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«Vi descrivo il mio debutto nella trilogia dell’inferno di Fiambala – attacca Livio Metelli - . Il primo giorno, subito un inferno. Tre quarti di speciale-tragedia, tutto fuori pista tra rovi, rami secchi. Guarda qua le mie braccia! 45 gradi, e poi la tappa sospesa. Noi ci hanno tirato fuori al CP2, faceva troppo caldo, polvere all’inverosimile. Una roba… il primo pezzo era veloce ma non si vedeva nulla. Solo un grande rischio, poi il fuoripista lento, la sabbia in mezzo ai rovi. Però, lì sono andato bene. Poi sono rimasto senza benzina, mi mancavano sette chilometri al rifornimento, al famoso CP2. Elicotteri dappertutto, gente fermata addirittura al CP1. Dantesca.
La tappa successiva, invece, è andata al contrario. Pensavamo a una fornace insuperabile, e invece abbiamo trovato una giornata freschissima. Coperto, nuvoloso. Il problema è stato nella navigazione. Il primo pezzo era davvero terribile. Dei waypoint avanti e indietro, un incrocio continuo di gente che andava e veniva. Un bordello. Ma io sono andato piuttosto bene, mi sono anche divertito e li ho presi tutti. Poi sono arrivato al chilometro150, non ricordo esattamente, e ho trovato il “Bottu” lì fermo, seduto. Si vede che mi aspettava. Abbiamo iniziato a smontare la moto, all’inizio pensava che fosse la centralina, credeva di averne una di scorta ma non era così. Rimontato tutto, ci siamo messi a trafficare con le pompe. Abbiamo aggiunto un po’ della mia benzina, e la moto è ripartita. E vai, travasa continuamente, da dietro ai serbatoi davanti. Ne ho bevuta anche un po’, con il risultato che poi avevo per tutto il giorno lo stomaco in disordine. Siamo ripartiti, ma è durata una trentina di chilometri. Altri due litri, altri cinque minuti, poi basta. Trainarlo era impossibile, tutto dune, le voragini lasciate dai camion. Sette chilometri d’inferno vero. Ha deciso di rimanere lì. Io sono ripartito, a malincuore, ma non saprei cosa avrei potuto fare. Ci sono rimasto male. Una bella avventura. Ma mi è andata bene, ho fatto un pezzo da solo, c’erano solo delle tracce di un’auto, forse gli apripista, lungo un fiume. Parecchi chilometri, mai nessuno sulla pista».
E dunque come ti pare il “giochino”?
«Dico che la Dakar è iniziata lì, tra le dune prima di Belen, a Fiambala, poi fino a San Juan. Prima di allora mi è sembrata una cosa anche troppo normale. Poi è stata strana ma impegnativa, dura, sorprendente. Di tutto, viste cose dell’altro mondo. Delle pietre in mezzo alla sabbia, ti immagini? No, non puoi, ci devi passare. E poi non è sabbia, è polvere finissima, liquida. Fesh-fesh. I sassi sono lì sotto, a volte li vedi spuntare, venire “a galla”, altre volte non li vedi, li senti con le ruote. Quando li senti, altrimenti ti ci pianti e sparisci sotto il livello della polvere liquida. È impressionante. Colpi dappertutto, non puoi sentirti tranquillo e ti aspetti il peggio a ogni metro che avanzi. Ti vola lo sterzo, ti vola… il culo. Nessuna confidenza».
Bello il Bivacco della Tappa Marathon? Che atmosfera?
«Bello non direi, una scuola, una scuola non troppo in forma. Ma eravamo solo noi, solo i piloti con i nostri… problemi. Le nostre paure, ma in fondo tranquilli. Due bagni per tutti, poi l’acqua che finisce. Un po’ al risparmio, mi pare…».
Ma sei contento o no?
«Dopo Fiambala sì, sono contento, e credo che tutti lo siano stati, anche quelli che hanno incontrato le maggiori difficoltà. Finalmente è stata la Dakar, non una passeggiata che non si capisce. Finalmente là è iniziata la mia Dakar. Là i miei soldi hanno iniziato a essere spesi un po’ meglio».