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E’ buio, ma qui in Myanmar è la regola.
Buia la strada, buie le case e i cortili, nessuno accende una luce. Sembra che il buio faccia crescere il silenzio e allunghi le ore che separano dall’aurora.
In Myanmar (Birmania, per noi occidentali; i locali non amano che venga chiamata così in quanto retaggio dell’odiata dominazione anglosassone) l’energia elettrica è razionata e l’illuminazione pubblica quasi del tutto assente, chi vuole si dota di un generatore e provvede da sé.
Mandalay, la città dove mi trovo, è una metropoli popolosa e allegra; no: è un’enorme periferia di un milione di abitanti che si riversano in strada, nelle taverne, lungo il perimetro del fossato pieno d’acqua del palazzo reale. Immaginate un quartiere periferico della vostra città, uno di quelli degradati con i marciapiedi (quando presenti) sconnessi e le strade con l’asfalto in pezzi: questa, escluse poche aree, è Mandalay, Myanmar: un milione di anime.
Ai birmani non importa. Loro sono affabili, cortesi, sorridenti. Rassegnati ma non servili al regime che li tiene in pugno e che rende impronunciabile in pubblico il nome di Aung San Suu Kyi, la grande leader dell’opposizione democratica; per tutti è "the lady".
Cammino lungo una delle poche strade decenti in cerca di un posto dove mangiare con una torcia in mano col duplice scopo di segnalarmi alle automobili che incrocio e di non cadere nei canali della fogna a cielo aperto che solcano i marciapiedi.
Non è la prima volta che qui in Myanmar cammino la sera da solo, eppure poco fa mi sono sentito osservato, spiato, non so bene a chi e perché e per stavolta ho deciso di non addentrarmi nei vicoli, rimanendo ai margini del quartiere che intendevo esplorare. Sono appena arrivato a Mandalay e capisco subito che qui non è Yangon, dove c’è molto più denaro in giro e la popolazione non sembra disperata.
Cammino, e sono solo. Ho fame, magari non importa a nessuno ma quando hai fame ti sembra che il tempo e le distanze si allunghino e perdano il loro significato, una sensazione che in Birmania è costante: in generale i Birmani non hanno alcuna dimestichezza con le unità di misura e quello che ti indicano essere a un chilometro potrebbe trovarsi tranquillamente dietro l’angolo, oppure ciò che richiede una somma di 1000 kyats (circa un Euro) ne abbisogna 5000, per non parlare del tempo: in Birmania le stagioni sono tre (inverno, estate, stagione monsonica) ma se chiedi in giro nessuno ti sa dire esattamente quando incomincia l’una e finisce l’altra; in definitiva, c’è poco da meravigliarsi se un luogo indicato a venti minuti di auto lo raggiungi dopo mezza giornata trascorsa a bordo del motorino.
Nella testa ho queste riflessioni mentre cammino al buio lungo il fossato che costeggia il ricostruito palazzo reale. Ho fame, caldo nonostante sia sera, un po’ intimorito dall’accoglienza rude e spiccia di questa città; è già tardi e le strade si sono svuotate di gente a piedi, passano solo le automobili e i motorini cinesi.
Poi arriva lui.
Mi affianca col suo Honda Cub 90 versione cimelio di guerra mentre cerco di attraversare un incrocio, non ha il casco che pure sarebbe obbligatorio, mi guarda e fa "What can I do for you, Sir?". Non mi chiede da dove vengo, non mi sorride per accattivarsi la mia benevolenza, ha certamente capito che si trova di fronte un uomo che sta avanzando a tentoni per una città non ostile ma ruvida come i suoi vicoli sterrati.
Sono le 22 di una sera di ottobre e io sono da solo in mezzo ad un incrocio con una torcia in mano. "Portami a mangiare qualcosa", la pancia prima di tutto.
