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Cordoba, 21 Gennaio. Io credo che gli Italiani siano stati davvero grandi. Hanno affrontato, e nella maggior parte dei casi vinto, la più grande, dura, difficile Dakar degli ultimi dieci anni. Hanno vinto la sfida superando limiti che negli ultimi anni non erano neanche immaginabili.
Da qualche anno la partecipazione dei nostri è piuttosto limitata, è vero, ma pare di intravedere che una nuova generazione di Piloti si stia organizzando per ricreare quell’atmosfera di fertile ottimismo che può preludere a un grande ritorno dei nostri Piloti al centro del palcoscenico. Che sia la svolta, per favore, anche se i tempi non sono certo i più propizi.
Mi sono piaciuti tutti, sono certo che tutti abbiano compiuto una vera e propria impresa, e che arrivare in fondo a un’edizione così faticosa, incerta e imprevedibile è, indipendentemente dalla posizione di classifica occupata a Cordoba, una vittoria. Un autentico successo. Enorme, massimo rispetto.
Al traguardo i motociclisti Jacopo Cerutti, Maurizio Gerini, Alessandro Ruoso, Fausto Vignola, Livio Metelli e la Principessa delle Dune, Camelia Liparotti, che debuttava alla Dakar con un Side by Side. Fuori, purtroppo, Alberto Bertoldi, Alessandro Botturi, Gabriele Minelli ed Eugenio Amos, in Gara con un’Auto.
Quando si parla di Botturi e Cerutti, un occhio alle classifiche per la verità lo si dà subito. Il primo viene da lontano ed è ormai da molto tempo la nostra “ultima speranza”, il secondo è da qualche tempo la nostra ultima promessa. La loro Corsa è stata in ogni caso difficile, sfortunata davvero nel primo caso, allineata agli obiettivi più nella seconda che nella prima parte della competizione.
A Cerutti va la palma del migliore italiano in gara, Gerini è l’asso della Marathon, moto praticamente di serie, Camelia è la mosca bianca della Dakar, autentica unicità. Non ho visto Alessandro Ruoso, a volte capita nei dieci ettari di paddock e con 2-3 ore al massimo di “interazione” possibile. Rispondi al telefono, Alessandro, che dobbiamo conoscere la tua versione.
In generale ho visto negli occhi, e sentito nelle parole dei protagonisti - molti dei quali alla prima esperienza e tutti alla prova del fuoco con una Dakar finalmente, e temibilmente, vera - una grande emozione. Non parlo dell’emozione finale al traguardo, logica alla fine della lunga e mai vinta battaglia, ma di quella forma di ansia che accompagna ogni giorno della vita del “Dakariano”, e che si converte in forte emozione ad ogni tramonto del sole, quando la Tappa è finita, quando si arriva al bivacco. Nei ricordi dei protagonisti non c’è quasi mai un giudizio complessivo, un bilancio. Galleggia invece, e affiora, la sensazione di quel momento particolare, del problema tecnico, della caduta, indipendentemente dalla sua gravità. Della paura, insomma, di un momento che poteva essere fatale alla causa. L’esempio Cerutti.
Jacopo Cerutti: «La Tappa tra La Paz e Uyuni, prima frazione della Marathon, per me è stata davvero molto difficile. Ero stato male di stomaco durante la notte, e sono partito indebolito, ancora non a posto e con brutti pensieri in testa. Non riuscivo a mangiare, sapevo che la tappa era lunghissima e che poteva esserlo ancor di più. Inoltre avevamo già fatto 300 chilometri sotto l’acqua e al freddo prima di arrivare alla partenza della Speciale. Vi assicuro, una brutta esperienza! E poi il fango, quelle dunette impossibili, decine e decine di chilometri appesi al filo, che non passavano mai. Cinque, sei ore di prova speciale in quelle condizioni mi hanno messo in uno stato di ansia particolare. Non sapevo se le energie residue che avevo addosso sarebbero bastate, non riuscivo a capire se ce l’avrei fatta oppure no.
«Sono momenti terribili, ti confronti con la resa. Vai avanti, non alzeresti bandiera bianca per nessuna ragione al mondo, ma non sai se la decisione veramente dipende da te, dalla tua forza di volontà, dalla fortuna. Per fortuna il tempo passa, e l’interminabile inizia ad avere una fine. Poi, quasi incredibilmente, il bivacco. Ce l’ho fatta. È stata davvero dura, sotto molti punti di vista, ma ce l’ho fatta. Ci sono poi altri momenti cruciali, terribili mentalmente, ma che hanno una soluzione o che passano veloci, come quando sono rimasto senza benzina perché non funzionava il rubinetto di uno dei tre, o all’inizio quando la moto non era ancora a posto con le regolazioni, e a volte mi sembrava che non sarei mai riuscito a sistemarla e ad averne la massima fiducia. Per fortuna non tutti i giorni sono così, in genere sono andato piuttosto bene, la Husqvarna è un gioiello e nel team ho trovato davvero casa mia. Una tappa dopo l’altra, a volte con qualche problema, ma la cosa buona è che alla fine avevo quasi sempre un buon rendimento. Non dimentichiamo che ero lì per finire, per concludere, per vincere la sfida globale, non per il risultato. Non bisogna mai dimenticare l’obiettivo primario, mai farsi abbindolare da false sirene.
«Concludere la Dakar è il “goal” più ovvio, basilare, ma quando ti trovi immerso in una edizione così difficile, allora tutti i presupposti e tutte le sicurezze possono vacillare in un attimo. Le giornate buone, invece, aiutano. Non solo perché si sommano e danno un volto alla tua Dakar, rendono il complessivo della prestazione più intenso e più bello, ti offrono la risposta giusta agli interrogativi più inquietanti. Ne ho avute molte di buone giornate, non saprei neanche dire se una lo è stata più delle altre. Mi ricordo con grande piacere le Tappe del Perù, il suo deserto di dune e quelle discese a cento all’ora sul versante buono. Bella la tappa da Pisco a Arequipa, molto tecnica. Naturalmente il piacere più grande è quando tagli l’ultimo traguardo e sei “dentro”, nel mucchio dei pochi che ce l’hanno fatta. Mi dispiace immensamente che non ci abbiano fatto salire sul podio. Non l’ho capita. Passare sul palco, salutare il pubblico e gli amici, fare la foto con tutto il Team è sempre stata un momento simbolico, ma di grande intensità. Non capisco proprio, e non ci è piaciuto, che ci abbiano mortificati in questa maniera».