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Dammam, Arabia Saudita, 3 Febbraio. Farsi ribollire il sangue, nel bene e nel male durante e subito dopo, non porta molta acqua al mulino di un giudizio obiettivo. Si è troppo caldi per essere lucidi a sufficienza. Meglio lasciar sedimentare, poiché va da sé che il pensiero resta lì a dare continuità alle riflessioni. Alla fine della 45ma edizione il giudizio lapidario è: bella la corsa delle Moto, brutta quella delle Auto. Oggi è la volta dei pesi, ossia quanto, come e perché bella o brutta. Sapevamo che ci saremmo tornati sopra.
Bella la corsa delle Moto. Avvincente e incerta fino all’ultima speciale. Indecifrabile per tutto il suo sviluppo, fino alla fine. Persino la scommessa finale, Benavides o Price, poteva dividere equilibratamente i pesi sulla bilancia. Prima è stato praticamente impossibile dare un ordine di possibilità e preferenza agli attori principali. Non oso immaginare cosa poteva essere se non si fossero chiamati fuori anzi tempo, anzi subito, due vincenti del calibro di Sam Sunderland e Ricky Brabec, entrambi caduti e portati via con l’elicottero.
All’inizio sembrava poter pagare forte una puntata su due sorprese: Mason Klein e Daniel Sanders. Troppo giovane per evitare la testata cruciale l’americano, troppo irruente per conservare lucidità nei momenti chiave l’australiano. Però all’inizio c’erano anche loro. E c’erano per lungo tempo anche Joan Barreda e Adrien Van Beveren, destini incrociati affamati di rivalsa accumulata nel tempo. A metà e oltre della corsa avremmo potuto benissimo scommettere su Skyler Howes ed eliminare, con un po’ di coraggio e mai con sicurezza, Van Beveren e Pablo Quintanilla, tutto sommato una tacca al di sotto del ritmo infernale dei battistrada.
Alla fine del gioco, ma solo a una tappa dalla fine, è crollata la quotazione di Howes, in testa per 6 delle 14 tappe, per due ragioni: 1, mancanza di esperienza nel gestire il sottile gioco delle leadership di giornata e generale e, 2, quel qualcosa di più che avevano nel marsupio, oltre all’esperienza vincente, Price e Benavides, rispettivamente un grande talento e un grandissimo cuore. Con il che si può arrivare a dire che alla fine della Dakar Arabia Saudita 2023 il cuore ha battuto il talento. Gara più bella di così non si può immaginare, e dal punto di vista dell’equilibrio agonistico non ne ricordo altre dalle sensazioni così forti.
Non mi ha convinto troppo la formula di compensazione dei tempi per gli apripista, e non si son visti i percorsi “personalizzati”, novità “responsabilizzatrice” abbondantemente sbandierata alla vigilia. Il recupero di tempo per gli apripista ha senz’altro alzato il ritmo delle tappe, ma anche almeno in parte il rischio, e comunque la Gara si è risolta all’”antica” sfruttando la consumata strategia dei “trenini” (che probabilmente è la ragione della resa del meno “scafato” Howes). Per quanto riguarda i road book personalizzati è lecito pensare che avrebbero portato, vista l’impossibilità di creare due percorsi differenziati ma realmente, perfettamente equivalenti, ad un innalzamento delle critiche e dei reclami (magari già promessi da Team e Big). Visto che la corsa si è risolta sul filo dei secondi, è stato certamente un bene che gli organizzatori si siano presi il tempo di studiarla meglio.
Bello. Gli italiani. Oltre 70 italiani in gara. Siamo stati la quarta potenza mondiale alla Dakar, dopo Francia, Olanda e vicinissimi alla Spagna. È senz’altro un buon dato, soprattutto visto come trend. Gli ultimi anni hanno visto crescere l’interesse degli italiani per la Dakar. Non abbiamo primestelle a trainare questa tendenza (anche se l’appeal della partecipazione di Danilo Petrucci lo scorso anno è stato eccezionale) e non è cambiato il livello di empatia dell’organizzatore francese, tuttora ritenuto piuttosto… francese. Uno dei meriti della crescita italiana va ricercato nel bel lavoro fatto da ASO in Italia, e questo conduce direttamente all’opera eccellente di Edo Mossi, molto più che un “funzionario”. La passione genuina dello Sport Coordinator della Dakar non ha lasciato indifferenti e ha contribuito a ricreare quel movente di affezione che mancava da tempo. Di conseguenza non si capisce perché uno come David Castera, il Direttore della Dakar, che è pure è persona ultra competente e appassionata, non riesca a creare su più vasta scala quel “legame” con il popolo della Dakar che è venuto così naturale a Mossi.
