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Era una notte buia e tempestosa.
No, peggio. Era un mattino di agosto caldo e noioso, di quelli che ti mettono voglia di fare le cose che trovi sempre una giustificazione matura per rimandare; gli impegni, il lavoro, la famiglia: poi viene un venerdì come questo e quelle cose che vuoi fare da tempo non hai più scuse per rimandarle. Se poi le fai in moto assieme ad un amico fraterno e sul sellino posteriore siede una ragazza speciale come Laura, si è pronti a sfidare il mondo, il caldo, la sete, la rabbia eterna di vedere la nostra amata Sicilia associata con facilità ai soliti luoghi comuni: la mafia, il mare, l’Etna e la caponata. Aggiungerei anche la guida senza casco.
Questo venerdì, un po’ perché mafia e caponata ci sono venute a nausea, un po’ perché d’estate il mare e l’Etna sono presi d’assalto dai turisti che lasciano poco spazio a noi autoctoni, abbiamo deciso di fare un po’ gli Indiana Jones e di dedicarci alla scoperta di qualcosa che di primo acchito potrebbe sembrare avulsa dalla Trinacria, piramidi. Sissignori: piramidi, in Sicilia.
Moto, casco, si parte lasciandoci alle spalle Catania.
Alle tredici siamo usciti dal casello di Fiumefreddo dell’autostrada Catania-Messina (il fiumefreddo esiste davvero: è l’Alcantara dalle acque effettivamente gelide come il ghiaccio) per salire verso Linguaglossa e scovare alcune delle controverse piramidi in pietra lavica che punteggiano il perimetro etneo: on line si trova tantissimo materiale informativo, spesso fantasioso e a volte ridicolo, che parla di queste costruzioni indicandone ubicazioni e presunte funzioni; probabilmente i nostri avi Sicani le avevano edificate in tempi remoti per ragioni di culto o di avvistamento dei nemici e sono state inglobate nel territorio diventandone parte integrante fino ad essere utilizzate come basamento per alcune costruzioni abitative, pure in tempi moderni: la Sicilia, è noto, è il tempio dell’abusivismo edilizio… oppure sembra, secondo alcune affascinanti teorie, che le piramidi servissero a generare una sorta di onda di risonanza che avrebbe dovuto impedire alle eventuali colate laviche di oltrepassare la soglia del perimetro dell’Etna ed evitare così che il magma raggiungesse i centri a valle: non lo so, ma se è così nel 1669 –anno della distruzione di buona parte di Catania ad opera di un’eruzione che durò da marzo a luglio– non devono avere funzionato tanto bene.
Ma aldilà dei dubbi e dei reali significati -magari esoterici- il piacere di vagare per le assolate campagne piene di viti dai tralci ricolmi di grappoli a maturare, con lo sguardo teso ad individuare qualcuna di queste piramidi, è immenso.
Alla fine di piramidi ancora in piedi e riconoscibili con certezza ne abbiamo incrociate poche ma l’itinerario percorso per cercarle non ci ha deluso: a Linguaglossa abbiamo passato la frazione Catena per raggiungere la strada divertente e in buone condizioni che collega Castiglione di Sicilia a Randazzo, punteggiata qua e là da aziende vinicole, immersa nel paesaggio aperto della Sicilia compresa tra i Monti Nebrodi ed i Peloritani che ancora adesso mi mette la pace dentro.
È ora di pranzo e non siamo contenti, non c’è da nasconderselo. Belle le strade e gli scenari, belle le pieghe che abbiamo fatto per accontentare le gomme, bella la gente che fa finta di appartenere ancora ad un’isola slegata dal resto d’Italia come nel dopoguerra, bello tutto ma eravamo qui per emozionarci con dei manufatti piramidali e -non vorrei essere tranchant- invece niente di entusiasmante a parte i panini portati da casa e consumati su una panchina all’ombra.
Rilancio: so io dove trovare una piramide, vera, grande e grossa, arroccata su un posto suggestivo. C’è un po’ di strada da fare e, sorridendo, averto tutti i componenti della missione che l’asfalto sarà serie oro e praticamente non c’è un rettilineo per i prossimi 70 chilometri. Tutti contenti.
Randazzo non è solo il cognome dell’avvocato nel famoso film di Benigni “Johnny Stecchino” (tra l’altro girato anche tra Taormina e Letojanni, a pochi chilometri da qui), ma è pure il centro dal quale parte la ss 120 che porta a Cesarò, comune alle pendici dell’Etna dove inizia la magnifica ss 289 che sale su per i Monti Nebrodi, li valica e arriva fino al Mare Tirreno passando per un paese che si chiama S. Fratello (gli abitanti parlano uno strano dialetto gallico: vi assicuro che pure noi siciliani non ci capiamo una benedetta) dopo avere incrociato il camioncino degli insaccati e dei formaggi, ideale per una pausa 100% colesterolo. Per la verità in cima ci attendeva pure la pioggia ma nessuno di noi ricordava di averle dato appuntamento. Il paesaggio cambia ancora, qui siamo nel bosco e si può scegliere se divertirsi con giudizio guidando per la tortuosa 289 o rilassarsi col motore che sbatacchia sottocoppia godendosi l’aria frizzante nonostante l’estate e i frequenti attraversamenti della strada da parte dei maiali neri dei Nebrodi: in quest’ultima eventualità non cercate di prendere vivi gli scontrosi suini, ma rintanatevi in uno dei ristoranti della zona dove vengono serviti già appetitosamente cucinati e porzionati.