Lui si chiama Ashi, è un Birmano di origini indiane e di religione musulmana in un paese per la quasi totalità buddista (c’è pure una ristretta minoranza cristiana, ma il regime impedisce agli stranieri di entrarvi in contatto vietando l’accesso alla regione Chin che la ospita). Ashi ha una barba brizzolata e uno sguardo da cerbiatto, fai presto a fidarti di uno così e in un attimo mi accomodo sul portapacchi del suo motorino. Non c’è bisogno di contrattare, so già che il passaggio sarà a pagamento ma a me interessa mangiare e conoscere la gente che vive qui, cercare di entrare nella loro quotidianità e capirli per quanto le condizioni me lo consentano. Ashi mi chiede se mi piace il cibo indiano, io replico che per me va bene tutto purché il posto sia pulito. Ho già avuto la diarrea del viaggiatore e il bimixin qui non lo vendono.
Dopo un quarto d’ora abbondante speso alla sola luce del minuscolo faro dell’Honda Cub, approdiamo in una taverna all’aperto, piena di persone che producono un chiasso in lingua birmana che sembra quello di una trattoria di paese italiana durante la finale dei mondiali di calcio, mi pare pure di carpire qualche parola in siciliano ma sono soltanto scherzi della suggestione.
Scendo dal motorino e seguo Ashi sotto la tettoia. Il chiasso si riduce fino al livello del minimo di un quattro cilindri giapponese, poi tutti tacciono e mi fissano. Prima me, poi Ashi.
Sono l’unico straniero in una trattoria popolare in una città popolare di un paese lontano, ci sarebbe da spaventarsi. Invece dopo pochi istanti tutti si aprono in sorrisi, e Ashi si pavoneggia della compagnia di un ospite inconsueto come me, un occidentale. Brutte facce ma brava gente, i birmani.
Ci sediamo ad un tavolo e un capannello di persone mi circonda, mi studia. Ashi li manda via con un cenno della mano e uno sguardo eloquente, mi chiede cosa desidero mangiare e alla mia risposta “fai tu” sorride e chiama il proprietario, scambia alcune battute in birmano e poi si rivolge a me. Mi chiede cosa faccio, dove vivo, perché sono lì, quanto tempo rimarrò, in quale albergo alloggio, come sono arrivato fino a Mandalay. Alle incalzanti e a tratti quasi innocentemente infantili domande dei birmani ci sono già abituato, però lui ha un guizzo in più, capisco che riflette, osserva, vuole scambiare le sue esperienze.
Io vuoto il sacco: gli racconto che qualche giorno prima ero a Yangon, la città dove è vietato andare in moto perchè il regime militare vuole evitare che la gente possa spostarsi velocemente senza controllo e di come ho passato un brutto pomeriggio in una caserma della polizia a causa della mia testardaggine nel cercare un motorino in affitto. Volevo andare fino al Golden Rock, a 120 miglia di distanza da lì. I militari mi hanno prelevato dalla strada e minacciavano di mettermi in galera o rimpatriarmi; solo la mia vaga somiglianza con Del Piero ha rotto il ghiaccio e consentito una soluzione serena della questione. Già: in Birmania il calcio italiano è seguitissimo. Ashi spalanca gli occhi e mi chiede se i militari mi hanno seguito, forse si spaventa un po’ di avere contatti con uno straniero che potrebbe essere benissimo un sovversivo (o, peggio, un giornalista) e teme le conseguenze. No, non credo che i militari mi seguano ancora, mentre sono certo che lo abbiano fatto quando, uscito da Yangon, ho affittato un motorino e percorso le rimanenti 75 miglia che mi separavano dal Golden Rock.
I birmani non sanno niente del loro paese, non sono informati, alcuni non sanno nemmeno dove sia l’aeroporto più vicino, tanto non importa, il passaporto non viene rilasciato se non in casi motivati. Chissà quali casi motivati; Ashi è una spugna incredula, chiama un suo amico per fargli ascoltare la mia storia, per loro inimmaginabile o, forse, cruda conferma delle loro sensazioni su cosa succede nel loro paese al di là del loro ristretto ambito locale.
Continuo: anche in mezzo alla giungla, in quelle strade mezze asfaltate e mezze no, dove il motorino arranca a sessanta all’ora cercando di non cadere per gli animali vaganti come mine e per l’assenza di regole, ci sono check point dei militari; mi fermano, cortesi ma irremovibili, fanno un controllo formale e mi ammoniscono di non fermarmi lungo il tragitto e di non fare foto. Chiarisco ad Ashi che mai i militari si sono permessi di passare il limite che separa i modi spicci dalla violenza, lui annuisce e da come lo fa capisco che probabilmente, in passato, non era sempre così.
