il cambio un po’ duro, esuberante il calore trasmesso dal motore sul lato destro e soprattutto il Tour troppo breve; Laura invece ha deciso che il Tiger Explorer è la sua moto preferita per viaggiare e ora snobba la mia Street Triple: inconvenienti del mestiere.
L’albergo, in posizione strategica per questa tre giorni turistica, ha sede in un prestigioso immobile storico nel centro di Ragusa costruito accanto la cattedrale di S. Giovanni proprio in seguito al terremoto del Val di Noto del 1693; nel 2000 è in stato di abbandono ma il suo proprietario Giovanni Minardi, medico in pensione, decide di restituire alla città l’antica residenza nobiliare sua casa d’infanzia e dà inizio ai lavori di restauro.
Spinto dalla passione e dalla voglia di riportare alla vita vera l’antica badia settecentesca, in corso d’opera sceglie di trasformarla in un prestigioso albergo mettendone nelle mani del genero Andrea Galli la direzione: è lui che con grandissima passione mi racconta con gli occhi brillanti e le mani allegre la storia dell’Hotel, del Dottor Minardi che la mattina si può trovare in Hotel intento a fumare un sigaro, della sua decisione di lasciare il ben retribuito lavoro di Roma e di scegliere Ragusa come luogo dove fare crescere i suoi figli. Non pensavo che un albergo potesse celare tanta passione e ricchezza d’animo.
A noi l’Antica Badia è piaciuta moltissimo: camere comode e un livello di servizio veramente al top come del resto i riconoscimenti dei famosi siti specializzati testimoniano largamente, il personale ci ha accolti mostrando una cura del cliente, a nostro avviso, sopra la media. Pure la Tiger era contenta, perché passava la notte ben custodita nel parcheggio privato.