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Chilecito, 6 Gennaio 2015. Non è cambiato nulla. Joan Barreda e Nasser Al-Attyia restano in testa alla corsa non ostante i successi parziali di Matthias Walkner e di Orlando Terranova. E non cambia il lato più sinistro di quest’avventura tanto appassionante quanto, per certi versi, contraddittorio. La morte del polacco Michal Hernik, 39 anni e alla prima partecipazione, lascia interdetti, senza parole, senza più ragioni all’arco dell’intelligenza. Non facciamo della demagogia, non ci nascondiamo dietro un dito. Io questo punto cruciale della Dakar non l’ho mai risolto. Dieci anni fa ho perso un amico speciale, Fabrizio Meoni, ne ho sofferto con agghiacciante incredulità la mancanza, e ho continuato ad esserci e ad appassionarmi. Poi è stata la volta dell’amico australiano Andy Caldecot, ne ho avuto abbastanza e ho smesso di andarci. Ma oggi sono ancora qui, seguo la Dakar e ne esalto la valenza agonistica, che non ha pari, e rimango di sasso, inutile, fuori luogo, di fronte all’ennesimo episodio drammatico. Non conoscevo Michal Hernik. Devo ammettere che ho dovuto ricostruire il suo profilo. Non so dire, né con esattezza né con approssimazione, se questo fosse il suo sogno, la sua sfida, la sua scommessa della vita, e certamente per il polacco era una cosa importante perché non si può fare una Dakar senza prenderla tremendamente sul serio. So solo, come tutti di fronte ad eventi di questo genere, che non so niente di sogni e di incubi, di vita a di morte. So che la morte è il lato inaccettabile delle cose belle, e quello che rende brutte anche le più belle. So che è il limite della Dakar e di questo genere di avventure. Delle avventure in genere, e so che socialmente, prima ancora che individualmente, un giorno la Dakar morirà perché non saremo più disposti ad accettare che sport e morte vadano a braccetto.
Dicono del sogno che Hernik aveva realizzato, ma il sogno resta a casa e l’incubo è sulla pista. Insistono che chi fa la Dakar sa che corre anche questo rischio. Credo sia vero come la firma di una liberatoria, un atto di accettazione ma non di consapevolezza, che siano veramente in pochi quelli che lo sanno e che chi lo sa o lo ha saputo non è mai venuto alla Dakar o ha smesso di andarci. E poi la morte non è un arbitrio, non è un evento che uno decide di portarsi nello zaino perché gli appartiene, perché nel momento stesso in cui uno perde la vita consegna la morte ai suoi cari, che se la portano nel cuore finché sono in vita. Sotto questo aspetto si dovrebbe chiedere non a chi rischia, ma a chi aspetta a casa se è consapevole del rischio.
A tutti i cari di Michal Hernik, che non conosco così come non conoscevo Michal un abbraccio forte.