- "You really got the Golden Rock with the bike?"
Sì, Ashi, ci sono arrivato veramente. Non è difficile, basta arrivare al campo base di Kinpun, fare mezz'ora di camion in mezzo alla giungla e un’altra mezz'ora di scalata del monte a piedi. Poi, il luogo mistico e di pellegrinaggio dei buddisti più famoso del paese si apre in tutta la bellezza ed eccentricità. Il Golden Rock è una grossa roccia dorata in bilico (si dice tenuta in equilibrio da un capello del Buddha) sulla cima di un monte dal quale si governa la valle sottostante. Molto suggestivo. Lo sarebbe stato meno se non avessi tardato a prendere l’ultimo camion che scendeva al campo base e quindi costretto a camminare per circa un’ora e mezza in mezzo alla giungla, ovviamente al buio. Ashi e il suo amico ridono, mostrando i denti rossi di Betel. Sembrano aver succhiato il sangue ad una vergine, invece è solo una noce di radice della pianta del Betel avvolta in una foglia e lasciata in bocca per mezzora o più. E’ il loro vizio più comune da secoli: dà un senso di blanda euforia e stordimento ma lascia i denti e la bocca di color rosso sangue per tanto tempo.
Passo al contrattacco, voglio smettere di parlare per avere tempo di mangiare le pietanze che il taverniere indiano mi ammannisce sul tavolo traballante col sottofondo del generatore elettrico. Chiedo ad Ashi cosa fa, quanto guadagna, chi sono queste persone che sono ancora qui alle 23 mentre, per esperienza diretta, so che la vita in strada nel Myanmar inizia verso le 5 al mattino per concludersi alle 18 col tramonto e l’oscurità della sera.
Ashi ha 47 anni, ha perso la madre e il padre, non ho capito bene per quale malattia, quando era giovane. Lui fa il sarto e guadagna circa quattro euro al giorno. Il necessario per campare se stesso, ma non abbastanza per le esigenze della famiglia. Sua moglie è cameriera in un albergo e prende circa venticinque euro al mese, sua figlia pure ma prende molto meno. Per dare un ordine ai valori, vi dico subito che pagherò questa luculliana cena indiana circa tre euro, senza rinunciare a nulla.
Fare parte della minoranza musulmana non è un problema per nessuno, qui, mi spiega, sono tutti fratelli. Della situazione politica non vuole nemmeno accennare e io non chiedo nulla. Sa che all’estero si sta meglio (mica tanto, penso io) e spera di riuscire ad andarsene in Olanda con la famiglia, prima o poi. Olanda? Sì, Olanda. Dice che l’Europa viene vista dai Birmani come una terra promessa e forse è proprio per questo che il calcio italiano è molto seguito. Uscire la sera è un ottimo modo per cercare delle nuove occasioni di lavoro, che qui scarseggia ed è mal pagato. C’è l’approdo al fiume, dove arrivano i battelli con le merci, dove cercare un’occupazione temporanea ma il massimo è trovare qualche sperduto turista e offrire i propri servigi di guida per qualche ora. Gli occidentali sono rari, anche se da qualche tempo l’apertura di un grande albergo ha portato molti viaggiatori a Mandalay e io per lui, mi confessa, rappresento un trofeo da esibire al resto della trattoria, che magari pensa che lo stia pagando profumatamente. Ashi è orgoglioso e schietto e rifiuta di cenare con me, vuole soltanto parlare. Mi racconta che è la prima volta che conosce un italiano ed è pure la prima volta che un turista gli racconta di avere girato in motorino per il suo paese e a quel punto mi chiede cosa intendo fare domani, nei prossimi giorni.
- I need a motorbike, Ashi.
Non c’è problema, mi risponde, ti affitto il mio motorino.
Ashi, amico mio, sarò occidentale ma non sono ancora pazzo come voi. Ho visto il tuo Honda Cub, è male in arnese e non credo riuscirebbe a portarmi prima in giro per le città reali e poi a Bagan.
- Bagan!!???
- Yes, Bagan.
