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13 Febbraio 2020. Maurizio Gerini. 34 anni e tre Dakar, tutte finite, ventesimo assoluto quest’anno. Due volte vincitore della categoria Marathon, due volte primo degli italiani al traguardo finale della maratona motoristica per definizione. C’è voluto un po’ ma, finalmente, possiamo “arrenderci”: parliamo di uno dei nostri migliori specialisti. E come mai non ce ne siamo convinti prima? La risposta è semplice e chiarissima: Maurizio Gerini è sempre stato dietro alle luci dei riflettori, ha sempre preferito concentrarsi sulla concretezza della ”missione” personale, un “lavoro” da svolgere con la massima attenzione. In fondo è anche una buona “strategia” di vita e di competizione, per incanalare risorse e energie compiutamente, secondo la personale sensibilità, senza distrazioni, senza falsi miti e obiettivi.
Con i piedi per terra, insomma. Del resto Maurizio Gerini è abituato dalla vita al rispetto e alla concretezza. A Chiusanico, sulle montagne liguri dove vive e lavora, estrae dai frutti migliori l’essenza della qualità. Non si bluffa con la natura, si parla poco e il rapporto può essere solo franco. Ecco che, come le mani forgiate dalla natura, maturano anche quella qualità che si basano sulla semplice, effettiva autenticità dell’uomo. Da cui la definizione di uomo “vero”. Ecco, per l’appunto le qualità che si adattano in modo speciale alla battaglia contro la Dakar.
Dakar Arabia Saudita.
Maurizio Gerini. “È stata un po’ una sorpresa. Bella sorpresa. Prima c’era stata un po’ di guerra psicologica. I media, con quel modo di raccontare certi fatti che succedono in tutto il mondo, portano a fare di tutta l’erba un fascio. Invece abbiamo trovato un popolo ospitale con voglia di conoscere altri popoli. Gente aperta, almeno nelle grandi città, e con voglia di comunicare, di conoscere gente nuova. Abbiamo conosciuto gente generosa, come possiamo essere noi, alla scoperta del turista che forse non conoscevano prima. Sull’Arabia degli arabi posso dire solo cose positive.
Arabia Saudita e America Latina.
MG. “Ovviamente in Arabia non hanno una cultura, una tradizione motoristica, come in Sud America, e da motociclista o da semplice appassionato di questo sport, penso che nessuno evento mai potrà mai riprodurre il calore e l’accoglienza che abbiamo trovato in Sud America! Argentina, Perù, Cile, Bolivia, è quella passione che ti spronava in qualsiasi momento. Sensazioni uniche. È vero anche che quando inizia la gara, metti gli occhiali, dai gas e vai, tutti questi diventano fattori esterni, quello che conta è il percorso, la concentrazione, i tuoi obiettivi. Al di là del contorno, quindi, la Dakar è sempre quella.”
Dakar 2020
MG. “Una prima parte molto più tecnica, percorsi tortuosi. Abbastanza bella, navigazione e guida impegnativa. Fino alla giornata di riposo. Poi abbiamo iniziato a scoprire, man mano che guadagnavamo il Sud, una Dakar più sabbiosa e più veloce. Sì, abbiamo fatto tanti chilometri, perlopiù un sacco di chott o fuoripista di collegamento tra diversi cordoni di dune. La difficoltà era ridotta all’attraversamento di questi piccoli erg, per il resto percorsi relativamente semplici e scorrevoli. Di conseguenza, piste che diventavano velocissime, e questo penso che non sia piaciuto a nessuno. Delle mezzore seguendo un cap o con pochi cambi di direzione, a manetta e in carena come nella velocità. Nessuna difficoltà ma molti rischi. Col passare del tempo, infatti, tensione e concentrazione tendono a calare, e sugli scollinamenti ciechi è facile smettere di “levare”, perché tanto dopo è di nuovo piatto. Nessuna valenza, insomma, in termini di tecnica, ma pericolo. Poi, è vero, c’erano anche altre zone più lente e impegnative, dune. Però quelle dune come ci sono in Sud America, quelle altissime del Perù, quelle vallate di sabbia in Arabia non le abbiamo trovate. Erano sempre piuttosto cordoni corti, dune piuttosto basse, le medie sempre piuttosto alte e questo forse non è piaciuto alla maggior parte dei concorrenti. Devo dire che a forza di andare così veloci ci siamo presi dei bei spaventi, e a tutti ogni tanto il cuore saliva in gola. Devo anche dire che, inaspettatamente, mi sono trovato bene su quei terreni. Forse per il mio modo di avvicinarmi a questa Gara, o forse per qualche motivo che non so, man mano che passavano i giorni mi sentivo sempre più a mio agio sia con la moto che con il terreno, e riuscivo a spingere un po’ di più. Tanto è vero che quando ho avuto modo di viaggiare con i primi mi sono sentito bene, scoprendo di poter essere anche più veloce di quanto pensassi. Poi, quel giorno in cui avevo gli intertempi migliori sono rimasto senza benzina, ma avevo fatto quasi tutta la Speciale con Cornejo, uno che in fondo correva con una moto ufficiale e che ha anche vinto. Una sorpresa vedere che continuavo a migliorare e a aumentare il passo. Mi dava coraggio e sensazione di crescita.”
