Viaggi in moto: Laos, velocità media 15 km/h

Viaggi in moto: Laos, velocità media 15 km/h
Per visitare il Laos su due ruote sono indispensabili innanzitutto pazienza e occhi ben aperti; gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo in un paese dove la rete stradale è a tratti definita "diabolica"...
15 aprile 2014

Per visitare il Laos su due ruote sono indispensabili innanzitutto pazienza e occhi ben aperti; gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo in un paese dove la rete stradale è a tratti definita “diabolica” sia dalla guida lonely planet, sia dai suoi abitanti che mi hanno preso ripetutamente per pazzo quando capivano che provenivo in sella ad un motorino da una località distante magari solo 100 chilometri, che in Indocina sono una distanza pazzesca. Le distanze in Laos sono da conteggiare in ore, o giorni, e non in chilometri. Per andare, ad esempio, da Vientiane a Luang Prabang non si impiega meno di mezza giornata a dispetto dei poco più centocinquanta chilometri che li separano lungo una strada – la R13- famigerata per le imboscate ad opera di pochi sciagurati e asfaltata più per dovere che per convinzione e dove, come in tutte le statali laotiane, la velocità media si riduce a livelli trattoreschi per una serie di ragioni:

1. Mucche, bufali, galline, tacchini, cani e – perdonate l’accostamento – bambini sono imprevedibili e ce ne sono a milioni sguinzagliati senza controllo lungo tutte le strade: investirli e cadere è un attimo.
2. Il codice della strada semplicemente non esiste; supplisce alla mancanza un grande rispetto per le persone.
3. Buche, voragini causate dalle piogge monsoniche, lavori in corso dietro le curve, interruzioni di ponti a metà e conseguenti salti nel vuoto, cambiamenti di fondo (da asfalto a sterrato, fango, breccia, mezza breccia, sabbia e mine antiuomo) non sono segnalati, mai. E non lamentatevi più della Salerno-Reggio Calabria.
4. Sbagliare strada è obbligatorio. Se non lo fai, in Laos, non vale. Per aiutarti, le indicazioni sono quasi sempre nell’alfabeto laotiano e quando sono in inglese/francese o comunque in caratteri occidentali sono sbagliate una volta su due, garantito.
5. Il sole tramonta alle 18. Da quel momento in poi o hai fari potenti, o puoi (come mi è capitato) cercare al buio la strada che avevi percorso qualche ora prima e non trovarla nemmeno se l’hai sotto il naso. L’oscurità è totale e asfissiante, anche perché spesso non c’è illuminazione pubblica. Luci di posizione, di arresto, anabbaglianti e indicatori di direzione, sono vocaboli intraducibili in laotiano e quindi nessuno sa esattamente cosa siano.
6. Soste frequenti per ammirare gli sconvolgenti paesaggi e per salutare la gente che sorride cordiale ma soprattutto per riparare le forature. I laotiani se non fori almeno un paio di volte ci restano male.

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Detto questo, il Laos (parola che significa “un ombrello bianco e un milione di elefanti”: brillante esempio di sintesi e semplificazione tutta laotiana) mi ha dato l’impressione di un territorio dolcissimo e lento che puoi apprezzare solo se lo vivi allo stesso modo degli indigeni: a quindici km/h in sella al motorino a frizione automatica; un mezzo semplice ed economico, talvolta sgangherato ma perfetto da imbarcare nelle canoe che fanno la spola tra le due sponde del Mekong, il fiume che spezza in due e subito dopo unisce il paese come una cerniera, una spina dorsale che ne detta i ritmi e, secondo me, condiziona gli atteggiamenti degli abitanti. Il Mekong fluisce ineluttabile come il destino, quasi insensibile ai condizionamenti esterni e pigro: sembra che comunichi la sua filosofia a tutta la nazione instillando la convinzione che non c’è bisogno di angustiarsi o di ingegnarsi troppo per cambiare le cose, tutto avrà il suo naturale sbocco. I laotiani mi sono sembrati uomini molto rilassati e miti, restii a cambiare le consuetudini quotidiane per affrontare difficoltà e complicazioni che toglierebbero loro solo tempo e sorrisi mentre già sanno che lasciando fluire le cose nel loro alveo arriveranno naturalmente alla migliore meta possibile. Esattamente come il corso del Mekong.

Sono talmente disorganizzato che una meta vera non riesco mai a pormela e così nei primi giorni della mia permanenza inizio a vagare a casaccio per i dintorni di Pakse. Ovviamente, molto caldo e a quel punto una sbirciatina alle cascate dei dintorni è doverosa. Spettacolo fantastico e meravigliosamente selvaggio, le cascate sono comuni in Laos per la naturale morfologia del terreno: pochissimi turisti, qualche pescatore locale e tanta umidità fanno da cornice al rumore assordante del salto delle acque sopportabile fin ad un certo punto e dato che è ancora presto ne approfitto per dirigermi verso l’altopiano di Bolaven in cerca di alcune tribù locali e delle piantagioni di caffè, col motore dal fiato corto per le lunghe salite e una temperatura sempre più pungente: in effetti ero stato avvertito che l’altopiano di Bolaven ha un microclima tutto suo.
Poco male; grazie al freddo mi sento già intrepido, col mio scooter lurido di fango e falsa gloria su una strada della quale non m’interessa poi nemmeno tanto dove porti, l’importante è andare, arare con le ruote la distanza che separa il mio luogo di partenza dalla voglia di perdermi un po’.