Il mio amico musulmano mi dice che sono matto, da Mandalay a Bagan in moto saranno almeno 8 ore di viaggio e non su autostrade ma su sconnessi tratturi pieni di imprevisti. Nessuno che lui conosce lo farebbe mai con un motorino a quattro marce a frizione automatica.
Fa strano farsi prendere per matti da un birmano abituato a girare di notte con un Honda Cub scassato, in strade senza alcuna regola certa (tanto per dirlo, le macchine hanno il volante a destra come in UK ma la guida è come da noi, a destra, anche se non tutti lo ricordano. Vi lascio immaginare la confusione), da uno che certamente circola con moglie e figlia sullo stesso sellino, e che, come tutti qui, usa più il clacson che il freno. Mentre mangio l’ennesima portata di curry indiano, Ashi riflette. Poi mi guarda e propone di venirmi a prendere in albergo domani mattina per cercare un motorino adatto a quello che voglio fare. Ovviamente accetto all’istante, col tono di chi ha trovato cento euro per terra.
La mia cena è finita, Ashi ha accettato di bere con me uno yoghurt acido che mi dice essere il complemento perfetto per una cena così abbondante, salutiamo tutti e ci dirigiamo verso il motorino. Mi dice guida tu.
Non me lo faccio ripetere, inforco lo scooter e piano piano mi avvio, chiedendo la strada per l’albergo al mio navigatore.
Il freno anteriore, esattamente come sull’Honda Wave che avevo affittato per andare al Golden Rock, è praticamente inutile: assente, vabbè. Basta andare piano, mi dico.
Al momento di lasciarmi in albergo, Ashi accetta che gli paghi il passaggio e mi fa una richiesta inconsueta: mi dice se ho delle penne biro, sapone, dopobarba, o qualcosa del genere da dargli. Per lui sarebbe più del denaro, mi dice. Il fatto è che in Birmania, vengo poi a sapere parlando con altri locali, tutto quello che è occidentale è un bene di lusso, basta che sia marchiato con un logo occidentale. Un sapone, di quelli piccoli che danno in albergo, è un bel regalo per sua figlia; un flacone di dopobarba da viaggio come quello che gli ho poi regalato, una vera e propria sciccheria da centellinare.
Ci rivediamo l’indomani, Ashi è puntualissimo e mi porta downtown dove ha già organizzato tutto: tre motorini mi attendono di essere provati e scelti per il mio tragitto nel Myanmar centro-occidentale che presumo sarà di circa 600 miglia. Li provo tutti ma a parte le differenze di cilindrata una cosa li accomuna tutti e tre: tirare la leva del freno anteriore dà luogo solo ad un blandissimo rallentamento. Me ne lamento coi proprietari, che si guardano increduli rimandando la palla ad Ashi che mi spiega come frenare in Birmania sia pericoloso, specialmente col freno davanti e il fondo sterrato sdrucciolevole. Bisogna lasciarsi trasportare dalla corrente dei veicoli, dalla brulicante fiumara di persone a vario titolo presenti sulle sconnesse strade delle città con auto, bici, trishaw (bicicletta con seggiolino affiancato che viene utilizzata come trasporto a pagamento) e motorini. Ci sono almeno trecentomila motorini come questi, a Mandalay. Non puoi permetterti di frenare bruscamente, di essere la trombosi di un sistema circolatorio caotico ma rodato ed efficiente, fluido e praticamente privo di incidenti nonostante l’apparente assenza di codici di comportamento stabiliti e normati. In Myanmar tutti tolgono o rendono inservibile il freno anteriore, mi spiega il mio cicerone musulmano.
Inizio a capire solo adesso cosa voglia dire vivere in Birmania: Il tempo, i luoghi, le costanti matematiche, assumono significati diversi e diventano stati allotropici dei loro concetti originari quando percorri un’autostrada a due carreggiate divise da tentativi di spartitraffico, senza regole codificate, senza recinzione; strade dove è possibile fermarsi lungo il cammino per acquistare del curry e mangiarlo seduti sul ciglio, fermarsi e comprare una bottiglia di benzina nelle bancarelle (perché la benzina sarebbe razionata ma la trovi al mercato nero a prezzi migliori di quelli dei distributori statali), trovare il riso steso ad asciugare occupare metà della corsia di destra. La corsia di emergenza non c’è perché in Birmania tutto il traffico è in costante emergenza e qui ci si mobilita o ci si ferma solo per un avvenimento classificato come tragedia. Forare una ruota non è un’emergenza, è solo un contrattempo risolvibile nella corsia di sorpasso; il carico che si rovescia in autostrada e la invade è una fatalità da prendere col sorriso; trovare un camion contromano è una circostanza neanche tanto imprevista, come fai a dire di no a uno che guida col sorriso stampato in faccia? Attento, c’è una mucca.