La mia Gara
MG. “Naturalmente ho avuto i miei guai. Nella settima Speciale, zone piuttosto veloci, probabilmente proprio a causa delle velocità elevata mi si è letteralmente sciolta la mousse. Ho rallentato cercando di stare molto attento, sono arrivato al refueling. Usciva “fumo” dal cerchio. Che fare? Ho bagnato la gomma, cercato di mandar giù la temperatura. Questo ha aiutato un pochino, ma non ha risolto. Mi mancavano 75 chilometri alla fine. Sono ripartito. Piano, intendo 90, cento all’ora. Inutile, ho distrutto la gomma. Fermati, strappa via tutto ed ecco, sei sul cerchio. Ancora erg da attraversare, per mia fortuna non molto alti e difficili, tanta fatica, qualche insabbiamento fino al forcellone. Una faticaccia, ma ce l’ho fatta. Alla fine sono arrivato, trascinato da un altro concorrente perché era andato tutto, cerchio e raggi. Senza problemi è già difficile, con problemi diventa dura, ma quando ce la fai sei davvero orgoglioso, soddisfatto. Non è finita, arrivi indietro e l’indomani riparti indietro, naturalmente. Dalla 37ma posizione, mi pare, un incubo. Piloti abbastanza più lenti di te, non fermi ma più lenti, e muri di polvere. Questi sono i rischi più grandi. Stare attento, andar piano e sapere che davanti vanno forte, sorpassare con la massima attenzione, mantenere la calma. È una situazione che ti mette davvero alla prova. Ho buttato un sacco di tempo, ma tutto è andato bene. Infine la decima tappa, 95 chilometri di dune ininterrotte. Partivo bene, davanti. Dopo una sessantina di chilometri mi raggiunge ancora Cornejo e andiamo via insieme. Ero soddisfatto. Andiamo a prendere altri piloti… a dieci chilometri dal rifornimento, 220 dalla partenza, ho finito la benzina. Pazzesco, queste moto fanno almeno 300 chilometri con il pieno, ma tra sabbia, calore e velocità si vede che abbiamo consumato troppo. Niente, rimango a secco, disperato in mezzo al nulla. Mi ripassano due o tre piloti che avevo superato prima, e poi arriva l’americano Skyler “Sky” Owes. Mi trova in mezzo alla pista all’altro capo della cinghia che avevo attaccato alla moto. Nono assoluto alla fine, questo ragazzo mitico si ferma e mi aggancia. Dieci chilometri al traino a manetta tra le dune e le vecchie “piste dei petrolieri” ormai abbandonate e invase da lingue di sabbia portate dentro dal vento. Pazzesco! Cento all’ora, a volte volavamo in tandem strattonati dalla cinghia. Un’esperienza veramente molto “particolare”, ma a quel ragazzo devo davvero molto, gli sono riconoscente. Un gesto di fairplay pazzesco. Persi altri venti minuti, ma non è quello, è che il giorno dopo sarei partito di nuovo in una nuvola di polvere! Comunque, gara portata al termine, cosa fantastica!”
In che rapporto stanno la tua vita e la Dakar.
