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Castiglion Fiorentino, Toscana, 8 Febbraio 2024. È passato quasi un mese. Tempo sufficiente per un bilancio così personale? La Dakar di Gioele Meoni. Gioele aveva deciso di fare la Dakar per onorare, dopo tanti anni, la promessa di partecipare alla Gara che ha reso eterno suo padre. La promessa, l’”accordo”, era quella di farla insieme, padre e figlio, lontani dallo spirito della competizione. Un viaggio nel Rally più duro del Mondo, insomma. Ma Fabrizio Meoni, l’indimenticabile vincitore delle edizioni 2001 e 2002, era mancato l’11 Gennaio 2005. Dunque materialmente, fisicamente, era impossibile “mantenere” la promessa. Poi, nel tempo, Gioele ha coltivato l’idea che il viaggio poteva, doveva essere fatto, almeno idealmente, spiritualmente. Infine la decisione. Si sarebbe preparato, avrebbe costruito la sua partecipazione alla Dakar e l’avrebbe finita. Sarebbe andato oltre, avrebbe convertito la sua Moto in un contributo all’opera avviata da Fabrizio in Senegal. Le sue scuole, la storia per lunghi anni nascosta nell’intimità riservata dell’Uomo e Campione. Solo nel Deserto, Gioele era sicuro che avrebbe incontrato suo padre, che avrebbe viaggiato con lui realizzando quel desiderio del padre così forte nel figlio.
Ma ero preoccupato. Gioele aveva preso molto seriamente la cosa. Non aveva lasciato nulla al caso. Si era presentato nei tempi e nella forma giusti all’”esame di ammissione” del Rally del Marocco. E lì si era fatto male, aprendo una finestra sull’incertezza del recupero nel poco tempo rimasto a disposizione. Ormai, tuttavia, Gioele era un atleta, si era allenato forte, forse non come era solito fare suo padre, ma comunque portando in ogni sessione la forza di quel qualcosa di più. Il carattere comune al padre. Era pronto, insomma, e neanche quel braccio al collo poteva fermarlo. Pensavo, tuttavia, che anche il codice DNA del Pilota incredibile che è stato Fabrizio potesse essere passato nella catena del figlio, e stavo in ansia perché temevo che prendesse il sopravvento. Non ero sicuro che Gioele avrebbe saputo ricondursi unicamente allo spirito del suo Viaggio a Dakar, della sua missione Dakar4Dakar. Temevo che sarebbe andato a correre rischi inutili.
Gioele e la sua Dakar mi hanno rasserenato, in un processo che non è stato corto né facile. Mi è sembrato nervoso all’inizio, in combattimento con sé stesso in quella Dakar tutt’altro che sabbia e dune, ma solo pietre e duro. Sbagliavo. Poi l’ho immaginato adattarsi piano piano, con pazienza, alla situazione. Comunque sempre sotto controllo. Ho capito che, quando la Dakar è scesa verso nella solitudine dell’Empty Quarter Gioele era ormai immerso nella Dakar immaginata, voluta, preparata. La sua Dakar del tutto particolare. Infine ho voluto credere che proprio in quella solitudine di sabbia e di dune a perdita d’occhio Gioele Meoni avesse incontrato Fabrizio Meoni, e che da quel momento avessero viaggiato insieme.
È così, Gioele? Ma partiamo dal prima. Quale è stato l’impatto nel momento in cui ti sei accorto che eri “dentro”?
Gioele Meoni. “È stato bello. Quasi di colpo sono sparite tutte le ansie. C’ero dentro e mi piaceva. Non mi faceva paura. Si vede che avevo metabolizzato correttamente. Mi sono sentito subito bene, subito a mio agio. Si vede che le parole di Gio’ Sala avevano avuto un effetto benefico. Lui mi diceva: “Cavolo, se mi dicono che il mio obiettivo è finirla, indipendentemente dal risultato, cavolo io la finisco!”. Mi sono accorto poi che l’effetto era in qualche modo contrario, perché in qualsiasi modo tu l’affronti, la Dakar è talmente complicata che la garanzia di finirla non puoi mai averla. Però quelle parole hanno avuto l’effetto di eliminare del tutto la pressione. E così è stato, pressione zero, stavo bene.
Anche i primi giorni? Li immaginavi così duri?
GM. “Il primo giorno. Solo quello. Duro sì. Lì si è capito che era una Dakar da “scrematura” veloce. Era una tappa in uno scenario irreale, da videogioco. Ci hanno buttato dentro a un vulcano. Lava, pareti e nero. Road book uniforme: “Enter lava”, “exit lava”, “follow the black wall”, via così. E grip zero. Piano, sempre più piano per non scivolare. Mai più di venti chilometri orari. Pensavo che non l’avrei mai finita con la luce del sole. È lì che Schareina, che perseguiva un risultato immediato, è andato oltre e, cercando di fare la differenza, è caduto e si è ritirato. Anche i “big”, mi sono accorto poi, hanno abbassato drasticamente le loro medie. Un po’ meno Brad Cox, che si è rivelato un grande compagno di avventura, un amico, che quel giorno ha fatto il quarto assoluto.”