Bello. Gli italiani. Bis. Abbiamo vissuto e ammirato la leggenda di Zack, Iader e Frankie. Non ci siamo accorti troppo di altri, ci dispiace. Abbiamo rivissuto il piccolo dramma di Eufrasio Anghileri ma non abbiamo riconosciuto la quieta inossidabilità di Lorenzo Fanottoli. Ci siamo allarmati per l’incidente di Tommaso Montanari ma non ci siamo accorti di Ottavio Missoni e del suo intervento di salvataggio a un passo dal dramma. Franco Picco è stato ancora una volta il testimone di una Storia. Altra azione, altra emozione. Altro capitolo di un romanzo incredibile. Bella la storia delle 3 Kove, tutte al traguardo, non mi sono piaciuti gli errori, prima, durante e dopo, di Fantic, e mi è piaciuto moltissimo come Picco ha saputo portare quella bandiera tra mille, evidenti difficoltà, fino al traguardo. Per finire con le Moto, abbiamo finalmente provato a immaginare che da qui a non molto un italiano torni a far battere forte il cuore: Paolo Lucci. Tra i belli delle auto, poca roba in verità. Belli Laia Sanz e Maurizio Gerini, forse Laia da sempre e ora di più da quando corre in compagnia di “Gerry”. Aggiungerei la grande forza di volontà di Rebecca Busi, purtroppo non sufficiente per far scavalcare alla debuttante tutte le difficoltà, e ci metterei anche il salto in avanti, non premiato, del Camion di ItalTrans, Bellina, Gotti, Minelli, probabilmente “spaesato” in quel nuovo ruolo di effettiva, ma inaspettata, competitività.
Parliamo ora di Dakar, del Rally allo stato attuale denunciato dalla 45ma edizione. Ancora una volta un grande show di superlativa organizzazione e un potenziale ASO-Arabia Saudita immenso. I 170 ettari del Sea Camp, il bivacco-città anti attentato, ne sono una prova, la maestria e la disinvoltura nel cambiare le carte della mano in funzione del deterioramento delle condizioni meteo, sono un’altra prova. Le condizioni sono state a dir poco infernali, mai vista tanta acqua e freddo in posti del genere, e gli organizzatori hanno cambiato bivacchi, percorsi e programmi come se avessero sempre a disposizione non solo un piano B bensì anche un piano C, un D e così via.
Non è stato bello, dal punto di vista degli organizzatori, il BoD, il Balance of Difficulties. A una prima parte di Gara molto difficile, in tutti i sensi, ha fatto riscontro una seconda parte quasi insignificante, sempre dal punto di vista delle difficoltà. Lo spauracchio dell’Empty Quarter è stato solo uno spaventapasseri, e per quelli bravi una stupenda passeggiata. Non solo, l’Empty Quarter non ha cambiato nulla di quello che era già maturato con la prima parte del Rally. Che vuol dire? Che, sempre dovendo tener presente la variabile meteo, che è materia dei se e dei ma, gli organizzatori hanno avuto paura a mostrare i denti di quel Deserto, o forse volevano solo farne un test per le edizioni a venire.
L’atmosfera purtroppo è scarsa. C’è, ma scordiamoci quella delle origini e anche degli anni d’oro. Forse non è colpa di nessuno, la Dakar troppo grande non può stare tutta sotto una tenda o dentro un sacco a pelo. L’atmosfera della Dakar sarebbe quella della tappa Marathon, tutti insieme a condividere la semplicità di un bivacco nomade sotto le stelle. È chiaro che non ci si può inventare un presepe con 3.000 persone tutte in corsa, ma è vero che, Sea Camp a parte con la sua triplice funzione, tensostrutture, tendoni industriali, infrastrutture da pozzo petrolifero e “arredamento urbano” distruggono quella magia cui era fortemente attaccato l’immaginario. Soprattutto, avvilisce parecchio la presenza di quei 100 motorhome con cui si è dato una mazzata alla democrazia della Dakar e creato altrettante isole di… isolamento. 100 camper sono un reddito, d’accordo, ma visto che lo Sponsor ci mette di tutto e di più, forse… Purtroppo, per molti aspetti, quel che è stato non può più essere, questo lo abbiamo digerito, ma non bisogna smettere di crederlo possibile.
Magnifica Arabia Saudita. Il Rally è ancora molto isolato dal tessuto sociale del Regno. La gente qui la Dakar non la conosce, la ignora, non è invitata. La corsa vive in una specie di lungo corridoio e attraversa il Paese senza essere notata. Spunta in superficie nella giornata di riposo di Riyadh e a Dammam per l’epilogo. Probabilmente ci vuole tempo, ma sicuramente anche un aiutino. In Arabia Saudita non c’è la tradizione lampo creata dal suo nascere in Francia e nell’attraversamento dell’Europa gelata, e tanto meno lo stupendo delirio di passione preesistente su cui è esplosa la Dakar in Sud America. La Dakar in Arabia Saudita è un bello spettacolo in un teatro vuoto. Meglio ancora, in uno studio televisivo, vuoto, anche se poi in “occidente” lo spettacolo entra in tutte le case. E con esso lo scenario mozzafiato.
Vertigine orizzontale. Lo spettacolo del Deserto Arabo davvero toglie il fiato, ferma il respiro. Sotto questo aspetto la Dakar non delude, anzi. È tornata alla grandiosità della solitudine nell’infinito che aveva segnato l’epopea delle origini africane. Rivive quel senso di paura nella sfida dell’io contro qualcosa di maestoso che può anche non essere solo bello. Le immagini foto e televisive sono mozzafiato e disegnano lo spettacolo senza fine del Pilota solitario alle prese con un’immensità dura e affascinante. L’oceano di dune, con le sue onde cortissime a ripetizione o altissime all’improvviso, ferma il cuore sull’avventura dello sfidante solitario. È spettacolo di immagine purissima, di cuore in gola, di vertigine orizzontale.
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