MG. “In che rapporto? Direi in nessun rapporto. La Dakar è una cosa che ti cattura, ti entusiasma, ti fa suo, ma io vivo in un mondo in cui tutto è molto diverso, lontano. Ho una vita che è completamente scollegata da tutto questo. Corro, faccio le gare, ma diciamo che lontano dalla Dakar nulla è come la Dakar! Io ho una vita normalissima, e in questa vita il cambiamento è qualche riconoscimento. Specialmente quest’anno, un’accoglienza incredibile da parte dei miei amici, delle istituzioni del Paese, di tante persone che mi hanno aiutato. Vedi, il Comune di Chiusanico, con la Pro Loco e tutti gli amici, hanno pensato bene di organizzare una festa. Abbiamo messo insieme le cose e questa festa è diventata un cenone per duecento persone, musica video, discorsi… e un piccolo contributo. Morale. Alla fine abbiam messo insieme ben settemila euro che abbiamo indirizzato direttamente al reparto di oncologia pediatrica dell’Ospedale Gaslini, per il quale mi ero già impegnato con il mio amico Vanni Oddera e la sua Moto Terapia. Bello poter aiutare almeno un poco questi ragazzi e le loro famiglie, così sfortunati. Questo sì è un motivo di vero, grande vanto. Insomma, quando sei lì che lavori come un pazzo per fare la Dakar, e avresti bisogno di una pacca sulle spalle, nessuno ci fa caso, ma quando ritorni ricevi tutto quello che non ti hanno dato prima, con gli interessi, e questo è davvero gratificante.”
Progetti futuri
MG. “Seguiamo la linea di Valentino Rossi: finché mi vengono bene le cose e c’è la passione, perché fermarsi? Quindi. Vedo dei miglioramenti nella mia tecnica di guida e nella velocità, la passione c’è e ho ancora voglia di sacrificarmi, quindi dico he andiamo avanti. Ho anche altri progetti. Vorrei aprire una mia struttura fissa, una Scuola, ma aspettiamo a mettere fuori i manifesti, ci sono ancora un po’ di cose da aggiustare!”
Ricky Brabec.
MG. “Ricky. Non lo conosco molto, non è una conoscenza approfondita. Ti dico che tutti noi piloti siamo stati contenti della sua vittoria. Tutti d’accordo, è davvero un bravo ragazzo, una persona umile e generosa, quindi l’ha pienamente meritata. Poi, come hanno ammesso i vertici di KTM, “prima o poi doveva succedere”, l’incantesimo si è rotto dopo quasi vent’anni. Riprendersi il primato sarà certamente uno stimolo un più dall’anno prossimo e orneranno più forti, più agguerriti.”
Paulo Gonçalves e Edwin Straver.
MG. “Purtroppo, da che io seguo e faccio la Dakar non c’erano mai stati incidenti gravi, e quindi diciamo che eravamo tutti un po’ “viziatelli”. Quest’anno abbiamo preso una bella batosta. Paulo partiva davanti a me, e dopo poco l’ho visto. C’era Toby Price fermo, si teneva la testa con le mani, a me e ad altri hanno fatto segno di proseguire. Era palese che l’incidente fosse gravissimo, era un punto molto veloce e la moto era lontana dal Pilota. Tutto lasciava intendere la gravità. Per il resto della Speciale, pur non conoscendo l’esito dell’incidente, ho chiuso il gas e penso che come me hanno fatto anche tutti gli altri. Sono batoste, ti fanno rimettere i piedi per terra, ti fanno sollevare molte domande. Siamo lì per una passione, un divertimento, una vocazione che abbiamo dentro, però la posta in gioco è veramente alta. Purtroppo succede, la cosa più pericolosa che conosciamo è il traffico ma non ci facciamo troppo caso. Può succedere di tutto e dappertutto. Ce ne facciamo una ragione per andare avanti. Non conoscevo Edwin, ma sappiamo che quello che è successo allo sfortunato Pilota olandese può capitare a ciascuno di noi che si mette in gioco in questo tipo di gare. Massimo rispetto, e cerchiamo di fare un pensiero in più su quelli che sono i rischi insiti in queste gare. È sempre stato così e credo che non cambierà.”
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