Quale era, in quei primi giorni, il tuo atteggiamento mentale? Sentivi di potercela fare?
GM. “Non mi ponevo il problema. Stavo e mi sentivo bene, tutto entrava nei tempi e nel modo giusto. Mi ero detto che i primi tre giorni dovevo finirli, sembravano (ed erano), i più difficili, poi ho spostato l’obiettivo sulla giornata di riposo, quando avrei rivisto mi moglie Cate e gli amici, Federico e la combriccola venuta dall’Italia. Intanto un obiettivo fisso: trattare bene la Moto, fare la manutenzione e i controlli cercando di prevenire gli imprevisti, mangiare, dormire, alzarsi, prepararsi e andare. Ho visto gente già in affanno, anche più lenta che sembrava arrivare dalla guerra, che lasciava indietro le operazioni e aggiungeva incertezza allo stato generale. Avere, trovare e organizzare il tempo. E trattare bene la Moto. Sono due cose importanti. Una sola scivolata in tutta la Gara, solo un paramani rotto, marce lunghe, mai tirare il collo al motore, cercare di assecondare le difficoltà con la guida. In questo modo oserei dire che è stata una Dakar noiosa, perché non ho mai avuto un evento straordinario cui rimediare. Mi sentivo come a casa.”
Evidentemente eri ben preparato, fisicamente, mentalmente e… meccanicamente…
GM. “Vero, ma anche un po’ meno. Mi ero preparato bene, ma con l’incidente del Marocco in effetti l’ultimo mese non sono andato molto in moto e sono partito ancora dolorante. Ma anche questo, con il senno di poi, devo dire che mi ha aiutato. Nel senso che la paura di sentire male alla spalla o di acuire la non perfetta condizione mi ha aiutato a prenderla con le molle, a stare attento e a non forzare, a ricondurmi al modo “originale” di affrontare la corsa. Anche sulle dune dove mi divertivo. “Meccanicamente” sì, anche. Preparato ma non è mai troppo. Di motorini, moto e trabiccoli ne ho smontati, e mi ero studiato bene la mia. Sono debole sull’elettrica e ancora meno sull’elettronica, non so come avrei risolto se avessi avuto un problema di questo tipo. Per questo ho semplificato l’impianto (come faceva suo padre, ndr.) e sono stato attento a non fare danni. La Moto era a prova di bomba, e io mi sentivo… allo stesso modo!”
Empty Quarter. 48H Chrono. Non sei sembrato affatto in difficoltà. Anzi. Sembravi a tuo agio. È così?
GM. “È così, mi sentivo bene, ero contento. Mi sono goduto ogni sveglia, ogni partenza, ogni momento. Non mi sono mai sentito dirmi “chi me lo ha fatto fare?”, e man mano che arrivava la sabbia mi sentivo ancora meglio. Bella la tappa corta tutta di sabbia, bellissima la 48H Chrono. Bellissima la tappa Marathon in quel contesto, ritrovarsi seduti per terra attorno al fuoco bravi e meno bravi, “big” e amatori come me. Niente camper, niente comodità esclusive, tutti uguali, tutti la stessa razione alimentare di “emergenza”, tutti a armi pari, tutti con gli stessi “lavori” da fare alla Moto e tutti con le stesse condizioni e gli stessi tempi a disposizione. Me la sono proprio goduta!”
Tappe e contesto ideali per te?
GM. “Sì, direi di sì. Guidare sulla sabbia mi piace tantissimo. È un divertimento assoluto. C’è un modo, un ritmo, un sistema che ti consente di fare meno fatica, di goderti la guida e di risparmiare la Moto (e la benzina, a fronte di molti che hanno avuto problemi io son sempre arrivato con sei-sette litri di margine). E anche un programma. Volevo arrivare al mini bivacco del KM 420 e così sono riuscito a fare. Zero rischi e navigazione al cap. Bellissimo! Per la verità mi piace molto anche l’”herbe a chameaux” (l’inferno assoluto per i più, ndr). Lì ti scaldi subito, vai in ebollizione, ma è lì che guidi veramente la moto in una situazione che cambia continuamente, imprevedibile. Certo, è lì che ti accorgi che devi essere allenato, lì mi sono accorto che lo ero. Il contrario, per me, sono quei tratti veloci e facili, nei quali non è questione di allenamento e se hai coraggio dai gas ma prendi immancabilmente dei rischi. Peccato, di tratti con quei cespugli di erba per cammello ce n’erano pochi quest’anno. Comunque, Empty Quarter. Situazione ideale, bellissima, è lì che la mia Dakar è stata più bella!”
È lì che hai ritrovato il tuo babbo? In che modo hai vissuto quella riunione ideale?