Arrivati a S. Agata di Militello decidiamo di fare un po’ più in fretta e prendiamo l’autostrada Messina-Palermo fino a S. Stefano di Camastra per poi imboccare la statale 113 fino a Tusa, dove grazie all’iniziativa di un privato -si chiama Antonio Presti e invito tutti a dare un’occhiata alla sua biografia in rete-, è stato possibile installare nel territorio circostante una decina gigantesche opere d’arte (si chiama “Fiumara d’Arte”), liberamente fruibili da tutti per precisa scelta etica.
Una di queste incredibili e, a nostro modesto avviso, bellissime opere si chiama “Piramide - 38° parallelo”, una piramide di metallo poggiata sulla collina che sovrasta il mare nel territorio di Motta d’Affermo, esattamente dove passa il 38° parallelo, raggiungibile cercando i cartelli che la segnalano e inerpicandosi per una strada sterrata in cima alla collina.
Tralasciando un incresciosissimo inconveniente (protagonista il mio Morini: mi fermo per fare qualche foto. Non si accende più, bisogna cercare di farlo partire a spinta ma siamo sullo sterro) e le mie conseguenti accorate lamentele presso l’Onnipotente che spero non abbia sentito, la piramide è affascinante e noi siamo veramente ammirati dalla carica che il luogo trasmette: nell’opera ognuno può vederci i significati che vuole e comunque nulla toglie che un’alta e muta piramide in cima ad una collina con vista sul mare al tramonto renda digeribile pure il fatto che è ora di cena e noi siamo a circa tre ore da casa, con una delle due moto bastardamente in panne.
Sarà il rito solsistiziale che mettiamo in pratica, saranno più probabilmente gli sforzi miei e di Gianfranco ma riusciamo ad avviare il Morini e decidiamo di tornare a Catania nel più breve tempo possibile cercando di non spegnere più il motore se non per i rifornimenti di carburante. Ridiscesi sulla statale imbocchiamo l’autostrada Messina-Palermo e la percorriamo fino a Cefalù per poi percorrere –sono le 21– la Palermo-Catania. Tanto per non lasciarvi col dubbio che poi non ci dormite la notte: non so perché ma abbandonata la piramide al 38° parallelo il mio bicilindrico si è rimesso a funzionare come sempre, ovvero ubbidiente ma non troppo, permettendoci di raggiungere Catania senza ulteriori brividi.
L’autostrada Palermo-Catania sembra non finire mai, senza caselli né pedaggio, taglia in due la Sicilia da parte a parte; sembra promettere ma non mantenere di portarti a destinazione eppure giungiamo a Catania stanchi morti e l’orario giustificherebbe piuttosto che una cena, uno spuntino di mezzanotte. Rimane infatti l’ultimo, rigorosissimo, elemento tassonomico del nostro itinerario delle piramidi in Sicilia: la piramide di riso, ovvero l’arancino siciliano.
Secondo i racconti dell’enciclopedico Gianfranco, sembra che l’arancino sia nato grazie a Federico II il quale, ghiotto di riso, aveva chiesto ai cuochi di corte di prepararlo in modo da poterlo portare con sé nelle proprie frequenti battute di caccia: certe volte non si ringrazia mai abbastanza la potenza dei monarchi assoluti. Molti catanesi giurano che il miglior arancino si possa gustare presso lo storico bar Savia, in via Etnea, noi ci fidiamo ma per questa volta ne abbiamo preferito tre magnifici esemplari della arancineria di Serafino, cucinati sul momento e roventi al punto giusto.
Gianfranco e Laura sorridono con gli arancini in mano e le facce sconvolte: non è tutta colpa mia, il Morini ha il sensore del contachilometri rotto da più di un mese, esattamente da quella uscita in fuoristrada nelle Madonie…, e non saprei dire quanti chilometri sono stati necessari per guadagnarsi il piramidale desco; 400, oppure 500 ma cosa conta, a chi interessa, che senso ha la contabilità di quanto hai girato, la velocità che ha tenuto, i litri consumati? Abbiamo bighellonato ininterrottamente per quasi dodici ore in tre su due moto, toccando cinque province diverse, godendo di paesaggi affascinanti e questo non basta per meritarci un arancino dietro casa? Alla fine di questo itinerario, ho mandato al diavolo la caponata, il mare, la mafia, l’Etna e tutti i luoghi comuni: mi piace pensare ad una Sicilia diversa, pronta a meravigliarti e stupirti ad ogni passo, a uomini e donne profondamente siciliani e sorprendenti, a motori che sentono pure loro la magia dei luoghi e cercano di trattenerti il più possibile in posti suggestivi e unici.
Però, caro Morinone, la prossima volta che fai il testardo ti abbandono al 38° parallelo e chiamo un taxi.