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Il fatto che una banda di cialtroni travestita da team sia apparsa come una cometa, e come una meteora sia sparita lasciando alle sue spalle una scia di polvere tutt’altro che stellare, non autorizza a cancellare di default i risultati comunque ottenuti. Della banda abbiamo in serbo una succulenta storia di cui riparleremo tra non molto, dei risultati invece ci preme occuparci subito perché la dimenticanza travolge l’incolpevole Alessandro Botturi. Nell’articolo di un settimanale si richiama l’attenzione su una sorta di sindrome da scarso rendimento e latitanza da parte degli italiani, e la tesi poggia sull’informazione secondo la quale dal 2007 più nessun italiano è riuscito ad entrare nei primi dieci di una Dakar. Tesi inquietante ma dato sbagliato, poiché nel 2012 Alessandro Botturi, alla Dakar del suo debutto, ha concluso all’ottavo posto, ribadendo negli anni successivi, per esempio con il podio sfiorato a due giorni dall’epilogo, che lui sì non è una meteora né una “figura” di cui si possa evitare di conservare traccia nella memoria.
L’errore, o la dimenticanza, il lapsus o la memoria “vecchia” da Alzheimer ci stanno tutti, io per primo a volte impatto in sbagli madornali e talvolta li ritrovo e posso correggerli solo per caso (bellezza dell’imperfezione umana!) quindi prendo l’errore altrui non per puntualizzare o condannarlo ma solo come pretesto per parlare d’altro, o meglio dello stesso argomento. L’altro articolo è nelle nostre pagine, e dal succo di un’intervista a una vecchia gloria si deve dedurre che Botturi ha scelto in modo sbagliato o le persone sbagliate, e per questo non ha cavato un ragno dal buco suo malgrado dalla Dakar di quest’anno. Anche questo caso torna qui a galla, non tanto per sostenere la bontà delle scelte del Gigante di Lumezzane ma, ancora, come pretesto per aiutarci a definire quel contesto di cui vogliamo parlare: gli italiani.
Gli italiani alla Dakar sono dunque una formazione ridotta. Da anni. Per la verità, proporzionalmente, potremmo dire da sempre. Carte alla mano, non hanno lo spessore numerico dei francesi né la caratura degli iberici. Sul fronte della “spinta” non abbiamo Case impegnate direttamente (e nemmeno indirettamente), sponsor interessati a investire cifre importanti negli “azzurri”, squadre che lavorino in tal senso né federazioni impegnate a promuovere e portare italiani alla Dakar. Dall’altra parte c’è la Dakar, uno dei più grandi sogni del motorismo moderno, ma anche una spietata belva mangia-soldi a tre teste, una macchina trita-risparmi dalla raffinatezza meccanica di un orologio svizzero e l’efficacia devastante di un caterpillar.
Vista così bisognerebbe quasi essere contenti che la Dakar, invece che attrarre una moltitudine di italiani, non riesca a stritolarne che una manciata all’anno. Certo non sono più i tempi degli Orioli e delle armate che avevano piloti, team e basi in Italia, ma soprattutto sponsor fantasmagorici che investivano proprio in Italia a ragion veduta, e non mi pare che ci possa essere molto spazio nemmeno per i precursori di quelle armate, per i pionieri come Papi e Ormeni che avevano prima sofferto durante la semina ma poi raccolto successo, vittorie e fama. Oggi da noi non ci sono soldi e non si capisce dove si potrebbe andare a cercarli. E quindi la realizzazione di una Dakar è nei salvadanai di coloro che sognano di farla.
Francia e Spagna vivono situazioni molto diverse, anche tra loro. La Dakar è nata in Francia, e il furore che ha innescato la sua leggenda è ancora molto forte in quel Paese. Forte ma neanche parente del furore dei decenni d’oro, eppure la Dakar in Francia può ancora contare su un buon numero di sostenitori, di televisioni, di sponsor e, di conseguenza, di… spiccioli.
La amano ancora in molti, e moltissimi si ricordano dell’effetto emotivo che ha generato e trasmesso da una generazione all’altra. In Francia ci sono ancora figli che fanno la Dakar perché l’hanno sognata i padri. In Spagna, invece, il successo della Dakar è stato generato dalla passione smisurata di alcuni semplici ma geniali individui, che hanno trovato gli sponsor e hanno investito talvolta anche la camicia per realizzare un programma.