GM. “Non proprio lì. E non durante le prove speciali. Me l’aveva insegnato il mio babbo, che durante le speciali si deve tenere sempre la concentrazione massima sulla guida e sulla navigazione. Non si deve concedere tempo alle distrazioni, di qualunque genere. Durante i trasferimenti invece sì, l’ho incontrato ben presto, pensavo tantissimo alla sua compagnia, a come lui avrebbe affrontato una situazione o un’altra, un problema o una tappa difficile. Di base c’erano le sfide che lui mi lanciava. Come la sfida di navigazione, nella quale non avrei dovuto perdere neanche un waypoint, pena, se fosse successo (come è successo) che mi avrebbe preso in giro per tutto il giorno. E nonostante l’attenzione a quel pensiero, a quei ricordi, un giorno mi sono perso di brutto. È stata l’unica volta. Avevo preso confidenza a “tagliare” un po’ le note del roadbook, anticipando i cambi di direzione per ritrovare più avanti la pista o la traccia giusta. È una tecnica che quelli bravi adottano metodicamente, e che, trecento metri qui e trecento là, consente di trovare un vantaggio. Il terzo giorno, non so come mai, mi sono messo in testa un cap, ma non era quello giusto. Ho anticipato di brutto ma ho preso la direzione… sbagliata! Altre volte aveva funzionato bene, anche forse perché stando sempre nella mia comfort zone avevo il tempo di ragionare con calma. Quella volta invece, convinto ma sbagliando, mi sono ritrovato in mezzo al niente, senza tracce per tornare indietro perché c’erano solo pietre. Ho spento la Moto, ma non sentivo alcun rumore, non vedevo polvere da nessuna parte, e non sapevo da che parte ricominciare. Per fortuna sul roadbook elettronico c’è una funzione che ti consente di vedere la traccia che hai fatto, l’ho attivata e sono tornato sui miei passi finché non ho ritrovato il bivio cruciale. Dopo sono tornato a dare del “lei” alla navigazione! Un altro momento in cui ho perso la concentrazione è quando ho visto la Moto di Paolino (Lucci, ndr.) abbandonata. Non ho visto lui, era già sull’elicottero dei soccorritori. Ecco, lì mi sono venuti dei pensieri. Poi l’ultima Tappa, gli ultimi dieci chilometri. Era una tappa vera, ma a quel punto ho lasciato entrare la consapevolezza che ce l’avevo fatta, che era venuta esattamente come l’avevo immaginata, senza alcun tipo di cedimento, di debolezza, di problema, e che ce l’avevo fatta in compagnia di Fabrizio.”
E la sfida?
GM. “La sfida è stata quella di non farmi prendere dalla competizione. Resistere quando ti passa qualcuno, quando vedi l’anzianotto che va come un missile, quando incontri sulla pista quello che ti ha messo dietro il giorno prima, e ti viene in mente di fargliela vedere… c’ho dovuto combattere un po’, ma ci sono riuscito, sono riuscito a dare alle parole del Gio’ il senso della motivazione a non sbagliare.”
Dimmi la verità! Pensi di farla ancora, o il progetto Dakar4Dakar prosegue verso Dakar in altro modo, alla scuola? Vorresti ancora andare in Moto in Africa, continuare il tuo viaggio ideale sulle orme della storia di Fabrizio?
GM. “Francamente non saprei. Credo che sia un po’ presto per darsi una risposta, e che non sia urgente. Mia moglie Cate è stata “presa”. Anche se considera sempre al primo posto i rischi, ha capito che mi piace, che già scalpito, che è bello avere un motivo per allenarsi, che non posso più andare in Moto solo per il gusto di farlo. Però ci prendiamo almeno una “mesata” di riposo senza pensarci troppo, poi vedremo. Adesso e fino all’estate voglio impegnarmi nel mio lavoro, è un momento cruciale per Whip, il mio programma di tracking e navigazione, e voglio vedere dove possiamo andare. Poi, a settembre quando uscirà il docu-film della nostra storia, di Fabrizio e mia, sarà anche il momento in cui metterò all’asta la mia Moto per concludere il progetto Dakar4Dakar. È per una buona causa, ma mi va l’idea di vedermela attorno ancora per un po’. E poi? Dakar? Africa Eco Race? La Dakar puoi farla in un solo modo. No, in due modi: malle moto o assistito. E una KTM Rally. Africa Eco Race è più aperta ad altre possibilità. Provarci con una Moto esotica, con una da sviluppare. La Dakar è una sola, la rifarei, Africa Eco Race mi attira meno ma riconosco che ha una varietà più ampia di possibilità, di scelte. Vedremo, qualsiasi cosa decida di fare lo voglio fare al meglio, quindi è anche possibile che salti una “mandata” e che se ne riparli più avanti. A questa domanda, insomma, adesso non c’è una risposta certa!”
Complimenti. Bellissimo, la Dakar di Gioele Meoni insegna qualcosa di importante!
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