Mentre ai lati della carreggiata scorrono le solite capanne di negozietti dietro le quali i proprietari condividono un piccolo giaciglio con il resto della famiglia e un paio di animali, un monsone di fine stagione (e quindi terribilmente fuori moda e impresentabile su qualsiasi patinata rivista da fashion biker) approfitta di un attimo di distrazione per entrare in scena: gocce delle dimensioni di un dado da 13 si spalmano sul viso, sputano rivoli di fango sulla strada e sono costretto a cercare un luogo asciutto dove ripararmi. Avrei potuto fermarmi ovunque, invece ho scelto proprio quella tettoia e quei tre gradini da salire per stare all’asciutto ed elemosinare un po’ di comprensione e di ospitalità ma qualcosa non torna: invece dei soliti riverenti indigeni intenti a cucinare zuppe, trovo dei ragazzi americani; uno di loro mi accoglie annunciandomi che sono il loro primo cliente. Si chiama Tyson, ha ventinove anni e un fisico da giocatore NBA. Insieme a tre connazionali ha appena aperto una coffee-house filantropica, parte di un più grande progetto per ridare alle popolazioni della zona il controllo sulla lavorazione del caffè. Unico laotiano lì dentro è “Jack”, ma sono sicuro che è un nomignolo per evitare qualche impossibile pronuncia. Parlando con Tyson vengo a scoprire che loro quattro sono in Laos da diversi anni con una associazione no-profit, senza guadagnare un dollaro ma impegnati a ridare alle popolazioni contadine le redini del comando sulla produzione e commercializzazione del caffè e utilizzano le risorse ricavate per fornire acqua potabile ai villaggi dei contadini e migliorarne stabilmente le condizioni di vita. Il loro caffè, preparato per infusione, è da applausi ma ancora di più lo sono gli intenti e la dedizione con la quale insegnano a Jack l’arte della tostatura: pochi secondi in più o in meno possono cambiare radicalmente gusto al macinato. Jack veste all’occidentale ma pensa come gli hanno insegnato e con molta pazienza impersona il ruolo di coltivatore, tostatore e commerciante del frutto delle sue terre. Io ne sono meravigliato e sorpreso e penso che, se funziona, qui in Laos sarà una piccola rivoluzione di sviluppo sostenibile a solo danno delle multinazionali.


Pochi giorni dopo, invece, mi convinco che non sarà proprio un bel niente. Rivoluzione impossibile, improponibile, forse nemmeno desiderata dagli stessi laotiani ma per spiegarmi meglio è necessario un cambio di scenario: ora sono nel nord del Paese in sella ad una Honda XR 125 a nolo, determinato a visitare con la motocicletta i villaggi di alcune etnie minoritarie che vivono nelle montagne. C’è un particolare che ho solo accennato e di cui non tutti parlano: il Laos è il paese al mondo più infestato da ordigni inesplosi (cluster bombs, mine antiuomo e altre meraviglie del genere). Le oltre 500.000 missioni di bombardamento aereo da parte degli USA durante la guerra d’Indocina hanno lasciato sul terreno parecchi milioni di cosiddetti UXO dei quali molti potenzialmente mortali altri volutamente a carica limitata ma sufficiente a mutilare, nella convinzione che un soldato o un civile ferito sia più dannoso di uno morto. La parte del Laos dove mi trovo adesso è una zona a rischio non elevatissimo ma non riesco a fidarmi e per uscire dalle strade battute senza correre azzardi inutili mi affido ad una guida in motocicletta che sa bene dove mettere i piedi e le ruote.

Mi inerpico così per la giungla lungo le colline a nord di una occidentalissima e sopravvalutata Luang Prabang (generalmente punto di partenza di tutte le escursioni e sede di molte agenzie di servizi turistici, compreso i noleggi di motociclette e adventure tours), verso la provincia dell’Udomxai: è tutto fuoristrada, sterrato, canaloni, guadi dove vengo spesso superato da veloci turisti bardati come guerrieri ninja in sella Honda CRF 250 e Yamaha YZF 250 che mi riempiono le narici di polvere ambrata. Ma piano piano la strada si fa sempre più stretta e i sentieri poco più larghi del manubrio, i turisti con le enduro diventano sempre più rari fino a sparire del tutto e il freddo fa capolino. Fino ad arrivare dove la traccia si spegne contro una parete rocciosa e Man, la guida, mi dice che di lì in poi si va a piedi. Sono circa le 12, sono in moto dalle 7 e già stanco ma oramai non posso tirarmi indietro. Abbandoniamo le moto lì, in fiducia che quando torneremo le troveremo ancora appoggiate alla parete rocciosa, e saliamo a piedi per un sentiero a gradoni. Le poche persone che incontriamo durante questo lungo trekking sono contadini che sfruttano le piccole valli per coltivare il riso e allevare bufali. Mezzi a motore, nessuno; del resto il sentiero è letteralmente impraticabile se non a piedi e in alcuni punti la vegetazione è così fitta che per passare devo stringere le spalle. Continuiamo attraversando corsi d’acqua e laghetti presso i quali vivono una manciata di persone allegre, qualche maiale e un paio di mucche e attraversando altopiani dai quali dominare le colline del Laos settentrionale sotto le quali brillano gli affluenti del Mekong. Molto bucolico. Alle 5 arriviamo a destinazione in un centro abitato da circa duecento persone, di cui almeno la metà sotto i tredici anni, con baracche col tetto in lamiera e capanne di vimini intrecciati. Man mi porta a conoscere le autorità del villaggio che con delle smorfie, spero sorrisi, ci invitano a mescolarci a loro per la cena.

