Dakar 2015. Italiani, Matteo Casuccio

Dakar 2015. Italiani, Matteo Casuccio
Abbiamo capito, Matteo Casuccio è uno di quei tipi che hanno una particolare abilità nel cacciarsi nei guai. Però è anche uno che, a quanto pare, riesce a cavarsela sempre egregiamente, come alla sua Dakar | P. Batini
20 gennaio 2015

Buenos Aires, 18 Gennaio 2015. Ricordate la storia della moto della Dakar rubata a Matteo Casuccio? Già quella, a parte l’originalità del fatto, era grossa, e poi era capitata come la ciliegina a guarnitura di una complessa concatenazione di eventi sfortunati. Alla fine Matteo ce l’ha fatta, in tutti i sensi. A partire e a finire la sua Dakar, ed a portarvi quel “tocco” di sfortunata originalità che non guasta e che è nel suo… stile. Racconta.

 

«Che vi devo dire. È stata una cosa gigantesca, immensa. Per un amatore, davvero immensa. Te parti da casa, e il significato delle parole freddo, caldo, fame, paura, amore, fede, scopri che qui hanno un altro valore, qui si amplificano, all’ennesima potenza. Non è stata una Dakar facile, a quanto mi dicono, rispetto alle precedenti, ma non ci ho voluto pensare neanche per un momento. Ho iniziato ad andare in moto sette anni fa, ho provato subito le gare di navigazione e ben presto mi sono posto questo obiettivo. È stato un colpo di fulmine, ci ho provato, ci sono riuscito».
 

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Allora sei nel “giro”?

«No, sinceramente, così, a caldo, non penso di tornare. Anche perché dovrei tornare per migliorare la prestazione sportiva, ma io francamente non sono un pilota, quindi non posso pensare di migliorare qualcosa che non so fare. Un po’ presuntuosamente ritenevo, prima di partire, che qui contasse più la testa che tutto il resto. Io non sono un pilota, ma neanche un meccanico, un elettrauto, ma in ogni momento in cui ho incontrato una difficoltà ci ho messo un po’ di testa, un po’ di lucidità e, con un po’ di tempo, ho risolto i piccoli problemi che mi si sono presentati».

 

Piccoli e grandi, quanto e quali momenti di difficoltà?

«Il momento più difficile, a Cachi durante la Marathon. Avevo un problema elettrico e la moto non partiva più. Si era staccato un filo dalla pipetta elettronica. Introvabile. Alla fine del trasferimento mi sono messo lì, e con le tre chiavi che avevo dietro ho iniziato a fare a pezzi la moto, deciso ad andare avanti sinché non avessi trovato il guasto. Con calma e metodo, pensando, e alla fine l’ho trovato!

Un altro momento difficile, nel Salar. La moto si è fermata 4 o 5 volte. Era completamente ricoperta di sale. Non ho collegato immediatamente le cose, ma ho pensato che dovevo lavarla con l’acqua dolce. Mi sono fermato e l’ho fatto, poi con l’aiuto di un boliviano che mi ha dato l’idea, ho strappato un pezzo della tuta da acqua e ho avvolto tutte le connessioni elettriche. Da lì in poi la moto non si è più fermata.

Terzo momento critico, l’”arresto” per essere entrato in un’area archeologica, una cosa che si è risolta bene, sono stati gentilissimi e hanno capito che si era trattato di un errore, ma in una situazione di equilibrio psico-fisico così precario, delicato, non è stata una cosa da ridere. Arrivano la notte, ti portano via, non sai se riuscirai a partire per la tappa successiva o a uscire dal Cile. Poi finalmente a Iquique, dico mi riposo. No, mi vengono a cercare di nuovo per un seguito dell’“istruttoria”. Insomma, non è stata una cosa grave, ma in quelle condizioni di testa… ho dovuto usarla ancora di più».
 


La Dakar è come te l’aspettavi o immaginavi?

«Guarda, è molto di più. Molto di più. Però mi è venuto in aiuto uno psicologo che mi ha aiutato nella preparazione. Mi diceva: “Ricordati che gli uomini sono fatti per resistere. Non generalmente per dare prestazioni eccelse, ma per resistere sì”. È così, mi sono reso conto. Tutti i giorni della Dakar parti e sai che ti arriva un problema, il freddo, il caldo, il fesh-fesh, la navigazione, o magari tutto insieme. Sai che ogni giorno, anche se non la vuoi, avrai la tua sfida. Fino all’ultimo giorno. 100 e passa chilometri di pista facile e dritta. No, piove, diventa una saponata, e tutto è improvvisamente difficile. Rischi di non finire la Dakar l’ultimo giorno, in una tappa che doveva essere una barzelletta. L’attesa del guaio, della sfida, ti da “dipendenza”. Ogni tappa che arriva aspetti che spunti la sfida del giorno, e se fai qualche chilometro che non succede nulla quasi quasi ti annoi».

 

Insomma, la Dakar è una bella “terapia”?

«A chi piace andare in moto io la consiglierei. Serve moltissimo per conoscersi. Parli molto con te stesso, io lo facevo continuamente, per ore e ore, sui temi più svariati, ma tutti sullo sfondo del farcela o no, del migliorarsi, del considerare le cose importanti e scartare quelle meno. La Dakar mi ha insegnato molto. Un’altra cosa, fossi il Vaticano, invece di mandare i preti in giro manderei la gente a fare la Dakar, perché quanto ho pregato alla Dakar non credo di averlo mai fatto. Se ci credi, madonnine e ave marie, le richiami tutte».

 

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