Viaggi in moto. Cambogia, un filo di gas

Viaggi in moto. Cambogia, un filo di gas
In Cambogia guidare bene una motocicletta non è condizione sufficiente per essere certi di campare a lungo; forse non è nemmeno una condizione necessaria...
13 dicembre 2012


In Cambogia guidare bene una motocicletta non è condizione sufficiente per essere certi di campare a lungo; forse non è nemmeno una condizione necessaria, specie se penso all’incolpevole tacchino che ho travolto pochi chilometri fa mentre attraversavo un villaggio. Alla guida di una enduro 250 solco le scorciatoie sterrate per raggiungere in fretta la civiltà urbana, i bagni con doccia e lavandino e non con solo un tubo e il cesso, per tornare a sentire l'insistente e offensiva domanda “do you like ladies?” mormorata da improvvisati prosseneti in cerca del trenta per cento di una fellatio.

Le scorciatoie sono impegnative: i monsoni hanno allagato le pianure, ridotte a suggestivi e giganteschi specchi d'acqua solcati da sentieri come da piccole rughe, sottili e zeppe di buche infide; qualcuno ha pure detto che le mine antiuomo si muovono con le alluvioni rendendo gli sconnessi tratturi capaci di presentarti qualche sorpresina non gradita, possiamo pure dire esplosiva: come un tappo di champagne tagliato via da una spada. Ho già visto tanta gente mutilata da una mina: alcuni ne hanno fatto un prevedibile e non so quanto dignitoso mestiere, altri hanno invece adattato la loro vita alle protesi che indossano; di molti altri invece non capisco il senso del pellegrinare ai luoghi di sepoltura di quei torbidi personaggi del recente passato cambogiano. È una domanda che faccio spesso e Slim, la mia guida locale, mi fa aspramente contento snocciolando la short version della sua storia familiare: padre, fratello e sorella uccisi dal regime di Pol Pot, cugini e zii in cerca degli auspici sui numeri vincenti della lotteria presso le tombe dei gerarchi di quella stessa dittatura che in Cambogia ha trucidato un terzo della popolazione alla fine dei '70, proprio mentre noi cantavamo “se mi lasci non vale”. Li capisco, se Pol Pot e compagnia bella sono rimasti al potere in quegli anni senza che nessuna potenza occidentale manifestasse la propria disapprovazione ma, anzi, riuscendo pure ad ottenere un seggio alle Nazioni Unite, vuol dire che erano dei maghi per davvero.

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Alla fine ho fatto il supponente pensiero che per i cambogiani, per chi non conosce l'inverno e cura le infezioni con sanguisughe e sfere arroventate, questo non è nemmeno soffrire: è soltanto trarre il maggior vantaggio possibile da una vicenda tragicamente sfortunata e remota, scioccante come gli scossoni che questi sterrati infliggono alle ginocchia e ai polsi e che rimescolano pure quelle poche, confuse, idee che mi sono fatto questa terra; la prima a venirmi su per la mente come un rigurgito è che se proprio mi va tutto male torno qui a fare il gommista a bordo strada ventiquattro ore su ventiquattro: libero professionista, niente orari né spese se non quelle di un'amaca e di un compressore da connettere abusivamente ad un'aerea e fatiscente rete elettrica, pochi attrezzi per smontare e riparare le camere d'aria di stampo ciclistico dell'immensa quantità di motorini usati sia per il diporto quotidiano come per portare la moglie in ospedale in preda alle doglie oppure, a scelta, per il trasporto di un paio di maiali verso il macello. Gommista, come Chan e Da che lavorano insieme in uno dei viali principali di Phnom Phen.

Le storie che mi hanno raccontato questi due ammirevoli uomini senza un’età certa sono storie di trasporti improbabili, come risulta improbabile e pazzesco alla maggior parte dei turisti coi quali scambio due parole il fatto che li abbia conosciuti di notte mentre passeggiavo in preda ad un'insonnia che era più un'ansia di capire dove mi trovassi che una reale incapacità di prendere sonno. Ho ascoltato avidamente i mugugni di Chan e Da a pochi passi dal cantiere per la costruzione di un opulento grattacielo avamposto della globalizzazione e cuneo per convincere i cambogiani orgogliosi e diffidenti che l'eldorado è vicino, manca poco; nell'attesa Chan e Da rimangono sul marciapiede ad aspettare un cliente con la ruota a terra, la notte dormono a turno sull'amaca un sonno polveroso e interrotto, versano alla polizia un obolo quotidiano per rimanere a lavorare indisturbati e nascondono la faccia ogni volta che la mia fotocamera chiede una smorfia all'insù. Che senso ha sorridere a questo turista insonne, sembrano chiedersi. Non riesco a dare loro torto, specie quando mi confidano che se abbandonano il loro posto sul ciglio stradale l'indomani troveranno qualcun altro, che tornano a casa da mogli e figli una volta a settimana e che il loro eldorado è guadagnare un paio di dollari al giorno. Come fai a non sentirti in colpa di fronte a storie così: io ci ho provato progettando la fuga con un filo di gas verso il confine con la Thailandia per nascondermi nella giungla assieme agli incredibili templi Khmer, ma sul momento l'unica compulsiva possibile soluzione mi è parsa dare a Chan e Da qualche dollaro. Loro hanno ringraziato, uno con la mano destra, l'altro con la sinistra. Con quello che potevano, insomma.


