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Valparaiso, 18 Gennaio. Una vittoria perfetta, bellissima. Una di quelle che racchiudono un colossale carico di impegno, di attesa, di tensioni che si sommano, di risposte a domande poste molto tempo prima e quesiti che emergono giorno dopo giorno. Un capolavoro di bravura. Marc Coma è un Campione straordinario, una persona che riesce a esprimere un insieme di caratteristiche che sono squisitamente sportive e umane allo stesso tempo, e che confluiscono in un risultato globale che va immancabilmente al di là del puro gesto agonistico. Nella sua gara, in tutte le sue gare, c’è lo spessore di un confronto che le sue doti portano su un livello ancora superiore. Dalle situazioni più difficili e intense Marc riesce a distillare il senso migliore dell’esperienza sportiva, e proprio per questo le sue vittorie riescono a dare agli eventi che vince una superiore qualità.
«È andato tutto bene. Tu lo sai, è stata una gara durissima ma sì, ce l’abbiamo fatta, questa è la cosa più importante. Da quando siamo in Sud America con la Dakar, questa è stata l’edizione più difficile. Questo è sicuro».
Come l’hai vissuta, soprattutto all’inizio, dopo due anni?
«Non ho fatto in tempo a pensarci. Sapevamo già che la prima parte di questa Dakar sarebbe stata dura. In più, è così, i giovani che partono a manetta, tutti motivati, Marche diverse, e la gara un po’ particolare, soprattutto i primi giorni. Con tanta montagna, molta guida, molto pilotaggio, non era proprio quella gara nel deserto dove siamo abituati a correre e dove ti senti comodo, a tuo agio. Allora, la prima settimana abbiamo cercato di correre con la massima tranquillità, sapendo che ci aspettava una gara lunghissima, e che bisognava assolutamente evitare di partire a fuoco, ma cercare di stare un po’ più calmi».
E finalmente nel deserto, come ti sei sentito?
«Dopo meglio. Ogni giorno meglio fino a che non è arrivato il giorno che mi sono ammalato. In Bolivia. Mi è venuta la febbre, e ho perso la voce. Sono stato tre giorni in quelle condizioni. Già la Dakar è difficile, ma in quelle condizioni lo è ancora di più. Quando sei davanti ti senti addosso una pressione particolare, ti viene la paura di commettere degli errori. Senti come se la testa non ti lavorasse troppo bene, e cerchi di stare il più concentrato possibile per non sbagliare. Sono stato così per tre giorni, cercando la massima concentrazione, quasi come un monaco, in una specie di clausura. Tre giorni che quando finiva la tappa me ne stavo chiuso nel camper, cercando di prendere per me tutto il tempo che potevo per recuperare. Così, perché mi sono detto, sennò qui non arriviamo alla fine».
Anche questa Dakar ha dimostrato che partire a testa bassa, all’attacco, non serve a niente. Bisogna sempre pensare un po’ più avanti, ai tredici giorni che ti aspettano…
«Sì, ma sai, alla fine ognuno fa la gara che pensa che sia migliore per lui, ognuno fa la sua gara. Per noi questo discorso era chiarissimo. Era chiaro che era così, che bisognava guardare sempre avanti, guardare con la testa».
Dopo due anni, è una vittoria che ha un sapore particolare?
«Sì, sicuro, perché se guardo a un anno fa, mi vedo a casa con un braccio che praticamente non… andava, che non potevo guidare una moto. Tornare qua, allo stesso livello di prima, e vincere, sì, fa diventare la vittoria… tanto… tanto speciale».
E la moto ha dimostrato, anche quella, le sue qualità…
«La moto. Il discorso che abbiamo fatto noi, con tutto il Team, era chiaro anche quello. Sappiamo che l’affidabilità è il punto chiave. Magari non abbiamo lavorato molto con le prestazioni, con la tecnologia, non tanto su quelle cose misteriose. Alla fine, non sto qui a dire se servono o no, ma quello che serve alla Dakar è una moto che non si rompe e che va».