Ovviamente con gli abitanti del villaggio è impossibile parlare e capirsi se non a gesti; sono fortunato ad avere Man come guida perché lui è uno di loro, un Hmong; in Laos esistono tre differenti ceppi linguistici e ognuno di questi è a sua volta diviso in almeno una decina di dialetti, questa eterogeneità è stata in passato fonte di una profonda incomprensione tra il popolo, diviso in oltre quaranta etnie, che ha generato guerre e conflitti interni. Oggi, grazie al programma scolastico governativo, si è arrivati ad un sufficiente grado di condivisione delle stessa lingua ma in queste zone remote nemmeno un laotiano può farsi capire se non parla il dialetto locale. Nonostante ciò, siamo accolti generosamente e senza diffidenza.
Il buio ci sorprende mentre le mogli con graziosa dignità ci servono una zuppa e la totale mancanza di energia elettrica rende la cosa un po’ romantica, quasi epica. Per loro è ovviamente normalissimo, i contadini non hanno energia elettrica se non con un generatore che accendono solo in caso di emergenza perché il gasolio è difficile da reperire, eppure conoscono benissimo l’esistenza di televisione, internet e telefonia cellulare e non sono affatto dei selvaggi imbarbariti dalla vita lontano dai centri abitati; temono gli UXO nascosti nel terreno (accendere un fuoco potrebbe scaldare un ordigno giacente anche a un metro di profondità e farlo saltare, accorciando una vita media che di suo non supera i sessant’anni). Gente felice, nonostante tutto diremmo noi; alle otto di sera, quando mi danno un giaciglio improvvisato e rialzato (per evitare i topi e gli animali), non reggo, chiudo gli occhi e mi addormento pure io al freddo di una capanna di vimini scaldato da qualche coperta, nel silenzio del buio assoluto trafitto solo dai miei acufeni. Una delle dormite più profonde e calme della mia vita cui segue un risveglio in un’alba fredda, una colazione a scelta obbligata – topi arrosto o uova: a me la carne di mattina non fa impazzire – e un incontro mentre raccolgo le mie cose: non conoscerò mai il suo nome ma rimarrò sempre colpito dal suo sguardo di giovanissima madre. A suo modo, mi chiede se ho cosmetici e medicinali generici ed io svuoto la mia trousse di quel poco che ho, interpretando i suoi gesti e le pochissime parole: teme per la salute del suo bimbo, dopo che ne ha perso uno per malattie che non ho capito bene; io sono scosso. Nel villaggio c’è soltanto una specie di terapeuta, un praticone di erbe e rimedi che per i piccoli malanni va benissimo ma per le malattie serie, quelle che dovrebbero essere curate con dei medici veri, è inadeguato. La voce di questa ragazza è un graffio sulla pelle, per quanto sottile e calma. Quando finalmente riesco a farmi capire le chiedo cosa succede quando qualcuno ha una malattia importante in questo villaggio dove un elicottero non potrebbe atterrare e un’ambulanza, o un’automobile, non potrebbe mai arrivare: lei esita, poi mima qualcosa con gli occhi chiusi: io capisco che la risposta è “lo lasciamo morire in pace” e se ci penso adesso è come se quel graffio di voce me lo dicesse in italiano.


Con le mani ghiacciate pigio le mie cose alla rinfusa dentro lo zaino e lascio in fretta questo villaggio di gente che ho capito non si sposterà mai dai propri luoghi, i cui problemi non sono quelli che presumevo e che non ha bisogno di nessuna rivoluzione perché è felice così, a un giorno di cammino dal primo centro abitato – scusate il termine – civilizzato nel quale non saprebbe nemmeno come vivere, come abitare e perché farlo. Tornassi qui tra dieci anni, troverei tutto com’è oggi e gli stessi sorrisi di ieri sera. Mi rassegno all’idea che se ci fosse bisogno di una rivoluzione in Laos, non sarebbe quella che potrei avere in mente io e forse nemmeno quella di Tyson e della sua encomiabilissima no-profit.
Man ed io scendiamo in canoa lungo un fiume per fare prima e nel pomeriggio ritroviamo le moto esattamente dove le avevamo lasciate, solo un po’ più umide; in Laos le cose non cambiano facilmente, nel bene o nel male.

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