Viaggiare con la moto in punta di acceleratore e allontanarsi dalla capitale significa innanzitutto rendersi conto che certi problemi me li faccio solo io, e sbaglio. Che le strade fossero pericolose e che la velocità da tenere dovesse essere bassa, questo me lo aspettavo. Ma proprio non riesco a capire tutta questa gente ferma a gambe larghe che fa la pipì a bordo strada mentre attraverso le risaie e i campi di fagioli del centro della Cambogia. Basterebbe fare qualche passo in più per poter nascondersi tra gli arbusti appena oltre la strada. Poi, un giorno di sole, ero da solo in prossimità del confine e vedo un bel posto, una bella immagine, una sorta di isolotto nato dal ritiro dell’acqua dalle pianure. Mi fermo e penso che perdere due minuti per scattare una foto da vicino non sarebbe poi una perdita di tempo così criticabile. Il tramonto è lontano e non corro il rischio, come mi è già successo, di dover guidare col buio in un contesto molto diverso da una tangenziale italiana. La polizia cambogiana minaccia di multarti se non hai il casco, va bene che bastano due dollari per levarseli di torno ma in ogni caso non fa niente se invece non hai il faro o tieni le luci spente di notte, del resto gli animali come bufali e mucche che pascolano a bordo strada e ogni tanto la attraversano mica hanno i catarifrangenti, no? Quindi, grazie, no: col buio non guido più, specie in statali strette e senza illuminazione. Con l’eco di questo pensiero abbandono il sentiero e metto le ruote nel fango per avvicinarmi all’isolotto.
Venti metri, forse trenta, percorsi a passo d’uomo tra gli arbusti, fendendo l’odore di umido, lontano da qualsiasi centro abitato. È a questo punto che il sangue mi si gela annebbiandomi la vista per il velocissimo turbinio dei pensieri e mi sento per la prima volta in piena sintonia con i cambogiani.

Confine. Area Rurale. Fango e corsi d’acqua. Esattamente tutto quello che mi avevano sempre detto di evitare per non rischiare di incappare in un dirompente incontro. Ecco perché fanno la pipì a bordo strada: perché andare per campi è pericoloso. Adesso sono pure io un cambogiano, un khmer fiero e diffidente, forse pure opportunista per necessità, un esploratore di terreni a mio rischio e pericolo, e comprendo cento volte chi vive dentro un tempio distrutto dal tempo e dalle radici della giungla, dove però le mine si possono vedere ed evitare, piuttosto che in una palafitta al margine di un campo troppo piccolo per le esigenze della famiglia ma troppo grande per essere certi che sia completamente sicuro.
Potrei essere a pochi passi da una mina antiuomo. Forse la possibilità è zero virgola qualcosa ma per me è già abbastanza; ogni mese circa trenta sfortunati saltano su una mina, spero che per questo novembre si sia già raggiunto il numero. Spengo il motore dell’ XR, mi concentro e guardo il breve percorso appena compiuto, se fossi un bravo endurista potrei girare la moto di 180° facendo perno sul cavalletto laterale e tornerei indietro esattamente sulle orme dei miei tasselli, ma sono soltanto uno che a casa propria fa lo sborone con i 120 cavalli del suo bombardone e non un vero motociclista come i cambogiani. Se non sorridono tanto spesso, una ragione l’ho trovata. Se i loro bambini hanno un non so che di accusatorio quando cerco di giocarci, il motivo più superficiale credo di averlo intuito.
Ho sempre amato la possibilità di scelta: sarà americana, russa, tailandese, oppure polacca o cinese o forse mi troverò a che fare con una esplosiva mina cambogiana? La guerra è un buon business, e in Cambogia in molti hanno infilzato la forchetta nel piatto estraendone un bel pezzo di carne. Pensieri che non aiutano, mi dico. Calma. Giro la moto come posso, mi do cento volte dell’imbecille e torno sul sentiero senza danni, senza incontrare nessun ordigno e con molta calma, ma soprattutto tanto culo.


L’esperienza mi è servita; senza non avrei capito fino in fondo la noncuranza della popolazione rurale cambogiana verso il destino, il loro essere inclini a guardare solo all’immediato e non al domani che facilita un offensivo colonialismo culturale da parte di un’occidente mal visto, forse sopportato, di certo indispensabile come sono indispensabili i dollari in un paese che vive l’angosciante paradosso di battere moneta propria (i Riel) ma di usare a tutti gli effetti solo la valuta verde di una nazione straniera che ha lasciato nella loro terra un retaggio mortale insieme ad un vago sentire di essere sempre in mezzo ad un violento conflitto. I Riel vengono usati esclusivamente come resto per sostituire i centesimi di dollaro.

Grazie a questa riflessione ho mio malgrado bucato il primo strato della superficie esterna del disagio di una nutrita fetta della popolazione autoctona, percepito i volti dietro i loro pensieri ed intravisto la fame rapace di vita migliore. Ecco perché non ho retto oltre l’impatto con gli orgogliosi e coraggiosi cambogiani, ecco la ragione per la quale l’ultimo giorno della mia permanenza in Cambogia, dopo essere passato indenne da oltre 400 km di fuoristrada nella giungla percorsi nei giorni precedenti e mentre mi dirigevo con calma verso il Lago Tonle, la testa ha cominciato a girarmi, sempre più forte, senza fermarsi, tanto da indurmi ad abbandonare la moto e farmi accompagnare in albergo sotto gli occhi preoccupati di un conducente di tuk-tuk; lì mi sono messo a letto e ho aspettato che si facesse pomeriggio per uscire col mio zaino in direzione aeroporto, destinazione Catania; a piedi ho respinto gli ultimi assalti di chi mi proponeva piaceri a buon mercato e ho rabbiosamente pensato a tutti i cambogiani incontrati in questi ultimi dieci giorni, a cosa devo essere sembrato io a loro, a quello che chiedono, a quello che sono: quel che resta del dollaro.

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