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Cos’era la Sei Giorni, cos’è oggi? Come l’hai vissuta? A ruota libera, un po’ della tua storia, per favore.
Arnaldo Farioli. «C’è il passare del tempo, e c’è l’evoluzione, delle cose, del mondo, delle persone. Parliamo di Enduro. Una volta c’erano dei lavoratori che per hobby, il sabato e la domenica, andavano a fare le corse. Per fare la Sei Giorni ci prendevamo le ferie. Poi si doveva avere la massima cura della motocicletta, e fare attenzione a non romperla, perché sennò restavi a piedi, o quanto meno andavi in affanno. Oggi le moto non si rompono più, hanno delle buone sospensioni, hanno dei buoni motori, delle buone gomme. E i Piloti sono diventati dei professionisti. È l’evoluzione, ma diventa difficile confrontare le Sei Giorni di allora con quelle di oggi, difficile mettere in relazione quello che si faceva una volta e quello che si fa oggi. Sentivo ieri sera Agostini, che ha presentato il suo Libro qui a Olbia. Giustamente “Ago” dice: “Ai miei tempi c’erano certe sospensioni e certe gomme, non c’erano le vie di fuga. Erano quella, e questa di oggi, due epoche per molti versi completamente differenti”. Quindi è quasi impossibile dire se era meglio prima o lo è ora. Questa è l’evoluzione. Non so quante Sei Giorni ho fatto, direi sette o otto. Ho solo una medaglia d’argento, tutte le altre sono d’oro. Una volta era importante arrivare in fondo e la medaglia d’oro era il significato di quell’impresa. Una volta non ci sono riuscito perché non mi è partita la moto la mattina dell’ultimo giorno. A pedale non partiva, e a spinta nemmeno. Tutto a volte era assurdamente complesso. Punzonavano tutto, per esempio, il manubrio, i cerchi, i freni. Pensa, se li rompevi non li potevi aggiustare e diventava pericoloso».
Allora, espedienti?
«Espedienti. Mah, diciamo che l’occasione faceva l’uomo ladro. Tutti dicono che noi abbiamo fatto e cambiato di tutto, ma, ascolta, a noi non ci hanno mai squalificato per aver cambiato o fatto qualcosa fuori dalle regole. Gli altri non lo so, non voglio saperlo né dirlo. Diciamo che chi era più bravo… Ovviamente eravamo sempre in guerra con i cecoslovacchi, con i Piloti della allora DDR, con la Germania, e tutti i trucchi del mestiere li avevamo imparati dai tedeschi. È che, sai, l’italiano nell’arte di arrangiarsi è un po’ più bravo dei tedeschi, e allora ecco perché ci hanno affibbiato questa nomea».
Dopo tanti anni sei ancora qui, a seguire la Sei Giorni, e non perché sei impegnato “professionalmente”…
«Io sono qui solo in veste di spettatore. Adesso la “ditta” delle corse la manda avanti mio figlio Fabio, che penso sia molto più bravo di me, anche perché i giovani, checché se ne dica, hanno una marcia più di noi. Vuoi per la mentalità, p perché noi siamo ancorati a tradizioni ormai nettamente superate».
E allo spettatore piace questa Sei Giorni?
«Ah, Ah, Ah. Diciamo che il quarto giorno ho visto la Sei Giorni vera. Purtroppo anche questo è un segno dei tempi. Una volta ti mettevano dentro una bella mulattiera nel bosco, tu andavi dentro e ci stavi magari mezz’ora, senza vedere la luce del sole. Ti facevi male e nessuno diceva nulla. Oggi se ti fai male, anche una cosa da niente, e non possono venire e prenderti dopo trenta secondi con settantasette elicotteri e ambulanze, guai, succede la rivoluzione. Chi fa questo Sport sa che qualche rischio lo corre, altrimenti potrebbe giocare a tennis. Gli organizzatori oggi non possono più permettersi di prendere il minimo rischio, o devono farlo solo se è super, super calcolato, e poi magari vanno ancora incontro a qualche grana. E allora, sai, giustamente, facendolo tutti per passione, se devono correre tutti questi rischi, chi glielo fa fare?»
Ma stavamo parlando di storie, di aneddoti. Dai…
«Ah, Ah. Una storia di Sei Giorni, per farti capire dell’essere “svegli” o no. Vabbè. Sei Giorni in Inghilterra. L’Italia viene con le Ducati. Una volta, come abbiamo detto, punzonavano tutto. L’abbiamo già detto prima, ma pensa, anche le forcelle, gli steli della forcella. C’erano 40-50 punzonature, e non potevi cambiare niente. Il segreto era allora, ti ripeto che agli italiani non gli insegni nulla, riuscire a rubare un po’ di vernice delle punzonature. E diciamo che gli italiani erano quasi maestri. Andavi con lo straccio, mettevi due dita dentro il barattolo, chiudevi la mano nello straccio, correvi al camion e punzonavi qualcosa, e avevi qualcosa di più, un margine, diciamo una ruota. Solo che sulla vernice non potevi mettere il numero di gara, perché non sapevi chi avrebbe rotto la ruota. Beh, quando si è trattato di usare lo stratagemma, gli italiani hanno pensato bene di segnare il numero sulla nuova punzonatura non con il retro del pennello, come si faceva e si fa tutt’ora, bensì usando un cacciavite, che ha lasciato sul cerchio l’incisione. Vedi, bravi da una parte, ma meno dall’altra. Insomma, quando hanno sovrapposto la nuova punzonatura, ai commissari è bastato togliere la vernice e hanno trovato sotto un altro numero inciso col cacciavite. Fuori! Ragazzi, andate a casa!»