Sei contento di essere tornato a correre con Jordi Viladoms?
«Sì, con Jordi abbiamo fatto proprio un bel lavoro. Quando abbiamo perso Kurt è stato un colpo durissimo, perché Kurt era uno speciale, non solo un Pilota, era uno della famiglia, uno che aveva grande carisma, che ti faceva sentire dentro. Ma si deve cercare sempre qualcosa di positivo. Ed è Jordi, che arriva e torniamo a lavorare insieme. Mi ha aiutato più di quanto si sia visto o di quanto la gente può pensare. Quando ero malato, era la tappa marathon, è lui che ha fatto la meccanica alla mia moto, ed una persona che ti porta un po’ di calma, che sa aggiungere sempre qualcosa di buono».
Quale è stata la tappa più difficile?
«Alla fine, la quinta. Quella di Chilecito, dove però ho potuto fare la differenza e andare in testa. Penso che la più difficile sia stata in ogni caso quella».
Vogliamo dire qualcosa di Barreda?
«Penso che il ritmo che può tenere lui, qui non ce l’ha nessuno. Quando andava a manetta faceva paura. Ti prende nove, dieci minuti. Per me è stato il rivale fino a un giorno dalla fine. Fino a Copiapò lui era il Pilota che era lì».
Quando avete deciso di cambiare il motore, non eri un po’ in ansia?
«No. Io pensavo che saremmo arrivati fino alla fine con lo stesso motore. Ma quando sono andato in testa di cinquanta minuti, il Team ha deciso che si poteva cambiare, che avevamo un buon margine di sicurezza, e lo abbiamo fatto. Abbiamo gestito anche quest’aspetto della gara, credo, molto bene».
Penso che la Dakar debba essere dura, ma anche che trovare il limite a priori non sia una cosa facile
È giusta una Dakar così dura, o è troppo?
«Io credo che sia stata la più dura del Sud America. Penso che la Dakar debba essere dura, ma anche che trovare il limite a priori non sia una cosa facile. Per gli organizzatori è un compito molto difficile. Per le moto è stata davvero difficile. Per le macchine molte tappe erano diverse, e questo ha significato che in quei giorni per noi è stato davvero un inferno. Va bene andare sul tecnico, è un bene per la sicurezza, ma per contro, fisicamente è un impegno enorme».
E la Bolivia?
«La Bolivia è stata molto bella. Il problema della Bolivia è che stai sempre sopra ai tremila metri, e non c’è l’aria. Erano i giorni che ero malato, e ho fatto fatica».
L’entusiasmo in Bolivia, e negli altri Paesi?
«Sono tutti molto appassionati. Quest’anno abbiamo scoperto l’entusiasmo boliviano, e ogni anno che visitiamo un nuovo Paese, l’aspettativa è molto alta».
Insomma?
«Penso che sia stata una vittoria davvero molto speciale. Contro la Honda, contro Cyril con la Yamaha, con l’incidente di Kurt prima. Per me non è solo il quarto successo, è una vittoria a parte, molto importante».
Già, Cyril, alla fine correvate quasi insieme.
«Abbiamo un ritmo simile, e quando sono arrivate le tappe di deserto partiva lui dietro a me, o io dietro a lui, così alla fine è facile che si viaggi insieme. effettivamente siamo andati avanti insieme!».
Sei contento della vittoria di Nani?
«Sì, veramente sì. Mi dispiace un po’ che con tutto quel trambusto degli ordini di scuderia qualcuno ha voluto togliergli del merito. Questo non mi è piaciuto tanto. Nani ha fatto una bellissima gara, e non ha commesso errori».
A adesso? Già programmi?
«No, no riposo, non abbiamo fatto programmi e intendo stare un po’ rilassato. Spero di fare ancora una stagione “normale”, lavorare con la moto, il Campionato del Mondo, andare a correre in Sardegna…».