Qui, si fa presto a realizzare, ogni velocità superiore ai 60 è potenzialmente suicida. Eppure, in dodici giorni sulla strada non vedrò mai un incidente, perché vige un solo principio: non cercare di fare del male a nessuno e nessuno farà del male a te. È semplice. Basta sorridere.
E’ stato nel momento in cui ho capito l’inutilità delle mie superflue sovrastrutture che mi sono veramente integrato nel flusso del traffico birmano, che ho capito che devo frenare col clacson e che se tutti levano il freno anteriore al motorino fanno bene. E’ pericoloso con tutta quella polvere per strada.
A questo punto non ho più bisogno di fare o farmi domande, basta mettere da parte le mie opulente certezze occidentali e godermi il viaggio, i birmani e la polvere tiepida che mi invade le narici.
Ashi comprende che, finalmente, sono entrato nel loro ordine di idee mi sorride e accetta, lui che fino ad adesso è stato l’unico birmano ad avere rifiutato di farsi fotografare, che gli scatti una foto.
Prendo il motorino che mi sembra migliore, un Kembo 125 cinese, carico il bagaglio assicurandolo con dei lacci e parto: Ashi mi chiede quando tornerò e gli dò appuntamento per il giorno in cui dovrò riconsegnare il Kembo al proprietario e prendere il primo dei quattro voli che mi porteranno a casa; allo stesso tempo tento di pagarlo per la mattina persa ma lui mi guarda e dice che non vuole denaro, lui è qui "just for friendship" e mi dà il suo casco (una scodellina che in Italia sarebbe così fuori norma che la polizia si metterebbe a ridere) insistendo sul fatto che ci tiene che lo indossi. Glielo restituirò al mio ritorno a Mandalay, gli dico mentre accendo il motorino e ci salutiamo con un cenno del mento.
Ashi, 47 anni, musulmano, sarto, motociclista birmano per necessità. Meno di quattro euro al giorno di reddito e una famiglia alle spalle. E’ qui "just for friendship".
Le cose andranno diversamente.
Dopo il giro delle città reali (Amarapura, Sagaing, Inwa, Mingun, Paleik), due giorni dopo parto per Bagan che sulla carta non dista più di 200 miglia, forse ancora meno. Il tragitto è allucinante, le strade incredibilmente pessime e i militari presenti come funghi dopo la pioggia. Arrivo a destinazione dopo oltre dieci ore dalla partenza col carter del motorino che perde olio e la bella sorpresa che a Bagan e dintorni i militari non consentono agli stranieri di andare in moto. Qui è così, le leggi non c’è bisogno di comprenderle se vuoi vivere tranquillo.
A quel punto rivoluziono tutto il programma: il giorno successivo al mio arrivo a Bagan spedisco il motorino via fiume (casco compreso) al proprietario che lo andrà al prendere al molo, cambio il volo aereo e non tornerò più a Mandalay, molto a malincuore. Visiterò Bagan a bordo di un calesse a cavallo.
Non rivedrò più Ashi.
Per le prime mattine la polizia staziona di fronte il mio albergo per vedere se esco in motorino. Io prendo il calesse, sorrido e loro fanno la faccia seria, ma si vede che sono anche un po’ divertiti.
Bagan mi vedrà aggirarmi per alcuni giorni attraverso il suo stupendo e monumentale sito archeologico e il 7 ottobre farò ritorno a Catania.
Ho provato a ricontattare Ashi da casa, chiamando il numero di cellulare birmano di chi mi aveva affittato il Kembo 125.
Purtroppo in Myanmar le comunicazioni con l’estero sono scoraggiate e praticamente vietate.
Mi rimane la foto.
Antonio Privitera