Da quei programmi sono nate le vittorie di Roma e poi di Coma, non a caso legate allo stesso filone, e quelle vittorie ribadite negli anni hanno messo in forte movimento un volano che gira ancora oggi. Da noi il fenomeno è meno radicato. Anzi, possiamo dire che la passione per la Dakar è stata un po’ come la passione per la vela quando c’era Azzurra o il Moro di Venezia, per il cross dei tempi di Rinaldi e di Puzar, e ora di Cairoli, per la Ferrari dei cicli vincenti.
Un fenomeno ciclico, appunto, legato a investimenti (che oggi sembrerebbero fantascientifici) da parte di sponsor particolarmente munifici, leggi la serie dei tabaccai, e che ha alimentato anche una enorme spinta mediatica. Sparite le condizioni di lavoro di quegli sponsor tutta la nuvola si è sgonfiata, al punto che ancora oggi se ne subisce la conseguenza di un potente contraccolpo. Ecco perché la Dakar è nei salvadanai di chi la sogna.
Gli italiani che possono, o sono disposti, a spendere le cifre necessarie per partecipare a una Dakar (e non dimentichiamolo, a dedicarle il tempo tiranno che esige durante un intero anno di preparazione) non sono evidentemente molti, e non è necessariamente una questione di saper soffrire, né deve essere una colpa. Molti già soffrono abbastanza, oggi, solo per portare la pagnotta a casa.
Ecco perché la Dakar è nei salvadanai… e gli italiani che fanno la Dakar sono poche isolette nell’oceano di una passione che, purtroppo, è principalmente molto esigente. Lo sapeva anche Fabrizio Meoni, che era stato capace di unire qualità eccezionali come il talento, una forza straordinaria e un carattere d’acciaio, di impostare la propria vita in funzione del sogno e di viverla… al contrario per poter lavorare e andare presto in pensione per potersi dedicare completamente a realizzarlo.
Poi salta fuori la storia del Motorally. Salta fuori che non è una disciplina adatta a formare i dakariani, che le gare sono troppo simili all’enduro, che non “abilitano” alla velocità e che non offrono sbocchi specifici. Bella scoperta! Quando dicevamo che il limite del Motorally era quello di essere diventato un circuito di gare fine a se stesso ci prendevano per scemi, ma era solo una constatazione ed era chiaro da sempre che il Motorally è solo una parte di quanto serve per arrivare alla Dakar. È pur sempre una piccola parte utile, e la tipologia della navigazione, esaltata dal Sardegna Mondiale che invece ha ben altre caratteristiche, fa parte di questa utilità. Né si può pretendere che la scuola media si debba poi occupare di pagare l’università ai suoi alunni. Per gli sbocchi serve chi si prenda la briga, investendo o spendendo semplicemente meglio i soldi che ha, di pescare due-tre piloti (ma anche uno soltanto, già sarebbe una bella spinta psicologica) e “sponsorizzarne” il salto di categoria, anche solo un anno, intanto per provare. E questo non si fa. Il Motorally non lo fa, la Federazione non lo fa. Non ci sono sponsor che lo fanno. Triste orizzonte ma, purtroppo, niente di nuovo.
Ricordiamoci dei suoi risultati, e ricordiamo anche che, a proposito di scelte e di salvadanai, Alessandro più che scegliere è stato scelto
Per tornare agli italiani, in condizioni che è già una bella fortuna riuscire ad esserci, a volte ci vuole anche un po’ di ulteriore… fortuna. Se Miki Biasion non avesse giocato sfortunatamente male la carta di un sorpasso nella polvere, forse lui e Siviero sarebbero potuti essere di quegli italiani che… e se Alessandro Botturi non fosse incappato in una moto ingenuamente sbagliata all’ultimo momento forse oggi sarebbe davvero sul podio. Ricordiamoci comunque dei suoi risultati, e ricordiamo anche che, a proposito di scelte e di… salvadanai, Alessandro più che scegliere è stato scelto, è stato immediatamente grato e riconoscente verso una Casa, e verso l’espressione appassionata e ancora francese di quella Casa, che ha avuto il coraggio di investire cifre ancora umane per portare, tra gli altri, proprio un Italiano alla Dakar. Dov’è lo sbaglio?
Italiani. Pochi o, date le condizioni, tanti? Non è questa la questione. Che siano essi dei nababbi o dei meccanici costretti a chiudere l’officina per un mese, che lo facciano per passione pura o con un po’ di ambizione, non è questione se sono pochi o tanti. Sono comunque degli eroi, e un giorno salterà fuori di nuovo l’Italiano che se li mangia tutti, a quei bravi francesi e a quegli altri bravissimi iberici!